di Ivana Barberini
Prendersi cura di una persona con disabilità grave o gravissima significa molto più che fornire una prestazione sanitaria. Significa esserci ogni giorno, in ogni gesto: aiutare a mangiare, lavarsi, vestirsi, muoversi. Per molte famiglie, tutto questo è parte integrante della cura. Non è un extra. Non è un servizio opzionale. È la vita quotidiana.
Eppure, un emendamento presentato dalla senatrice Maria Cristina Cantù al disegno di legge 1241 (“Misure di garanzia per l’erogazione delle prestazioni sanitarie”) rischiava di ribaltare questa visione. Approvato il 6 marzo scorso in Commissione Affari sociali del Senato, l’emendamento 13.0.400 proponeva di separare le prestazioni sociosanitarie da quelle sanitarie, escludendole dal budget del Servizio sanitario nazionale (SSN).
Un cambiamento che avrebbe avuto conseguenze pesanti: le attività essenziali alla sopravvivenza e al benessere delle persone non autosufficienti, dall’igiene personale all’alimentazione assistita, dalla mobilizzazione al trattamento delle piaghe da decubito, sarebbero potute diventare a carico delle famiglie o degli enti locali. Un rischio concreto di aumentare il peso economico su chi già affronta ogni giorno una sfida complessa, spesso in solitudine.
La norma prevedeva una copertura parziale delle spese (dal 50% al 70%, a seconda della gravità), cancellando il diritto attuale alla copertura totale garantito dal SSN per i casi più gravi.
Ma l’emendamento è stato bocciato in Commissione Bilancio del Senato. Il Ministero dell’Economia ha espresso parere negativo: la misura violerebbe il principio costituzionale del pareggio di bilancio e risulterebbe inapplicabile per l’assenza di criteri chiari nel distinguere ciò che è “sanitario” da ciò che non lo è. Senza contare che l’effetto retroattivo avrebbe generato un’ondata di contenziosi e una spesa sanitaria indeterminata e difficilmente gestibile nel pratico.
La Commissione Salute lo dovrà dunque stralciare dal decreto legge, come richiesto anche da diverse Associazioni pazienti, che avevano denunciato fin da subito il rischio di creare un sistema ingestibile e diseguale, in particolare per le persone più fragili.
«Di fatto si tratta di una sonora bocciatura dell’emendamento Cantù, che non è stato bollinato – spiega Alessandro Chiarini, Presidente CONFAD -. È un’ottima notizia, che segna un importante passo nel controllo delle proposte legislative che potrebbero impattare sul bilancio statale. Questo emendamento, volto a separare le spese socio-assistenziali di rilievo sanitario da quelle sanitarie, ha suscitato preoccupazioni per le sue potenziali ricadute negative sulla qualità della vita delle persone con disabilità. CONFAD aveva espresso viva preoccupazione, aveva scritto una lettera ai ministri della Salute, del Lavoro e della Disabilità , sottolineando come tale proposta fosse anticostituzionale, in contrasto con i Livelli Essenziali di Assistenza e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. È essenziale continuare a monitorare le proposte legislative per garantire la tutela dei diritti fondamentali. Riteniamo che l’impegno di tante voci abbia in qualche modo scosso l’attenzione della politica e che quindi ci sia stato un momento di revisione su questo pericoloso emendamento».
Una retromarcia che restituisce fiato e diritti alle famiglie. Ma che riaccende i riflettori su un punto fermo: la cura, per essere davvero tale, non può essere spezzettata. E soprattutto non può essere considerata un lusso.