Ogni anno oltre 2 milioni di giornate di degenza improprie per la difficoltà a dimettere gli anziani soli

È il peso che ricade indebitamente sulla sanità pubblica a causa delle carenze del sistema di assistenza sociale, ma anche dei servizi territoriali sanitari poco attrezzati alla presa in carico di questi pazienti. La survey condotta in 98 strutture indica che dalla data di dimissioni indicata dal medico a quella effettiva di uscita passa oltre una settimana nel 26,5% dei casi, da 5 a 7 giorni nel 39,8% dei pazienti, mentre un altro 28,6% sosta dai due ai quattro giorni più del dovuto.

Il motivo? Il 75,5% dei pazienti anziani rimane impropriamente in ospedale perché non ha nessun familiare o badante in grado di assisterli in casa, mentre per il 49% non c’è possibilità di entrare in una Rsa. Il 64,3% protrae il ricovero oltre il necessario perché non ci sono strutture sanitarie intermedie nel territorio mentre il 22,4% ha difficoltà ad attivare l’Adi. E il tutto ha un costo per il Ssn di circa un miliardo e mezzo l’anno.

I nostri ospedali sono così pieni che nei pronto soccorso si affastellano anche per giorni i pazienti in lettiga che non trovano posto in reparto. Perché letti e personale sono stati via via tagliati negli anni. Ma anche per via del fatto che la metà dei ricoveri riguarda pazienti over 70 e in oltre il 50% dei casi restano in reparto circa una settimana in più del necessario, visto che non hanno un familiare che possa assisterli e che nemmeno possiedono una pensione così ricca da potersi pagare i circa duemila euro di retta mensile per una Rsa. Per non parlare del fatto che nella gran parte dei casi mancano strutture sanitare intermedie nel territorio, e che in un caso su quattro si ha difficoltà ad attivare l’Adi, l’assistenza domiciliare integrata.

A svelare come sulla sanità finiscano per scaricarsi impropriamente le carenze del nostro sistema di assistenza sociale, basato più sull’erogazione di assegni che di servizi, è un’indagine condotta da Fadoi, la società scientifica di medicina interna, su 98 strutture ospedaliere sparse lungo tutta Italia.

Considerando che i ricoveri nei reparti di medicina interna sono circa un milione l’anno e che almeno la metà di questi sono di over 70. E tenendo poi conto che ben più del 50% di questi prolunga mediamente di una settimana il ricovero oltre le necessità sanitarie, in tutto sarebbero 2,1 milioni le giornate di degenza in eccesso. Un numero che influisce non poco sull’intasamento degli ospedali e che considerando il costo medio di una giornata di degenza, pari a 712 euro secondo i dati Ocse, fanno in totale un miliardo e mezzo l’anno di spesa che si sarebbe potuto investire in vera assistenza sanitaria.   

Partiamo dall’età dei ricoverati. Nei reparti di Medicina Interna – ma il discorso non cambia di molto anche negli altri – gli over 70 sono oltre la metà nell’87,8% delle strutture. Molti anche gli ultraottantenni, che sono oltre la metà nel 17,3% delle strutture, tra il 40 e il 50% nel 20,4% dei casi, tra il 30 e 40% nel 24,5% dei reparti. Non si pensi però alle medicine interne come a dei parcheggi per anziani soli. Quelli che vengono ricoverati sono infatti pazienti complessi, che nell’80,6% dei casi richiedono comunque oltre sette giorni di degenza per essere adeguatamente trattati, tanto da necessitare di un’alta intensità di cura nel 28,6% dei casi, media per il 69,4%. Numeri che dovrebbero far riflettere circa la classificazione delle medicine interne come reparti a bassa intensità di cura. Il problema è che quando lo stesso medico da disposizione affinché il paziente venga dimesso, mai quella data corrisponde con quella effettiva delle dimissioni. Queste infatti si protraggono per oltre una settimana nel 26,5% dei casi, da 5 a 7 giorni nel 39,8% dei pazienti, mentre un altro 28,6% sosta dai due ai quattro giorni più del dovuto.

