La storia è purtroppo sempre la stessa: il sistema-istruzione italiano produce ricercatori tra i più validi e premiati a livello internazionale ma poi l’ecosistema ricerca-impresa tricolore fa ancora troppo poco per trattenerli. Ecco perché nonostante la ricerca italiana si collochi al secondo posto in quanto a Erc Grant ottenuti, l’Italia è l’unico Paese con un saldo negativo fra grant ottenuti per nazionalità e grant ricevuti per ricerche condotte in patria.
Secondo l’Ambrosetti Life Sciences Innosystem Index presentato a Milano infatti, nonostante l’Italia sia seconda in Europa per pubblicazioni scientifiche nel comparto life sciences e prima per citazioni, ben il 56% dei ricercatori ha scelto di percorrere la propria carriera all’estero. Tra i Paesi più attrattivi Francia, Uk e Paesi Bassi.
Quello che ancora oggi stupisce maggiormente sono le motivazioni che spingono i ricercatori a lasciare l’Italia. Prima fra tutte la mancanza di meritocrazia, lamentata dall’84% degli intervistati come punto dolente. Seguito a ruota dalla scarsa competitività dei salari (72%) e dalla mancanza di università o centri di ricerca di eccellenza nel comparto life science (64%).
Su quest’ultimo dato una riflessione e una testimonianza importante è arrivata da Giorgio Seano, Head of Tumor Microenvironment Lab presso l’Institut Curie Research Center francese: “Ho deciso di lasciare l’Italia per la Francia e per l’istituto Curie perché qui si riesce a coniugare ricerca di base con quella traslazionale, perché sono stato reclutato con una international call totalmente indipendente e scevra da campanilismo”. E quanto alla possibilità di fare qualcosa di analogo nello Stivale ha aggiunto: “Anche in Italia si potrebbe fare tutto ciò, ma solo in pochi centri di eccellenza che permettono di rimanere competitivi a livello internazionale, anche in termini di velocità dei tempi con cui si può accedere ai fondi per la ricerca e alla possibilità di reclutare anche ricercatori esteri”.
Il 56% dei ricercatori lasciano l’Italia per l’estero subito dopo la laurea e chi rimane lo fa quasi esclusivamente (87%) per scelte personali o familiari
A lasciare l’amaro in bocca è anche il dato relativo al momento in cui i ricercatori lasciano l’Italia per l’estero: ben il 56% subito dopo la laurea e il 36% al momento del post dottorato. Numeri che restituiscono l’immagine di un contesto talmente poco competitivo da scoraggiare sin da subito sul poter contare sull’offerta lavorativa del nostro Paese per chi desidera fare ricerca nelle scienze della vita.
Viceversa, quelli che decidono di restare lo fanno quasi esclusivamente (87%) per scelte personali o familiari e solo nel 57% dei casi perché valutano positivamente la qualità della ricerca italiana e sceglierebbero nuovamente di restare in Italia, a fronte del 43% che farebbe scelte diverse.
La maggior parte dei ricercatori che lascia l’Italia rimane per sempre o quasi un expat, costruendo carriera e famiglia all’estero. Il 100% degli intervistati conferma che è contento della scelta operate e che se tornasse indietro ripeterebbe l’esperienza. Tanto che ben il 64% di essi ritiene prossima allo zero l’eventualità di un rientro.
Eppure ci sono anche casi in cui si torna in patria. Come ha raccontato Francesca Rapino, Assistant Professor and Head of the lab of Cancer Stemness all’Università di Liège nonché co-Founder e Coo di Theratrame: “Decisi di andare in Belgio per la curiosità tipica del ricercatore di vedere come funzionano altri ecosistemi della ricerca. Poi sono rientrata in Italia perché ho trovato un terreno fertile per proseguire con profitto la mia ricerca. Ho avuto contatto proficuo con il mondo imprenditoriale e credo che una relazione profonda tra il mondo della ricerca e quello dell’industria sia importante per far capire ai ricercatori che ciò che avviene in laboratorio ha poi una finalità di prodotto. Dall’altro canto gli imprenditori hanno bisogno della creatività dei ricercatori quanto questi ultimi del supporto dell’impresa”.
Ed è proprio l’impresa a essere uno dei player dell’ecosistema delle life sciences insieme alle istituzioni e ai centri di ricerca pubblici. Un’impresa che però investe troppo poco, o comunque non abbastanza.
