Psichedelici, ecco come si usa l’esketamina (sotto supervisione medica) contro la depressione

Dopo gli abusi e gli usi impropri degli anni '60 e '70 la ricerca, le prime approvazioni e le sperimentazioni sono ripartite in Europa. A TrendSanità il racconto di un caso italiano

Quello che ieri era dominio degli sciamani, oggi è un patrimonio scientifico che si sta affermando anche nella scienza occidentale. Le sostanze che ieri servivano per mettersi in contatto con il divino oggi servono a scopo di cura.

Le sostanze psichedeliche sono tanto affascinanti quanto (ancora) poco conosciute: dopo anni di proibizionismo, da alcuni decenni la ricerca è ripartita anche in Europa e negli Stati Uniti e con lei sono arrivate le prime approvazioni dalle autorità regolatorie e nuovi studi scientifici che ne indagano le potenzialità.

Un gruppo italiano sta conducendo una review della letteratura, per sensibilizzare sull’argomento e per «iniziare a rifletterci, prima in termini culturali e poi anche operativi», come afferma a TrendSanità Federico Durbano, direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze dell’ASST Melegnano e Martesana.

Lo studio è ancora in corso, tuttavia alcune informazioni possono essere anticipate.

L’importanza del setting

«Gli sciamani avevano una struttura abbastanza rigida di setting: avevano già capito che uscire da questo modello creava problemi – racconta Durbano -. L’esposizione alla sostanza avveniva esclusivamente sotto l’occhio vigile della guida spirituale, che aiutava a elaborare l’esperienza». Proprio come oggi per molte somministrazioni è indispensabile la figura di uno psicoterapeuta: «Quella che in passato era una condivisione culturale, oggi sono sedute preparatorie».

Le sostanze psichedeliche sono tanto affascinanti quanto (ancora) poco conosciute

Da un paio d’anni è disponibile in Italia l’esketamina, una sostanza psicotropa autorizzata da Aifa esclusivamente per il trattamento della depressione maggiore resistente.

Serena Civardi

«I Centri che ne fanno uso devono sottostare a un rigido protocollo – afferma Serena Civardi, medico psichiatra dell’ASST Melegnano e Martesana. A differenza della ketamina, l’esketamina non è somministrata per via endovenosa, quindi il setting può essere ambulatoriale senza necessità di un ricovero».

Le controindicazioni, poi, non sono molte e sono riconducibili alla sensibilità al farmaco, alla storia positiva per ipertensione non controllata (ma basta che la persona abbia una terapia anti-ipertensiva ottimale e può ricevere la somministrazione), a condizioni che possono portare a un aumento della pressione endocranica come pregressi eventi cerebrovascolari. Inoltre, l’indicazione è quella di privilegiare soggetti che non abbiano grandi comorbidità internistiche.

«La persona che si sottopone al trattamento non deve sottostare a procedure particolari: deve tuttavia essere accompagnata perché per 24 ore non può guidare. Inoltre, deve essere a digiuno da due ore e non deve aver ingerito liquidi nei 30 minuti precedenti la somministrazione», continua Civardi.

La somministrazione di esketamina

«Il setting prevede un lettino inclinato a 45 gradi o una poltrona reclinabile: dopo aver misurato la pressione si può procedere alla somministrazione nelle narici. Di solito si procede con un device per chi ha più di 65 anni, e tre per gli under65. Tra un device e l’altro sono previsti cinque minuti e l’intera osservazione dura complessivamente un’ora. La pressione viene misurata ancora a fine trattamento e, dopo aver valutato lo stato generale del paziente lo si riaffida al caregiver».

Il trattamento avviene in una stanza silenziosa, senza luci forti o rumori disturbanti e non prevede l’interazione con il professionista: «A volte durante la somministrazione le persone usano tappi per le orecchie o ascoltano musica in cuffia. Può succedere che si addormentino. Alcune persone possono avere esperienze dissociative che non sono percepite come disturbanti, ma che rimangono circoscritte al periodo di osservazione». 

