Case di Comunità, dal report di Agenas all’analisi della situazione in Lombardia

Le case di comunità sono state pensate come il nuovo pilastro della sanità territoriale ma, secondo i dati Agenas, solo il 13% è operativo, e solo il 6,5% ha un medico di base. Vediamo più da vicino il caso lombardo, con un’analisi dell’Istituto Mario Negri

Dovevano essere il nuovo pilastro della sanità territoriale. Gli strumenti principali di quella manovra pensata per decongestionare gli ospedali e avvicinare gli specialisti ai medici di base, offrendo al cittadino un unico punto di incontro per i principali servizi legati alla salute. Il report tracciato dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) sull’apertura e lo sviluppo delle case di comunità in Italia però parla chiaro: la strada da fare è ancora moltissima.

I primi dati, relativi al semestre gennaio-giugno 2023, mostrano come appena il 13% delle case di comunità italiane previste e volute dal Pnrr sono attualmente operative. E solo il 6,5% di queste, quindi appena la metà, ospita al suo interno un medico di base.

Tra le modifiche a livello centrale e le difficoltà di reperire il personale, il processo di cambiamento è ancora molto lento

In Lombardia, la regione italiana che al momento ha portato avanti maggiormente l’attuazione del piano, i dati più recenti raccontano di un processo di cambiamento estremamente lento, di cui è molto difficile capire la fisionomia per la difficoltà di accedere a dati puntuali e trasparenti. Abbiamo visto più da vicino il caso lombardo, grazie ad una puntuale analisi appena pubblicata dall’Istituto Mario Negri di Milano, che sta monitorando la situazione con un pool di esperti dedicato che ha contattato una per una tutte le case di Comunità regionali e raccolto i dati più recenti del loro sviluppo.

I numeri del primo semestre 2023 secondo Agenas

Entro il 2026, quindi fra poco più di due anni, in Italia dovrebbero aprire 1.430 Case di Comunità. Di quelle ad oggi inaugurate su tutto il territorio italiano, solo il 54% ospita al suo interno i medici di medicina generale. Attualmente non vi è alcuna norma che obblighi o incoraggi i curanti a spostarsi dai propri studi professionali agli ambulatori delle case di comunità. Le strutture stesse non sono ancora completamente operative come dei mini-ospedali: solo il 17% riesce a garantire una apertura di 24 ore su 24, come previsto dal Pnrr, mentre il 34% dei casi apre solo pochi giorni alla settimana e non garantisce nemmeno le 12 ore giornaliere.

Solo il 17% delle Case di Comunità garantisce l’apertura 24 ore al giorno e il 34% apre solo pochi giorni alla settimana

Neppure le Centrali Operative Territoriali – 611 hotspot da attivare entro il 2024 – stanno aprendo al ritmo in cui dovrebbero né mantengono l’orario di apertura previsto. A giugno 2023 hanno aperto solo il 12% del totale – 77 Cot in 7 regioni – e solo il 58% di queste lavorano meno di 6 giorni su 7.

In prima linea c’è la Lombardia, con 36 centrali, seguita dal Lazio con 15 punti, 9 in Veneto, 7 in Piemonte, 5 in Emilia-Romagna, 4 nella Pa di Bolzano e 1 in Umbria. Le regioni del Sud non sono attualmente pervenute.

Anche gli Ospedali di Comunità si fanno attendere

Nel monitoraggio Agenas è contenuta anche una fotografia degli ospedali di comunità. Entro il 2026 ne devono essere attivati 434 ma a giugno 2023 sono funzionanti solo 76 nuove strutture, ovvero il 17% del totale, con un incremento di appena 1.378 posti letto.

La regione più virtuosa è il Veneto, con 38 ospedali di comunità funzionanti. Seguono la Lombardia con 17, la Puglia con 6, l’Emilia-Romagna con 5 strutture, Molise e Abruzzo che ne hanno aperti rispettivamente 2 mentre in Campania, Lazio e Liguria è stato inaugurato un solo nuovo ospedale di comunità. Nulla di fatto invece in Basilicata, Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Trento, Sardegna e Sicilia, dove non al momento non è attiva nemmeno una Casa della Comunità e nemmeno una Cot.

Come stanno andando le CdC in Lombardia: l’analisi del Mario Negri

La fotografia che emergeva prima dell’estate dall’indagine in corso, coordinata dal Centro Studi di Politica e Programmazione Socio-Sanitaria dell’Istituto Mario Negri, presentava una situazione in cui le Case di Comunità già avviate offrivano un panorama eterogeneo per tipologie organizzative, quantità e qualità dei servizi offerti.

