Crea Sanità: l’universalismo selettivo è dietro l’angolo

Mancano le risorse economiche e umane per il Ssn: se il Pil non cresce, il rischio è di dover limitare l’accesso alla sanità alle categorie più fragili. L’analisi del 18° Rapporto Crea Sanità

Universalismo selettivo. È questa la parola che caratterizza il 18° rapporto di Crea Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità) presentato il 25 gennaio al Cnel di Roma. Un timore che per la prima volta diventa una possibilità concreta, se non riusciremo ad attuare gli interventi correttivi necessari per garantire la sostenibilità del nostro Servizio sanitario nazionale. Anche il titolo del documento è esplicativo della gravità della situazione: “Senza riforme e crescita, Ssn sull’orlo della crisi”.

Nato per fotografare lo stato di salute del nostro Ssn e stimolare il dibattito tra le varie parti coinvolte, da sempre il rapporto è anche uno strumento ricco di dati al servizio dei decisori politici.

Il nuovo rapporto di Crea Sanità evidenzia la necessità di rendere operative tante intenzioni, uscendo dal micro e muovendosi a livello di Paese

Non ci piace essere pessimisti e non vogliamo esserlo, non è questo lo scopo – ha affermato Federico Spandonaro, presidente del Comitato scientifico di Crea Sanità – Con il Rapporto abbiamo provato a evidenziare che non si può far finta che certe cose stiano succedendo o non siano già successe. L’anno scorso dicevamo che mancava una vision per il futuro: oggi l’impressione è che non ci sia nemmeno per il presente. Purtroppo il nostro sistema è già selettivo, e lo è in maniera disordinata e non governata. Con il nostro documento vogliamo provare a buttare il cuore oltre l’ostacolo e cercare di rendere operative tante intenzioni di cui si discute da anni, uscendo dal micro e provando a muoverci a livello di Paese”.

Il 2022 può essere considerato il primo anno post-pandemico. Sebbene SarsCoV2 continui a circolare, per gli esperti siamo entrati in una fase di “normalizzazione”, che si traduce anche nel tornare a parlare dei temi – in questo caso sanitari – che caratterizzavano la fase pre-pandemica. Da qui la necessità di tornare a ragionare su temi come la sostenibilità del Ssn o i tetti di spesa.

I dati sulla pandemia

I dati analizzati al rapporto si riferiscono per lo più al 2020 e 2021 e questo è uno dei problemi: sebbene durante la pandemia abbiamo dimostrato di poter avere informazioni in tempo reale sui contagi, quando si parla di ospedalizzazione o attività ambulatoriali i dati sono elaborati più lentamente.

Dalle informazioni a disposizione, tuttavia, arriva la conferma che il 2021 è stato ancora caratterizzato da molte “anomalie quantitative”, già registrate nel 2020, per lo più attribuibili all’impatto della pandemia. Il “biennio pandemico” 2020-2021 ha visto, nello specifico, un crollo significativo dell’attività dei servizi sanitari regionali e un parallelo incremento del personale e dei costi del servizio.

Solo nell’ultimo trimestre 2021 i flussi della specialistica ambulatoriale suggeriscono un ritorno sui livelli di attività pre-pandemica.

Sebbene in pandemia abbiamo dimostrato di poter avere informazioni in tempo reale sui contagi, quando si parla di ospedalizzazione o attività ambulatoriali i dati sono elaborati più lentamente

Analizzando i dati provenienti dalle schede di dimissione ospedaliera e dai flussi della specialistica ambulatoriale, emerge che, sebbene il Covid abbia comportato una selezione dei ricoveri (a causa della sospensione dell’attività in elezione), complessivamente l’attività ospedaliera si è ridotta significativamente: i ricoveri ordinari in acuzie sono calati del 18,1%, (ovvero ad un tasso 4,6 volte maggiore rispetto alla media annua del decennio precedente), mentre le giornate di degenza si sono ridotte del 13,1% (per le acuzie in regime ordinario), cioè 4,4 volte rispetto alla percentuale media del decennio 2010-2020.

E l’Italia è il Paese europeo con i più bassi tassi di ospedalizzazione.

Peraltro, parallelamente alla riduzione dell’attività di ricovero e ambulatoriale, il personale sanitario è aumentato del 3% rispetto al 2019: “Questo significa che lo stress delle strutture ospedaliere e dei relativi professionisti debba essere circoscritto all’ambito delle specifiche specialità che hanno retto l’impatto dei contagi – ha notato Spandonaro – In particolare, i reparti di malattie infettive e le pneumologie, che hanno raggiunto con tassi di occupazione dei letti rispettivamente pari al 162,6% e 86,5%”.