Federico Durbano

Il protocollo prevede una fase iniziale con più somministrazioni a settimana, ridotta poi a una ogni sette giorni per poi arrivare a una al mese e infine alla fase di mantenimento che può durare più mesi. «Non si tratta di una terapia estemporanea e nemmeno sostitutiva – precisa Durbano -. L’esketamina si associa all’antidepressivo: anche per chi ha una depressione resistente alle spalle con molti tentativi farmacologici, il farmaco va mantenuto».

Accanto alle terapie psichedeliche assistite come quella appena descritta c’è la strada delle terapie psichedeliche tout court, che prevedono l’utilizzo dello psichedelico come trattamento farmacologico non agganciato alla psicoterapia: «In realtà l’autoprescrizione e l’autosomministrazione di queste sostanze sono da evitare – ribadisce Durbano -. Il rischio è che si ripeta quanto avvenuto in passato quando, a fronte di un eccessivo entusiasmo da parte spesso degli stessi ricercatori, c’è stato anche un uso fuori dai contesti terapeutici e sperimentali, con conseguenze non sempre positive».

Quali sfide

«Esiste in Italia una forte resistenza culturale: le società scientifiche stanno lavorando sulla formazione degli operatori, che mediamente hanno una scarsa capacità di aderire all’evidence based medicine, finendo per arroccarsi in posizioni ideologiche di gruppo», premette Durbano.

E poi c’è la componente politica: «C’è un atteggiamento legato a una mal interpretazione di che cosa sia la salute mentale, con una frequente confusione tra che cos’è disagio e che cos’è malattia: il primo è un segnale interno che dice che devo riadattarmi, la seconda è una condizione patologica. È importante chiamare le cose con il proprio nome».

Per l’esperto «la salute mentale si deve occupare delle malattie, con interventi di prevenzione secondaria (la cura), terziaria (la riduzione del danno), ma soprattutto primaria (attività per diagnosi precoce o meglio ancora interventi di rafforzamento delle capacità reattive del singolo individuo nelle situazioni di stress o nell’individuazione di situazioni di fragilità)».

Gli psichedelici non sono la panacea e al momento non abbiamo dati a sufficienza per poter trarre conclusioni certe e affidabili

Infine, è importante allinearsi a livello internazionale per trovare un’alternativa ai farmaci attualmente utilizzati per la salute mentale: «Si possono sondare strade nuove, anche perché le terapie farmacologiche classiche in parte vengono usate male e in parte non rispondono a tutti i bisogni. È importante testare altri percorsi: se troviamo strade alternative meno costose dal punto di vista dei rischi individuali e altrettanto efficaci non vedo perché rifiutare a priori questa possibilità solo perché negli anni ‘70 non tutti i ricercatori hanno avuto un comportamento distaccato nei confronti di queste sostanze».

Il riferimento è a Timothy Leary che in quel periodo fu un attivo promotore della diffusione delle sostanze psichedeliche, sostenendo che fossero adatte a tutti. In realtà, è importante ricordare che «i trattamenti psichedelici non sono la soluzione a tutti i mali e vanno utilizzati per quello che dimostrano di saper fare. Occorre raccogliere e analizzare i dati di real word e non le aspettative, costruendo modelli sperimentali solidi. Attualmente i dati disponibili sono ancora troppo pochi per poter trarre conclusioni certe e affidabili, e anche di questo bisogna tener conto. Un conto è l’entusiasmo, l’aspetto emozionale della ricerca, un altro è il dato reale che va sottolineato in questo momento nella sua pochezza. Non è sufficientemente forte».

Infine, ci sono i pazienti, che vanno coinvolti nella progettazione e nell’esecuzione dell’intervento. «È fondamentale raccogliere da loro il livello di esito non solo in merito ai sintomi, ma anche per quanto riguarda il gradimento: quanto è stata piacevole per loro l’esposizione al trattamento? Un alto costo emotivo di un trattamento valido dal punto di vista medico probabilmente non sarà accettato. Bisogna lavorare anche su questi aspetti».

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista