Quando si parla di riabilitazione, si è portati a pensare soprattutto al percorso che è chiamata a compiere una persona reduce da un incidente stradale o da un ictus. La riabilitazione, invece, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come «un insieme di interventi progettati per ottimizzare il funzionamento e ridurre la disabilità in persone con problemi di salute che ne limitano l’interazione con l’ambiente», è fondamentale anche per i pazienti oncologici (in Italia vivono oggi 3.600.000 persone con una pregressa diagnosi di tumore) e per le persone guarite (1.100.000 persone). Oggi, con la diagnosi precoce, il miglioramento delle terapie e l’aumento della prospettiva di vita la riabilitazione è infatti un bisogno imprescindibile incardinato nel contesto dei percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali. Pertanto, la riabilitazione oncologica va garantita con immediatezza dal Servizio Sanitario Nazionale attraverso l’inserimento nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
Da FAVO la richiesta di inserire la riabilitazione oncologica nei LEA
Il passaggio è ritenuto ormai improcrastinabile, anche alla luce del ruolo significativo riconosciuto alla riabilitazione all’interno del Piano europeo di lotta contro il cancro. Ovvero quell’insieme di misure varate dall’Unione che ogni Stato membro è tenuto a declinare sul proprio territorio per favorire il raggiungimento di tre obiettivi: oltre al miglioramento dei tassi di sopravvivenza per le malattie oncologiche (dall’attuale 47 al 75 per cento entro il 2030) attraverso il potenziamento dei servizi di prevenzione (quasi 4 casi di cancro su 10 sono evitabili) e il miglioramento dell’accesso alle cure, anche quello della qualità della vita di chi ha superato la fase acuta della malattia. «Siamo di fronte a un vulnus assistenziale – afferma Francesco De Lorenzo, Presidente della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (FAVO), che da oltre quindici anni si batte per favorire la copertura da parte dello Stato di tutte le spese necessarie alla riabilitazione che un paziente oncologico è chiamato a sostenere -. La riabilitazione è un elemento fondamentale nel percorso di presa in carico del malato oncologico con un forte valore sociale ed economico, derivante da una riduzione dei costi diretti e indiretti correlati con la disabilità derivante dalla malattia oncologica».
Riabilitazione oncologica: di cosa si tratta?
La riabilitazione oncologica ha l’obiettivo di limitare al minimo la disabilità fisica e i deficit (funzionali, cognitivi, nutrizionali, psicologici, sociali e professionali) che spesso possono accompagnare la malattia e manifestarsi nel corso o a seguito del tumore e delle terapie ad esso correlate. «La riabilitazione deve essere presente durante tutto il percorso di malattia: dalla diagnosi alla terapia, fino alle cure palliative – spiega l’oncologa Paola Varese, presidente del Comitato Scientifico della FAVO -. Il suo obiettivo è ridurre la perdita fisica e favorire il recupero che il tipo di intervento terapeutico messo in atto comporta. Gli interventi possono variare a seconda della malattia e del trattamento in corso. Ma anche da persona a persona. Per questo è necessaria una individualizzazione del progetto riabilitativo». Un percorso efficace è frutto solo di un lavoro di squadra multidisciplinare e multiprofessionale. Di cui, con alcune differenze legate al tipo di malattia da cui un paziente è reduce, fanno generalmente parte il fisiatra, il fisioterapista, l’oncologo, l’infermiere, lo stomaterapista, il nutrizionista, lo psicologo e il palliativista. Oltre gli specialisti di branca: cardiologi, pneumologi, gastroenterologi, internisti, ginecologi, otorini e chirurghi. Il loro contributo – a supporto dei colleghi coinvolti nella gestione della malattia oncologica “in senso stretto” (oncologi, radioterapisti, chirurghi di varie specialità e pediatri) – è sempre più spesso importante per far fronte agli effetti collaterali determinati dall’utilizzo di alcuni farmaci e riscontrabili a livello cardiaco (ipertensione, aritmie, scompenso cardiaco, trombosi, embolia), dell’apparato digerente (alterazioni del gusto, perdita di peso, diarrea, stitichezza, malnutrizione), dei reni (riduzione della funzionalità degli organi), dell’apparato riproduttore femminile (menopausa precoce indotta da alcune terapie e dalla chirurgia preventiva) e uditivo (la chemioterapia può provocare alterazioni dell’udito).
