Scarsa informazione, errata percezione del rischio, paura dello stigma da HIV: è questa, ai nostri giorni, la vera epidemia italiana in rapporto all’HIV/AIDS, un vulnus sanitario, sociale e culturale insieme, che fa esplodere le diagnosi tardive e ritarda la possibilità di contrastare al meglio la diffusione del virus.
Nel complesso, nel nostro Paese, la situazione epidemiologica si allinea a quella dei paesi più avanzati ma con criticità emergenti e in deciso peggioramento. Al netto dei ritardi di notifica, le segnalazioni sono state 1.880 ma il dato più preoccupante è rappresentato dal numero elevatissimo di persone che vengono a conoscenza del proprio stato sierologico con grave ritardo, un frutto della mancanza d’informazione, del perpetuarsi di percezioni legate a inesistenti categorie a rischio, del fallimento storico delle politiche pubbliche di prevenzione in questo paese.
Le diagnosi tardive
Nel complesso quasi il 60% di chi ha saputo di aver contratto l’HIV nel 2022 erano in un condizione clinica già molto compromessa o addirittura in AIDS, non a caso il motivo principale per cui le persone hanno eseguito un test è stata la comparsa di sintomi, se non di patologie AIDS correlate. Si tratta di un dato inaccettabile alla luce dei vantaggi offerti dalle attuali terapie antiretrovirali (ART), in grado, se assunte tempestivamente, di preservare al meglio la vita e la salute delle persone con HIV e di rendere il virus non trasmissibile per via sessuale.
È il quadro che emerge dai dati 2022 sulle nuove diagnosi da HIV in Italia, elaborati dal Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di
Sanità.
È il motivo per cui è stata lanciata la campagna “U=U , impossibile sbagliare” affinché le persone possano conoscere gli enormi vantaggi delle terapie ART per la propria salute e per le prospettive di vita. U=U aiuta anche combattere lo stigma che grava sulle persone con HIV. Lo stigma è, infatti, uno dei motivi per cui si è portati a rimuovere il problema e a non fare il test. I dati del COA indicano un aumento delle diagnosi tardive per tutte le modalità di trasmissione ma i con profili di rischio più alti nella popolazione eterosessuale, soprattutto maschile.
In particolare, nel 2022 hanno ricevuto diagnosi tardive i 2/3 degli eterosessuali maschi (circa il 66%), italiani e stranieri, e quasi il 60% delle donne eterosessuali. Per gli MSM (uomini che fanno sesso con altri uomini) la percentuale è del 50%. La probabilità di diagnosi tardive cresce, inoltre, con il crescere dell’età, rappresentando tra i maschi il 69,3% nella fascia 50-59 anni e il 79,2% negli ultrasessantenni; in sostanza sopra i sessant’anni, tra gli uomini, soprattutto eterosessuali, otto diagnosi su dieci sono diagnosi tardive. Numeri alti anche tra le donne: tra i 50 e i 59 anni, il 67% circa ha ricevuto una diagnosi tardiva, sopra i 60 anni si arriva al 73%. Sotto i 25 anni le diagnosi tardive invece sono circa un terzo del totale.
L’Italia fa registrare, inoltre, sui late presenter una delle peggiori performance rispetto alle media europea, che è sempre piuttosto alta ma al 51%. I fattori associati al fenomeno sono costanti, informa il COA: l’età più elevata, l’avere acquisito l’infezione per via eterosessuale nei maschi, la nazionalità straniera, tutti gruppi di popolazione che, evidentemente non percepiscono il rischio e non si percepiscono a rischio. Anche il COA sollecita: “Appare urgente – si legge nel bollettino – individuare nuove modalità per proporre il test HIV a persone che non percepiscono di essersi esposte al rischio HIV e agevolare al massimo l’accesso delle persone straniere ai servizi di testing”.
Perché si fa il test – nuove proposte di screening
Più del 40% delle persone che hanno eseguito il test, lo hanno fatto in seguito alla comparsa di sintomi o sospette patologie correlate all’AIDS e solo il 24% perché consapevole di aver avuto rapporti non protetti. Al terzo posto, con quasi il 9%, prende consistenza, tuttavia, la percentuale di chi, per fare il test, coglie l’occasione offerta da campagne informative o di screening, sul modello di quelle offerte da LILA e altre associazioni.
Nuove diagnosi e incidenza
La curva delle infezioni ha imboccato, da oltre un decennio, un deciso rallentamento per tutte le modalità di trasmissione; siamo così passati dalle 4mila del 2012 alle 1880 del 2022 che, con i ritardi di notifica si stima arriveranno a circa 2mila. Si tratta di un trend, dunque, dimezzato ma che, negli ultimi due anni sembra aver interrotto il suo andamento al ribasso, pur restando sotto i livelli del 2019.
Tolto l’anno del COVID, il 2020, quando si registrò, per ovvi motivi, il minimo storico di nuove infezioni (1303), i valori del 2022 sono in lieve ripresa rispetto ai 1770 del 2021. Di conseguenza, dopo un decennio in continua discesa, anche l’incidenza, (rapporto tra casi segnalati e popolazione) mostra un rialzo, attestandosi a 3,2 nuove diagnosi su 100mila residenti (era di 3 ogni 100mila nel 2021).