La missione 6 del PNRR prevedeva per la Lombardia 216 Case di Comunità entro il 2026. La riduzione dei fondi dedicati al Pnrr ha fatto sì che nell’ultimo piano programmatico della Regione questo numero si sia abbassato, indicando come obiettivo la realizzazione di un numero variabile che va da 187 a 199 strutture sanitarie.

In Lombardia i fondi per il PNRR prevedono ora tra 187 e 199 Case di Comunità entro il 2026, contro le 216 previste inizialmente

La Regione non ha più comunicato le nuove aperture: nonostante le nostre precise richieste, i dati non sono mai arrivati – ha spiegato Angelo Barbato del Centro Studi di Politica e Programmazione Socio-Sanitaria del Mario Negri –. L’ultima nota ufficiale della Regione risale a novembre dell’anno scorso, mentre la relazione pubblicata dalla Corte dei Conti a maggio 2023 parlava di 81 strutture operative. Per questo ci siano attivati contattando una per una le 27 aziende sanitarie lombarde e chiedendo i numeri delle Case di Comunità che risultano attive”.

Ad oggi il centro studi del Mario Negri, che ha fatto uscire ad ottobre l’ultimo report, ne conta 97 in tutto, contro le 85 aperte fino ad aprile 2023. In sei mesi, solo 12 in più.

A questo ritmo, sembra inverosimile che tutte le Case di Comunità previste entro il 2026 possano essere aperte nei tempi indicati dal calendario del PNRR.

La grande assenza di medici di base e l’assenza di programmazione

L’analisi, coordinata dal Centro Studi di Politica e Programmazione Socio-Sanitaria dell’Istituto, è attualmente in corso e viene condotta da un gruppo di ricercatori appositamente formati, coadiuvati da professionisti che, a vario titolo, hanno scelto volontariamente di unirsi al team. A partire da luglio 2022, i ricercatori si sono finora recati personalmente in 70 Case di Comunità sulle 97 già operative e hanno incontrato i coordinatori e il personale presente nelle Case di Comunità lombarde.

A breve dovremmo stipulare un accordo con ATS città metropolitana per avviare un progetto di monitoraggio che prevede una analisi approfondita del funzionamento di 3 strutture in via di identificazione – ha proseguito il ricercatore del Mario Negri –. Una sarà a Milano, l’altra in un grosso comune hinterland e la terza in zona rurale a bassa densità abitativa. Saranno misurati gli interventi e i numeri del personale che opera all’interno. Lo scopo è quello di verificare in che misura i bisogni di salute che emergono vengono recepiti dalle strutture”.

Dalla prima analisi di aprile emergeva un cambiamento che sembrava riflettersi più nello spirito di chi lavora nelle strutture, che in una vera e propria implementazione delle risorse coinvolte. I grandi assenti restano infatti i medici di base che solo in 10 strutture su 70 collaborano fra loro garantendo ai propri assistiti di poter essere visitati dai colleghi quando sono assenti.

Su 70 Case di Comunità solo 26 hanno almeno 1 medico presente. E solo in 15 di queste sono presenti 2 medici che però hanno mantenuto l’ambulatorio al di fuori. Anche il contatto diretto con gli specialisti è carente: in appena 23 casi su 70 si possono prenotare le visite in struttura, per il resto gli accessi continuano a passare per il numero verde del CUP.

Molto limitati sono anche il contatto fra medici e infermieri e i servizi sociali. In 19 Case di Comunità su 70 c’è integrazione, nelle altre i piani continuano a restare separati.

Per rendere le CdC veri centri di interazione bisogna evitare che tutto ricada sugli infermieri di famiglia e comunità, ad oggi le uniche figure che dirigono queste strutture

Le Case di Comunità non sono nate con l’idea di rimanere dei poliambulatori decentrati – ha chiosato Barbato –. Se si vuole renderli dei veri e propri centri di interazione bisogna evitare che tutto ricada sugli infermieri di famiglia e comunità, ad oggi le uniche figure che dirigono queste strutture, interfacciandosi con gli utenti”.

I pochi medici di base che si sono spostati all’interno delle strutture non si sono trasferiti seguendo una logica di programmazione collettiva, non ricevono quasi mai i pazienti secondo una logica di accesso libero (tranne che in 6 casi su 70) e agiscono ancora in autonomia rispetto ai colleghi e all’orario di visite, senza garantire all’utenza quella continuità di servizio per cui le strutture sono nate.

Può interessarti

Sofia Rossi
Giornalista specializzata in politiche sanitarie, salute e medicina