Attenersi alle linee guida non salva i medici dalla responsabilità penale, lo dice la Cassazione

Con la sentenza n. 40316 del 4 novembre 2024, la Cassazione si esprime chiaramente sull’interpretazione di uno dei punti cardine della Legge Gelli-Bianco, che ha introdotto il criterio delle linee guida a tutela dei clinici: il mero rispetto delle linee guida non esonera il sanitario dalla responsabilità se tali linee guida risultano non adeguate al caso concreto

Il semplice attenersi alle linee guida prescritte dalla legge Bianco-Gelli non mette necessariamente al riparo i medici da una condanna penale. Lo ha stabilito la III sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, che ha ritenuto infondato il ricorso di una ginecologa dell’ospedale Santo Bambino di Catania, denunciata perché ritenuta responsabile di aver omesso la prescrizione di un esame che avrebbe evitato la morte del bambino che la paziente aveva in grembo, nonostante l’accertamento clinico in questione non fosse fra quelli raccomandati dalle linee guida.

Il semplice attenersi alle linee guida non può e non deve rappresentare l’unico criterio che motiva la sussistenza o meno di un risvolto penale in un processo per malpratica sanitaria

Con la sentenza n. 40316 del 4 novembre 2024, per la prima volta la Cassazione si esprime chiaramente sull’interpretazione di uno dei punti cardine della Legge Gelli-Bianco, la norma che aveva abolito la distinzione fra colpa grave e colpa lieve, introducendo dei criteri come le linee guida proprio per proteggere i clinici dalla eccessiva facilità di incorrere in denunce per malpratica. La sentenza ha confermato l’indirizzo indicato anche nella relazione della Commissione ministeriale sulla responsabilità professionale dei sanitari, presieduta dal magistrato Adelchi d’Ippolito e voluta dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, secondo cui è necessario perseguire una medicina sempre più personalizzata, lontana da standard inapplicabili all’unicità di ogni singola situazione clinica.

Commenta la sentenza per TrendSanità Francesca Rocchi, ricercatrice in Diritto Penale all’Università degli Studi di Teramo.

L’evoluzione giuridica del concetto di responsabilità medica

Dal 2012 al 2017, in forza della Legge Balduzzi (n. 189/2012) sulla responsabilità dei sanitari, i medici che restavano aderenti alle linee guida o comunque si attenevano a quelle considerabili dalla comunità scientifica come “buone pratiche sanitarie”, non potevano incappare in condanne di tipo penale per colpa lieve. Solo la colpa grave, rivelatasi però poi sempre più difficile da determinare, comportava maggiori responsabilità da parte dei clinici.

Bisognerà aspettare la Legge 24 del 2017, la Gelli-Bianco, per arrivare al superamento dei concetti giuridici di colpa lieve e colpa grave, la cui distinzione risultava troppo arbitraria nella sua applicazione legislativa, per arrivare alla situazione attualmente in corso, per la quale basterebbe in teoria che i clinici si attenessero alle linee guida e alle buone pratiche mediche per essere al riparo dalla perseguibilità penale delle loro azioni.

Superata la distinzione fra colpa lieve e colpa grave, la giurisprudenza in materia sanitaria ha preferito concentrarsi sul concetto di imperizia, della quale il professionista viene ritenuto responsabile, al di là dei risvolti più o meno drammatici delle sue azioni, in virtù di una aderenza ai protocolli e alle buone prassi avvallate dalla comunità medica.