Fondamentale il ruolo del volontariato nei percorsi di riabilitazione
Accanto ai professionisti sanitari, fondamentale è anche il ruolo che svolgono le associazioni di volontariato. In moltissime realtà, infatti, queste supportano progetti di attività fisica adattata (in genere condotti da laureati in scienze motorie) determinanti nella gestione della fatigue: quell’insieme di sintomi (stanchezza, astenia, debolezza, dolori muscolari) che comportano una forma di stanchezza persistente che rende difficile svolgere le più semplici attività quotidiane. «Il valore aggiunto dei corsi di attività fisica adattata è rappresentato dal lavoro in gruppo che facilita la socializzazione e aiuta il malato, spesso smarrito al termine del percorso di cura, a recuperare aspetti relazionali talora congelati dalla malattia: in un contesto accogliente, empatico e non giudicante», aggiunge Varese. «La riabilitazione è una necessità e un diritto per migliorare la qualità della vita in ogni sua fase, ma è più evidente quando si presentano accentuate condizioni di fragilità», rimarca Silvana Zambrini, vicepresidente della FAVO e alla guida dell’associazione ANTEA.
Per quali tumori si rende (spesso) necessaria la riabilitazione?
Il primo tassello da cui l’oncologo parte per definire un percorso di riabilitazione è il tipo di malattia che ha colpito il paziente che ha di fronte. «Dopo il trattamento chirurgico del tumore al seno, ma anche di melanomi o neoplasie ginecologiche con estesa asportazione dei linfonodi locoregionali e trattati anche con la radioterapia, la riabilitazione è utile a prevenire o comunque a rendere più gestibile il linfedema – puntualizza Varese -. Le nuove modalità chirurgiche sono molto attente alla prevenzione. Ma il primo passo da compiere è l’educazione del paziente, che deve essere addestrato a evitare i fattori predisponenti (ferite trascurate, ndr) o a intercettare precocemente i primissimi sintomi (arrossamento della cute, gonfiori dei tessuti anche minimali, ndr), oltre che incoraggiato a modificare radicalmente lo stile di vita svolgendo un’attività fisica regolare (il nuoto consente un linfodrenaggio naturale, ndr) e seguendo una corretta alimentazione (con diete povere di grassi animali, ndr)». Un percorso di riabilitazione differente è quello che viene invece proposto ai pazienti operati o trattati con la radioterapia per un tumore del distretto testa-collo, che possono manifestare difficoltà nella masticazione, nella deglutizione, nella fonazione e nell’articolazione del linguaggio. Dopo il trattamento chirurgico del tumore del polmone (anche se diversi studi evidenziano come in realtà gli esiti migliorino iniziando la riabilitazione anche prima dell’intervento), è necessario avviare un percorso di riabilitazione respiratoria, mentre i pazienti operati per una forma di cancro della gola o dell’esofago possono sviluppare la disfagia: avendo difficoltà a ingerire cibi e liquidi. Ancora diverse, infine, possono essere le esigenze per i pazienti operati al cervello (con ricadute differenti a seconda dell’area trattata), a uno degli arti (in caso di difficoltà a deambulare), alla vescica e alla prostata (la riabilitazione punta a prevenire e a controllare l’incontinenza urinaria e l’impotenza sessuale) e del retto (incontinenza fecale, soprattutto negli anziani e dopo la radioterapia). «La riabilitazione oncologica è efficace se fa parte integrante ab initio del percorso di presa in carico del malato – chiarisce la specialista -. Il riabilitatore, in senso lato, deve poter conoscere il paziente prima dei provvedimenti terapeutici per anticipare e prevenire gli eventuali danni da trattamento ed essere parte integrante della equipe. Un approccio di questo tipo migliora la qualità della vita del paziente, favorisce la sua autonomia e il suo reinserimento sociale: con un beneficio anche per le casse dello Stato».
«La riabilitazione oncologica non sia sacrificata a causa della pandemia»
Nonostante ciò, però, la riabilitazione continua a essere una Cenerentola per i malati di cancro. Sia, come si evince anche dall’ultimo rapporto sullo stato della riabilitazione nei Paesi europei dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, per la scarsa offerta di trattamenti riabilitativi sul territorio che invece rappresentano una necessità per il paziente oncologico, nel momento in cui smette di frequentare con regolarità il centro a cui si è rivolto la gestione della malattia. Sia per un deficit culturale, per cui troppo spesso la riabilitazione è relegata ai margini del percorso assistenziale. Ma la causa principale di questa lacuna, almeno nel caso dell’Italia, è l’esclusione della riabilitazione oncologica dai Livelli Essenziali di Assistenza, che continua a generare disparità territoriali nell’accesso alle prestazioni e ai servizi connessi. Una situazione che crea le premesse affinché, nello stesso Paese, ci siano pazienti “di serie A” e “di serie B”. «La riabilitazione è a tutti gli effetti parte integrante del percorso di cura – conclude Roberto Persio, membro del comitato esecutivo FAVO e consigliere nazionale dell’Associazione Italiana Laringectomizzati (AILAR) -. Quando la cura comporta la chirurgia invasiva o terapie che hanno effetti sui tessuti e sull’attività degli organi, è indispensabile supportare il paziente nel ritorno alla funzionalità fisiologica. O, se questa non è raggiungibile, supportarlo attraverso la rieducazione, la fisioterapia e il supporto psicologico. Nel momento in cui questa offerta manca, la cura è incompleta».