Rispetto all’incidenza, l’Italia resta comunque ben sotto la media europea, pari al 5,1% per l’Europa occidentale, al 4,5% per quella centrale e addirittura al 30,7% per quella orientale, tra le aree del mondo tuttora più colpite dal virus. Su base regionale, le incidenze più alte si registrano nel Lazio (4,8), in Toscana (4,0), in Campania e Abruzzo (3,9), in Emilia-Romagna (3,8). In Puglia con il 3,4, si registrano 130 nuove diagnosi, 43 in più dello scorso anno, arrivando ad un totale di 1.519 persone che oggi vivono con l’HIV; mentre per quanto riguarda i casi di AIDS segnalati nel 2022, sono 15, per un totale di 898.
Classi d’età
Un altro aspetto che sta subendo mutamenti rilevanti riguarda la dinamica dell’infezione nelle varie classi d’età: le segnalazioni diminuiscono o restano stabili in tutte le fasce, sia in numeri assoluti, sia in percentuale, ad eccezione però di quella degli over 50 che, percentualmente, è in crescente aumento.
Le nuove diagnosi che riguardano i grandi adulti e gli anziani passano dal 17,2% del 2012 al 31,2% del 2022 arrivando a rappresentare un terzo del totale. Nello stesso intervallo, la fascia d’età 25-39 anni passa dal 48% al 36% (incidenza 6,5 per 100mila) mentre la fascia con l’incidenza più alta diventa quella tra i 30 e i 39 anni (7,3 nuovi casi per 100.000).
Modalità di trasmissione
L’84% delle diagnosi è legato alla trasmissione sessuale, da anni ormai decisamente preponderante rispetto al 4,3% dovuto allo scambio di siringhe tra chi consuma droghe per via iniettiva (IDU). Le diagnosi dovute a rapporti eterosessuali non protetti rappresentano il 43% del totale, quelle dovute a rapporti sessuali non protetti tra MSM, uomini che fanno sesso con altri uomini, sono quasi il 41%.
Tra gli eterosessuali che hanno ricevuto una nuova diagnosi i maschi sono circa il 25% , le donne circa il 17,9%.
Persone straniere, il caso delle donne
Il numero di nuove diagnosi da HIV in persone straniere è in diminuzione dal 2016 al 2020 con un lieve aumento negli ultimi due anni post-COVID 19. Segnala il COA significative differenze tra questo target e quello italiano. Ne citiamo una per tutte: in questo gruppo di popolazione le nuove diagnosi riguardano per il 31,6% le donne eterosessuali, un percentuale più alta di quella delle donne italiane. Questo dato rafforza la necessità di porre particolare attenzione alle donne straniere il cui accesso ai servizi di screening e a quelli per la salute sessuale e riproduttiva è ostacolato da molteplici barriere culturali, familiari e amministrative.
HIV pediatrico
L’attenzione al target delle donne straniere si collega strettamente anche a quella dell’HIV nei bambini. I casi in età pediatrica osservati nel 2022 sono sette, di cui uno dovuto a trasfusione effettuata in Albania e sei a trasmissione verticale dalla madre al/alla neonatə. Gran parte delle mamme di questə bambinə proviene dall’Africa centrale. Nel ribadire la necessità di porre grande attenzione alle donne rifugiate e immigrate, si evidenzia comunque un grande successo dei protocolli adottati dal nostro Paese per prevenire la nascita di bambini con HIV.
Continuità di cura
Nel report di quest’anno è stato inserito anche un monitoraggio sulla continuità delle cure in collaborazione con Spallanzani ed esponenti di ONG, tra cui la LILA. Parametro di riferimento sono gli obiettivi ONU per la sconfitta dell’AIDS entro il decennio.
Il target per il 2025 prevede che il 95% delle persone con HIV sia reso consapevole del proprio stato sierologico, che il 95% riceva le terapie ART e che il 95% delle persone con HIV in trattamento raggiunga la soppressione virologica. Rispetto a tutta la popolazione con HIV, inoltre, le persone in soppressione virale (SV) devono raggiungere, sempre secondo l’ONU, l’86%.
Posto che dal 2012 al 2021, il numero stimato di persone con HIV in Italia è aumentato da 127.000 a 142.000, (più 12%), il monitoraggio mostra come, in nove anni, la percentuale di persone diagnosticate sia arrivata al 94%. Più consistente il numero delle persone che, consapevoli del loro stato sierologico, sono in ART: dal 75% del 2012 sono passate al 94% nel 2021. Coloro che, una volta in trattamento, hanno raggiunto la Soppressione Virologica (SV) sono passati dall’86 al 93%.
L’Italia ha vissuto, dunque, grandi progressi ed è in corsa per centrale il target 95- 95-95. Resta più critico, tuttavia, il raggiungimento del target rispetto a tutta la popolazione con HIV. In questo caso la percentuale di persone in SV raggiunge l’82% rispetto all’86% indicato. Si tratta, secondo le stime, di circa 25mila persone che non sono ancora U=U (erano 55mila nel 2012), in parte perché inconsapevoli o perché non aderenti alle terapie.
Questi gruppi di popolazione vanno raggiunti quanto prima con interventi ad hoc per evitare che si ammalino e che inconsapevolmente possano trasmettere il virus ai/alle partner. Tra le popolazione-chiave che mostrano un’aderenza più scarsa, ci sono i consumatori di droghe per via iniettiva (IDU), tra i quali si raggiunge solo il 75% di soppressione virologica. “Le terapie long-acting potrebbero risultare una soluzione vincente per questo gruppo di persone – spiega la presidente della LILA Giuseppina Giupponi – le principali popolazioni chiave da raggiungere sono, come abbiamo visto, proprio quelle di chi non si percepisce a rischio, di chi teme di avvicinarsi al test e ai servizi, di chi non riesce, da solo o da sola a sostenere la situazione. Il ruolo del terzo settore è decisivo per vincere questa sfida, per questo va adeguatamente sostenuto”.