Superata la distinzione fra colpa lieve e colpa grave, la giurisprudenza in materia sanitaria ha preferito concentrarsi sul concetto di imperizia

Questa evoluzione, seguita dalla recente richiesta del personale sanitario di bilanciare ancora meglio le necessità di tutela dei pazienti con quelle degli operatori di mettersi al riparo da un numero eccessivo di potenziali contenziosi, è stata nuovamente messa in discussione dall’Ordine dei Medici, che ha chiesto di estendere l’effetto del cosiddetto scudo penale entrato in vigore durante la pandemia da Covid 19. Attraverso l’ordine di categoria, i clinici hanno segnalato che il circolo vizioso fra la scarsità di risorse da destinare alla sanità e gli aumenti di carico di lavoro del personale sanitario non hanno fatto altro che aumentare i rischi di malpractice, finendo per rendere la professione medica sempre meno desiderabile. D’altra parte, sempre i medici hanno fatto notare al Ministero che circa il 95 per cento di procedimenti giudiziari per malasanità finisce con un nulla di fatto, appesantendo molto il lavoro dei tribunali.

La commissione ministeriale chiarisce le nuove direzioni interpretative della legge in vigore

Riunitasi appositamente per discutere la richiesta dei clinici, la commissione ministeriale presieduta dal magistrato Adelchi d’Ippolito, è stata voluta dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per far sedere allo stesso tavolo medici e giuristi e trovare nuovi aspetti condivisi.

Francesca Rocchi

«La sentenza n. 40316 della corte di Cassazione è un caso esemplare perché segnala inequivocabilmente la direzione interpretativa della Legge Gelli-Bianco presa ormai dal cosiddetto diritto vivente e tracciato anche dal grande lavoro della Commissione d’Ippolito – ha spiegato Rocchi –: il semplice attenersi alle linee guida non può e non deve rappresentare l’unico criterio che motiva la sussistenza o meno di un risvolto penale in un processo per malpratica sanitaria. Nel caso in questione la dottoressa è stata condannata in via definitiva per imperizia pur essendosi attenuta alle linee guida, perché nel caso specifico ha omesso la prescrizione dell’esame che avrebbe, con alta probabilità logica, evitato la morte del feto».

Quello che è emerso dalla relazione presentata dalla Commissione d’Ippolito è la necessità di valutare i singoli casi, nell’ottica di una medicina sempre più personalizzata, anche per evitare che la paura di ritorsioni legali non conduca i medici all’inappropriatezza prescrittiva o al timore di discostarsi eventualmente dalle linee guida, quando il caso lo richieda.

Le linee guida, un criterio da interpretare

«La nostra Costituzione non prevede la possibilità di depenalizzare la responsabilità professionale – ha aggiunto Rocchi -: un provvedimento dovuto ad uno stato di emergenza nazionale non poteva chiaramente essere protratto ad libitum senza gravi motivi. La depenalizzazione non era quindi una via praticabile. È importante però dire che aspetti alla base del principio dello scudo penale sono stati presi in considerazione per capire meglio come perimetrare la responsabilità medica partendo dalla Legge Gelli-Bianco».

Nella proposta avanzata dalla Commissione, l’infondatezza della denuncia o querela, oltre a comportare l’archiviazione, potrebbe prevedere l’adozione di un nuovo provvedimento per quella che è stata definita “lite temeraria”. Questo prevede che chi ha denunciato infondatamente, potrebbe essere anche sanzionato civilmente.

Uno altro dei principi importanti emersi dal lavoro della Commissione è che all’aumentare delle difficoltà implicate nell’esercizio della professione medica, deve corrispondere un minore grado di responsabilità in capo al curante. In sostanza, è necessario che, ad una maggior complessità della prestazione sanitaria, corrisponda sempre di più una maggior scusabilità dell’errore.

La sentenza della Cassazione ha chiarito che stabilire dei parametri troppo rigidi di responsabilità non funziona in campo medico

«D’altra parte – ha concluso la ricercatrice -, la sentenza della Cassazione ha chiarito che stabilire dei parametri troppo rigidi di responsabilità non funziona in campo medico. La punibilità per imperizia legata alla mancata applicazione delle linee guida resta un criterio di massima a cui il legislatore chiede di attenersi con tutte le eccezioni del caso, privilegiando l’aderenza alle buone pratiche clinico assistenziali personalizzate e adattate alle singole situazioni cliniche».

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Sofia Rossi
Giornalista specializzata in politiche sanitarie, salute e medicina