Quote rosa, blu e arcobaleno: l’inclusività necessaria nella ricerca e nello sviluppo di nuovi medicinali

Equità delle cure e parità di genere. Mai come oggi se ne parla anche nel mondo della ricerca e dello sviluppo di nuovi farmaci. A partire da un dato di fatto: tutt’ora le donne sono sottorappresentate negli studi clinici. E questo nonostante la medicina di genere abbia compiuto numerosi progressi negli ultimi anni, dimostrando come essere uomo o donna abbia un impatto specifico su numerosi aspetti clinici: non solo sull’incidenza, sulla sintomatologia e sul decorso di numerose patologie, ma anche sulla risposta ai trattamenti e sulla comparsa di eventuali reazioni avverse ai farmaci. È qui che entra in gioco, nello specifico, la farmacologia di genere volta a definire e mettere in luce le differenze di efficacia e di sicurezza dei medicinali tra uomini e donne. Un fenomeno, quello del cosiddetto “sex-bias”, sempre più dibattuto tra i ricercatori in Italia e all’estero con l’obiettivo di allargare anche alle donne le sperimentazioni, evitando così l’inopportuna assenza di un genere nel campione utilizzato per lo studio di un nuovo principio attivo sia nella ricerca preclinica e, ancor di più, in quella clinica.

 

“Sappiamo che l’immissione in commercio di un farmaco – spiega la Prof.ssa Luigia Trabace dell’Università di Foggia – prevede un percorso di sperimentazione complesso e, prima che esso possa raggiungere gli scaffali della farmacia, sono necessarie numerose fasi di sperimentazione. È oggi ritenuto molto importante che, durante questo percorso di studio del nuovo farmaco, le differenze sesso-dipendenti siano tenute nella dovuta considerazione nei laboratori di ricerca, anche da un punto di vista strettamente metodologico”.

 

Esistono, infatti, molteplici variabili legate al genere che possono influenzare la risposta ad un farmaco, tra cui: il peso e la superficie corporea, l’entità e la distribuzione del tessuto adiposo e della massa magra, il volume plasmatico, la velocità dello svuotamento gastrico, il pH gastrico, la motilità gastrointestinale, la concentrazione delle proteine plasmatiche, l’attività del sistema citocromo P450 e la velocità di filtrazione glomerulare.

 

“Queste differenze biologiche tra i sessi – prosegue la Prof.ssa Trabace – possono influenzare in maniera determinante uno o più processi ai quali è sottoposto un farmaco quando entra nell’organismo. Se tali aspetti sono importanti nella sperimentazione preclinica condotta sugli animali, diventano ancora più cruciali durante la sperimentazione clinica in cui il farmaco viene testato sull’uomo. Tuttavia, ancora oggi – tranne nei casi in cui ci si riferisca a patologie specificatamente femminili – la ricerca farmacologica condotta nei laboratori si avvale per il 75% di animali maschi in quanto storicamente ritenuti meno ‘problematici’, poiché meno soggetti a fluttuazioni ormonali. Allo stesso modo, durante la sperimentazione clinica, le donne sono sottorappresentate. In generale, la partecipazione delle donne risulta insufficiente e inadeguata in tutte le varie fasi e, in particolare, negli studi di fase 1 in cui ha inizio la sperimentazione del principio attivo sull’uomo con lo scopo di raccogliere i dati preliminari sulla sicurezza e tollerabilità del medicinale”.

 

Di fatto, nonostante il genere femminile sia il maggior consumatore di farmaci, il mondo della sperimentazione tende ad escludere le donne e a non tenere in sufficiente considerazione la loro specificità, con un conseguente incremento di reazioni avverse ai farmaci. Un tema al quale sarà dedicato un approfondimento in occasione del 41° Congresso Nazionale della Società Italiana di Farmacologia, in programma a Roma dal 16 al 19 novembre.

 

La mancanza di un’accurata considerazione del sesso e del genere nella valutazione della sicurezza e dell’efficacia dei farmaci danneggia le donne, gli uomini e tutta la popolazione che non si riconosce in una dimensione sessuale binaria. All’interno della Società Italiana di Farmacologia, un gruppo di ricercatori si occupa di discutere e confrontarsi su questo tema con il fine di aumentare la consapevolezza della necessità di approcci terapeutici personalizzati, di motivare il cambiamento, per avvicinarci sempre più ad una medicina moderna, attenta e garante della specificità di ciascuno di noi”, conclude la Prof.ssa Trabace.

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