Se si guarda al recupero delle prestazioni perse, nonostante i finanziamenti per la riduzione delle liste d’attesa, solo nell’ultimo trimestre 2021 i volumi crescono, senza riuscire tuttavia a raggiungere i livelli pre-pandemici. Vi è chiaramente una differenziazione regionale e, curiosamente, si è osservata una più marcata riduzione dei volumi nelle Regioni che, in condizioni normali, erogano un numero maggiore di prestazioni di specialistica ambulatoriale.

“Il fenomeno sembra suggerire che in queste aree vi fosse anche una quota significativa di prestazioni inappropriate che, come tali, non saranno più erogate, probabilmente, anche per effetto della risoluzione spontanea del bisogno percepito dal paziente”, ha sottolineato Daniela D’Angela, direttore dell’area Ricerca di Crea Sanità.

Il sottofinanziamento e l’equità del sistema

Per avere un’incidenza media sul Pil analoga agli altri Paesi dell’Unione europea all’Italia mancano almeno 50 miliardi di euro. La spesa sanitaria del nostro Paese ha infatti registrato, nel 2021, una forbice di -38% circa (-12% di spesa privata e -44% circa di spesa pubblica) crescendo, tra il 2000 e il 2021, del 2,8% medio annuo, il 50% in meno che negli altri Paesi europei di riferimento.

“Secondo noi, poiché la sanità eroga servizi, sarebbe meglio ragionare in termini nominali, magari corretti per potere d’acquisto”, ha ricordato Spandonaro.

Per recuperare il passo, quindi, servirebbe una crescita annua del finanziamento di 10 miliardi di euro per 5 anni, più quanto necessario per garantire la stessa crescita degli altri Paesi europei presi a riferimento, ovvero altri 5 miliardi di euro. Cifre che, in questo momento, paiono inarrivabili: dopo la pandemia, infatti, il nostro investimento in sanità crescerà di 2 miliardi l’anno, contro i 15 che sarebbero necessari.

Dopo la pandemia il nostro investimento in sanità crescerà di 2 miliardi l’anno, contro i 15 che sarebbero necessari

“La ricetta è “crescere per non selezionare” – ha ricordato Spandonaro –: per mantenere, cioè, un servizio sanitario nazionale universalistico e non essere costretti a un “universalismo selettivo” e mantenere equità di accesso, è necessario far crescere il Pil”.

Privilegiare l’accesso delle persone più fragili al Ssn, tuttavia, porrebbe problemi importanti in termini di equità, un’altra parola chiave del Rapporto.

Secondo il documento, nel 2021 il finanziamento pubblico si è fermato al 75,6% della spesa contro una media europea dell’82,9% e la spesa privata ha inciso sul Pil per il 2,3% contro una media Eu del 2%. Queste percentuali si traducono in oltre 1.700 euro a nucleo familiare, famiglie che si sono dovute sobbarcare per esempio oltre un miliardo per farmaci compresi tra quelli rimborsabili dal Ssn.

Daniela D’Angela ha sottolineato come “Solo il 20% degli italiani più ricchi ha aumentato i consumi privati durante la pandemia, una quota più bassa di quello che ci saremmo aspettati”.

La fotografia del disagio economico per le spese sanitarie mostra come sia il 5,2% delle famiglie a versare in tale stato: 378.627 nuclei familiari (l’1,5%) si impoveriscono per le spese sanitarie e 610.048 (il 2,3%) sostengono spese sanitarie cosiddette “catastrofiche”, che cioè impegnano oltre il 40% della propria capacità di spesa.

 Il 40% di risorse del Pnrr vincolate per il Sud potrebbero non essere sufficienti a riequilibrare equitativamente il Ssn

“In questo contesto – ha aggiunto D’Angela – il 40% di risorse del Pnrr vincolate per il Sud potrebbero non essere sufficienti a riequilibrare equitativamente il Ssn: per questo è necessario agire anche sul riparto della spesa corrente, in primo luogo considerando quella parte di spesa privata che rappresenta uno sgravio per i conti delle Regioni, e che incide maggiormente in quelle dove il reddito medio è più alto”. In Lombardia, per esempio, questa quota arriva a 828,3 euro pro-capite mentre in Sardegna si ferma a 442,9 euro.

La carenza di personale

In termini di risorse umane l’Italia sconta oggi decenni di politiche restrittive: il Rapporto calcola che se il nostro Paese volesse allinearsi agli organici di professionisti sanitari degli Stati Ue di riferimento, senza tenere conto del maggiore bisogno derivante dall’età media più alta della popolazione, dovrebbe investire 30,5 miliardi di euro.

Questo perché, sempre rispetto alle medie europee, in Italia, i medici ogni 1.000 abitanti sono sì un po’ di più, ma se si considera la popolazione over75 ne potrebbero mancare circa 30 mila e per il riequilibrio se ne dovrebbero assumere almeno 15 mila ogni anno per i prossimi 10 anni, mettendo in conto le dinamiche annuali di pensionamento (circa 12 mila l’anno, essendo in media più anziani).