Le imprese italiane investono in ricerca e sviluppo circa 12€ per abitante, contro i 16€ della Spagna, i 63€ della Germania e i 252€ del Belgio
L’indagine Ambrosetti infatti ha analizzato anche lo stato delle risorse a supporto dell’innovazione, per capire quanto il settore italiano sia capace di sostenere e attrarre gli investimenti, sia nella ricerca e sviluppo che quelli dei Venture Capital (Vc) e di Private Equity (Pe) che permettono alle start up di fare quel salto di qualità che le fa diventare aziende capaci di puntare alla quotazione in Borsa o di divenire attraenti per l’acquisizione da parte di realtà più strutturate. Ebbene il nostro Paese è al nono posto su 25 Paesi europei considerando complessivamente indicatori quali gli occupati nelle scienze della vita sul totale degli addetti del settore manifatturiero, lo start up rate delle imprese life science e la produttività del loro lavoro.
Gli investimenti in ricerca e sviluppo delle imprese tricolore si attestano a 12,6 euro per abitante, meno di quanto avviene in Spagna (16,4 euro), cinque volte meno della vicina Germania (63,1 euro) e 20 volte meno del Belgio (252 euro).
Naturalmente ciò non aiuta a presentarsi come si deve ai potenziali investitori privati. E infatti il mercato dei Vc e dei Pe vede l’Italia al decimo posto per attrattività, a distanza di molte lunghezze dal vertice della classifica che vede sul podio, nell’ordine, Germania, Francia e Paesi Bassi.
Una bassa attrattività che è ragione anche dell’eccessiva burocrazia, complessità e trasparenza che grava sui percorsi e sulla governance della ricerca italiana nelle scienze della vita. “Siamo lontani anni luce dai sistemi esteri di trasparenza nell’assegnazione dei grant”, ha tuonato la Direttrice Generale della Fondazione Telethon, Francesca Pasinelli.
Nonostante le difficoltà, il mercato finanziario italiano è molto aperto a ciò che si presenta con un business plan convincente, che possa portare una start up a crescere nel tempo
Tuttavia non tutto è perduto. Perché “il mercato finanziario italiano è molto aperto a ciò che si presenta con un business plan convincente, che possa portare una start up a crescere nel tempo”, ha detto la Direttrice Generale di Aifi, Anna Gervasoni, ricordando che in 5 anni Vc e Pe hanno investito circa sei miliardi di euro in 300 aziende italiane impegnate nelle life science – di cui 4,5 miliardi provenienti da fondi internazionali – a fronte dei 75 miliardi su 6.500 aziende in Europa e dei 400 miliardi a livello globale.
E Pasinelli fa eco a Gervasoni: “Non ci dobbiamo scoraggiare, non dobbiamo aprire le braccia. Ma è necessario che ammettiamo i limiti nazionali” quali la “farraginosità dei sistemi di reclutamento che disincentiva la rapidità e la contrattazione salariale” dei ricercatori”. Importante secondo Pasinelli anche non commettere nuovamente “l’errore mostrato con la gestione del Pnrr, dove si è deciso come spartire la torta (dei fondi, ndg) senza prima conoscere i progetti meritevoli e le esigenze. Impariamo guardando all’estero dove queste cose funzionano meglio e i finanziamenti sono bottom-up”. Per invertire la rotta “dobbiamo agire proprio dove occorre e risolvere i problemi, anche rivalutando i processi e gli schemi attuali”.
Dal Ministero dell’Università e della Ricerca si conferma l’impegno a lavorare per la semplificazione della complessità
Molti dunque gli interrogativi emersi dal confronto dei player intervenuti all’evento Ambrosetti, a cui ha cercato di rispondere la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini. Che ha riconosciuto come per la ricerca sia stato “seminato a tratti in modo discontinuo” e che al contempo l’Italia ha “un’ottima ricerca, da valorizzare”. Una ricerca che purtroppo “non è ancora dotata di una continuità di finanziamento”, ha riconosciuto Bernini.
Quanto alla sburocratizzazione ha detto: “Molti mi chiedono se creare una Agenzia per la Ricerca; il Mur lo è”. Bisogna piuttosto: “evitare un’eccessiva burocrazia fatta di corpi intermedi”, ha aggiunto ricordando che una delle direzioni del ministero è proprio quella di lavorare alla semplificazione della complessità.
Tra le tattiche da utilizzare per velocizzare questo cambio di rotta “copiare le esperienze estere”, cogliendo il meglio e adattandolo al nostro contesto.