Secondo le indicazioni contenute nel PNRR, le Case di Comunità dovrebbero diventare il vero motore di un cambiamento profondo nelle dinamiche sanitarie regionali e nazionali. Quello auspicato è un cambiamento dal basso che entro i prossimi due anni (nel 2026) dovrebbe portare all’apertura di 1.350 strutture in tutta Italia aperte 24 ore al giorno.
Nelle strutture ad oggi aperte, i medici di famiglia sono presenti solo nel 6,5% dei casi
Ospedali in miniatura, in cui trovare accesso alle cure mediche e infermieristiche di base ad orario continuato, con la presenza degli specialisti. Un unico luogo, prossimo al cittadino, in cui chi ha bisogno di cure e assistenza medica possa trovare vicino alla propria abitazione il medico di medicina generale, lo specialista e l’infermiere di comunità (la nuova e importantissima figura introdotta dal Pnrr). Ma nelle strutture ad oggi aperte, circa il 13% del totale, i medici di famiglia sono presenti solo nel 6,5% dei casi.
Ne abbiamo discusso con Alessandro Dabbene, vice segretario nazionale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (Fimmg), che ha esposto il punto di vista del sindacato su come queste strutture di nuova apertura dovrebbero effettivamente funzionare dal punto di vista dei medici di famiglia.
I medici di famiglia assenti in una struttura su due
L’idea, da un lato, è che il cittadino risparmi tempo e spostamenti, recandosi in un unico centro a pochi chilometri da casa. Dall’altro lato il motivo per cui stanno aprendo le Case di Comunità ha a che fare con la necessità che il paziente che non presenta una patologia acuta o il malato cronico con una terapia già definita eviti di recarsi al pronto soccorso o in ospedale, se non è strettamente urgente, ogni volta in cui la prestazione può essere erogata da una struttura più indicata al tipo di trattamento richiesto.
Va quindi da sé che la rivoluzione sanitaria territoriale, sulla carta, è bastata sia sul risparmio delle risorse che sulla volontà di mettere in pratica più efficacemente il concetto di “presa in carico”, rendendo possibile un dialogo fra le varie figure sanitarie, in particolare quello fra medico di base e specialisti.
Considerando però la presenza dei medici di base nelle Case di Comunità, le cose non sembrano andare in questa direzione: il report tracciato dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) sull’apertura e lo sviluppo delle Case di Comunità in Italia mostra come i medici siano presenti solo nel 54% delle strutture già aperte in tutta Italia, poco più del 13% del totale che dovrà aprire entro il 2026.
Ciò significa che solo il 6,5% delle strutture aperte ha al suo interno un medico di medicina generale. E se la presenza in sé non basta, basti pensare che in una regione “sanitariamente virtuosa” come la Lombardia, i medici di famiglia collaborano fra loro per garantire una maggior copertura oraria dei servizi solo in 10 casi su 70.
“Un maggiore coinvolgimento dei medici di medicina generale non passa solo dalla presenza nelle Case di Comunità – ha spiegato Dabbene –: In primis perché non è mai stata formalmente decisa né normata all’interno delle strutture. Abbiamo solo una indicazione di massima nel DM77 e nel PNRR ma è facilmente intuibile che la risposta alla prossimità non possa essere quella di compattare tutti gli ambulatori dei medici di base in poche strutture, centralizzando un servizio che deve essere invece sparso capillarmente su tutto il territorio”.
La Casa di Comunità, da punto di riferimento a servizio in più
Il sindacato dei medici non ha dubbi: serviranno più risorse per capire come allocare nelle Case di Comunità i medici di base che dovranno continuare a svolgere il lavoro nel proprio ambulatorio, parallelamente alle ore in più che andranno a svolgere nelle nuove strutture.
“È stato creato prima il contenitore del contenuto – ha aggiunto Dabbene –. Tranne nei pochi casi in cui c’è stata la volontà individuale di alcuni medici di famiglia di trasferire totalmente il proprio studio all’interno delle Case di Comunità, non è pensabile chiedere a tutti i medici di famiglia di lasciare i propri ambulatori, licenziare il personale di segreteria che ci lavora, e trasferirsi lontano dai propri assistiti”.
Da sempre la Fimmg sostiene che “la Casa di Comunità debba avere una funzione di integrazione, per fare da filtro fra i propri studi e gli ospedali. La mancanza di fondi in più ha fatto sì che la presenza dei medici di famiglia sia ancora minoritaria e resti il frutto di una scelta individuale. Entro il 2026 bisognerà arrivare ad una soluzione collettiva più definita”.
Il divario fra generalisti e specialisti
La Casa di Comunità idealmente nasce anche come luogo in cui azzerare il gap fra medici generalisti e specialisti. Il paziente, recandosi in un luogo solo, può accedere a una migliore cura se le prescrizioni del medico di base possono essere direttamente discusse con medici specialisti direttamente presenti nella struttura.
Così come il dialogo fra medico di famiglia e infermiere di comunità che accoglie il paziente in struttura consente di alleggerire i clinici da tutte le prestazioni per cui non serva obbligatoriamente una figura medica. Inoltre, la necessità dei pazienti di recarsi al pronto soccorso ogni qual volta una richiesta di controllo urgente non si possa conciliare con l’orario o il giorno di lavoro del proprio curante possono essere prese in carico dagli altri medici di base se, come indicato nel Pnrr, si crea un lavoro di gruppo fra gli studi professionali per la presa in carico collettiva dei pazienti.
Un luogo solo in cui azzerare il gap tra medici generalisti e specialisti
“Secondo noi la soluzione è da cercare più nelle nuove tecnologie e nella telemedicina che non nella presenza fisica”, ha detto il vice segretario della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, da anni impegnato personalmente in un progetto di “gestione integrata del diabete” che prevede visite a tre con medico di famiglia e specialista nello studio del medico di base, senza che sia il paziente a doversi spostare.
“In Spagna sono in corso sperimentazioni che prevedono che sia lo specialista ad andare nello studio del medico di base a visitare il paziente – ha proseguito Dabbene –. Insomma, le soluzioni possono essere molte e non passano necessariamente da un raccordo organizzativo ma soprattutto da uno funzionale”.
L’accordo fra i medici di base è già legge
“Il problema dell’aggregazione territoriale fra gli studi dei medici di base è già stato risolto con la legge del 2012 siglata dal Ministro Renato Balduzzi nell’allora governo di Mario Monti – ha spiegato Dabbene –: poi tutto si è fermato fino alla firma dell’accordo fra i sindacati dei medici di medicina generale con le Regioni nel 2022 in cui è stata definita l’Aggregazione Funzionale Territoriale, atta a garantire l’assistenza dei medici di basi sia di giorno che di notte, 7 giorni su 7, con una organizzazione che raggruppa gli studi medici che lavorano ogni 30 mila abitanti”.
Menzionando l’accordo fra medici di famiglia e Regioni, il vice nazionale di Fimmg ha sottolineato come questo sia la prova del fatto che non saranno le Case di Comunità a risolvere il problema di una maggior copertura sanitaria della medicina di base, che risultano essere quindi un di più che, da questo punto di vista, deve ancora trovare una sua diretta collocazione.
“Attualmente non vi è alcuna norma che obblighi o incoraggi i medici di famiglia a spostarsi dai propri studi professionali agli ambulatori delle Case di Comunità – ha concluso Dabbene –. I medici di base vogliono restare quello che sono, liberi professionisti convenzionati che in quanto tali possono decidere di lavorare con autonomia e senza essere inquadrati in una struttura al pari di altro personale subordinato”.