Per quale motivo lo mostra la stessa survey lanciata da Fadoi. Il 75,5% dei pazienti anziani resta impropriamente in ospedale perché non ha nessun familiare o badante in grado di assisterli in casa, mentre per il 49% non c’è possibilità di entrare in una Rsa.  Il 64,3% protrae il ricovero oltre il necessario perché non ci sono strutture sanitarie intermedie nel territorio mentre il 22,4% ha difficoltà ad attivare l’Adi. In altri termini un mix tra deficit di assistenza sociale e di mancata presa in carico da parte di servizi e strutture sanitarie territoriali.

Una volta dimessi il 24,5% dei pazienti ultrasettantenni va direttamente a casa, il 41,8% avendo però almeno attivato l’assistenza domiciliare. Il 15,3% finisce in una Rsa, il 18,4% in una struttura intermedia.

“Quello che rileva l’indagine è quanto purtroppo tocchiamo con mano quotidianamente, ossia la necessità di farsi carico di problematiche sociali che finiscono per pesare indebitamente sugli ospedali e sui reparti di medicina interna in particolare”, commenta Francesco Dentali, che dal 1 gennaio è diventato il nuovo Presidente della Fadoi. “E’ un quadro che dovrebbe far riflettere sul nostro sistema di assistenza sociale, che secondo l’Osservatorio del Cnel per i servizi impiega appena lo 0,42% del Pil, mentre in base ai dati Inps oltre 25 miliardi vengono erogati sotto forma di assegni, come quelli di accompagnamento o di invalidità. Questo senza considerare i 3,4 miliardi erogati direttamente dai Comuni. Un sistema inverso a quello adottato da molti Paesi, soprattutto del Nord Europa, dove l’ottimizzazione delle risorse disponibili passa per un maggiore investimento nei servizi di assistenza alla persona. Fermo restando -conclude Dentali- che c’è anche un evidente carenza di servizi sanitari intermedi territoriali, perché parliamo pur sempre di pazienti che al momento del ricovero nei nostri reparti necessitano di una media o alta intensità di cura”.

A questo proposito dovrebbe intervenire il nuovo Dm 77 sulla riforma delle cure primarie, che queste strutture intermedie le individua negli ospedali di comunità, luoghi dove dovrebbero essere assistiti quei pazienti che non necessitano più del ricovero ordinario ma che nemmeno possono essere assistiti in casa.

Per il presidente uscente di Fadoi, Dario Manfellotto, “le ricette come le Case della Comunità e gli ospedali di Comunità sono vecchie. Sono modelli che abbiamo già definito e sperimentato ma che spesso non funzionano e lo abbiamo visto per esempio col Covid.  Erano presenti da anni anche in alcuni piani sanitari regionali, come quello del Lazio ad esempio. E non mi sembra che lì dove erano presenti le Case della salute vi sia stata una maggiore capacità di fronteggiare per esempio la pandemia. Rafforzare il territorio non vuol dire disseminare l’Italia di altre strutture burocratiche, come le oltre 600 centrali operative territoriali, previste all’interno degli attuali distretti. 
SI deve soprattutto mirare a mettere insieme le forze già in campo, che sono molte ma senza una regia. È necessario avere percorsi di assistenza chiari e semplificati, evitando di creare ulteriori percorsi a ostacoli per cittadini e operatori sanitari, proprio in quel “territorio” che dovrebbe agevolare le cure. E poi come al solito si scommette su appropriatezza, riduzione ricoveri e meno accessi al Pronto soccorso. Ma è un film già visto. Per esempio il collegamento casa-territorio-ospedale-post acuzie-riabilitazione-casa dovrebbe essere ben precisato con regole d’ingaggio strette e rigorose. La regia non la può fare il burocrate della Centrale operativa territoriale ma una équipe di medici e operatori competenti. E poi un ospedale di Comunità a quasi totale gestione infermieristica non può funzionare. In questo Recovery tra l’altro vi è una riduzione del numero dei medici e una ‘diminutio’ del ruolo del medico: questo non può essere il futuro della sanità”.

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