E anche per gli infermieri la situazione non è rosea: la carenza supera le 250 mila unità rispetto ai parametri europei e, comunque, solo per il nuovo modello disegnato dal Pnrr ne servirebbero 40-80.000 in più.

In questo caso, servirebbero 30-40.000 nuovi infermieri ogni anno (anche qui considerando il numero di pensionati/anno: circa 9mila), un numero irraggiungibile anche perché la propensione a intraprendere la professione in Italia è un terzo che negli altri Paesi dell’Ue.

Entrano nel nostro Paese meno dell’1% dei medici, contro il 10% negli altri Paesi; per gli infermieri, ne arrivano dall’estero meno del 5%, contro il 15% nel Regno Unito e il 9% in Germania

Né l’Italia può far conto di attrarre professionisti dall’estero: entrano nel nostro Paese meno dell’1% dei medici, contro il 10% negli altri Paesi; analogamente, vengono dall’estero meno del 5% degli infermieri contro percentuali del 15% nel Regno Unito e del 9% in Germania.

I medici italiani, poi, oltre a essere pochi, guadagnano in media il 6% in meno e gli infermieri in media il 40% in meno dei loro colleghi europei e se, oltre agli organici, si volesse considerare anche la necessaria rivalutazione delle retribuzioni, l’onere per la spesa corrente del sistema sanitario crescerebbe a 86,8 miliardi di euro.

Barbara Polistena, direttore generale e scientifico Crea Sanità, ha sottolineato come quello delle risorse umane “non sia solo un problema di numeri, ma anche di “vocazioni”. Ci sono alcune aree sanitarie scoperte a prescindere dal numero chiuso universitario. Dobbiamo lavorare per rendere attrattive queste professioni”. Il rischio, altrimenti, è utilizzare risorse per la formazione di personale che andrà a lavorare altrove.

Senza risorse e senza personale è anche impossibile, sottolinea il Rapporto, recuperare il 65% di prestazioni perse durante la pandemia, di cui hanno sofferto soprattutto i “grandi anziani”: il 70% degli over80 registra infatti un peggioramento dello stato di salute, soprattutto nei centri maggiori e nel Nord-Ovest, e il 50% di loro ha speso di più privatamente per bisogni sanitari e sociali.

Per avere qualche indicazione pratica, nel 2022 il Crea, in collaborazione con Federsanità, ha coinvolto i direttori generali chiedendo loro come organizzerebbero le risorse umane. Tra gli aspetti principali emersi, la volontà di mantenere le procedure di acquisizione del personale semplificate, come durante la pandemia e introdurre incentivi per sostenere le politiche di ricollocazione del personale sanitario.

Le sfide aperte

Il Servizio sanitario nazionale, quindi ha di fronte tre grandi sfide:

  • ridurre le sperequazioni
  • adeguare le dotazioni organiche
  • rimanere sostenibile

Se i primi due obiettivi richiedono risorse aggiuntive rilevanti, il terzo si scontra con strada della “sobrietà”, quella concretamente prevista nei documenti di finanza pubblica, che allocano per la sanità risorse che il Rapporto mostra essere lontane dai volumi che sarebbero richiesti per un “allineamento” del Ssn italiano a quelli dei Paesi europei di riferimento. Proprio questa distanza dimostra l’insostenibilità attuale, di fatto, del Ssn.

La crescita rimane, quindi, la sfida essenziale per il sostentamento del welfare; una sfida che per i curatori del rapporto deve essere affrontata dalla classe politica e che esula dai confini delle politiche sanitarie: allo stesso tempo, però, diventa essenziale identificare le opportunità che la filiera della salute ha per contribuire alla crescita del Paese.

Purtroppo, malgrado ripetuti proclami sulla priorità del settore, e sulla necessità di incentivarne l’industria, il raccordo fra politiche sanitarie e politiche industriali è rimasto molto labile

“Purtroppo, malgrado ripetuti proclami sulla priorità del settore, e sulla necessità di incentivarne l’industria, il raccordo fra politiche sanitarie e politiche industriali è rimasto molto labile”, ha osservato durante le conclusioni Spandonaro, che ha anche auspicato un ripensamento generale della governance farmaceutica e dei dispositivi medici, per adeguarla alle modifiche intervenute nei processi di R&S e quindi, alle nuove caratteristiche dei beni che arrivano sul mercato.

Le conclusioni del report sono chiare: “Il Ssn appare essere arrivato ad un punto di non ritorno: o cambiano le condizioni al contorno o sarebbe colpevolmente ingenuo pensare di poter mantenere il servizio così come è; una progressiva e non governata riduzione dei livelli di tutela genererebbe, infatti, un opting out dei più abbienti, sancendo di fatto la fine del sistema universalistico”.

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista