Speriamo che la morte ci trovi vivi

Al festival Iconografia della Salute è atteso l'intervento su fiducia e fine vita della tanatologa Marina Sozzi. "Quando le persone sono accompagnate da buone cure palliative - spiega - tutta la comunità ne beneficia, sia chi lascia il mondo sia chi resta, che spesso affronta il lutto con maggiore serenità e forza"

Prosegue la collaborazione con il Cultural Welfare Center (CCW) sulla base di un progetto comune di diffusione della conoscenza sul valore delle arti e della cultura per il benessere e la salute

 

Iconografia della Salute è il festival delle Medical Humanities ideato nel 2020 dal Centro Studi Medical Humanities di Alessandria per valorizzare questo approccio, che riunisce le tante discipline coinvolte che influiscono sul percorso di cura del paziente.  Il Festival si svolgerà in maniera virtuale dal 24 al 26 ottobre rinnovandosi nel format, anche grazie alla collaborazione con il Centro Nazionale Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità e la Società Italiana di Medicina Narrativa, ponendo l’accento su due temi delicati e d’attualità, fiducia e fine vita, strettamente correlati se si pensa al rapporto operatori di cura e persone assistite o ai momenti in cui il caregiver si confronta con le disposizioni anticipate di trattamento. Il programma completo del Festival è disponibile sul sito www.iconografiadellasalute.it.

La giornata del 25 ottobre, dedicata al fine vita, verrà aperta da Marina Sozzi, direttrice dell’associazione SAMCO e figura di riferimento sui temi inerenti al fine vita di cui si occupa da oltre trent’anni. L’ascoltiamo in tema e sulle cure palliative, partendo proprio dalla loro corretta definizione.

Spesso si usa il termine “palliativo” per indicare qualcosa che non funziona, che non serve. Invece, le cure palliative, il cui accesso è garantito dalla legge 38 del 2010 a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno, sono ben altro. Vuole spiegarci meglio?

Il termine “palliativo” deriva dal termine latino pallium, che significa mantello. Le cure palliative non hanno niente a che fare con il tenere la mano a chi sta morendo, come molti credono. Sono cure complesse, rivolte a tutte le persone che abbiano una malattia inguaribile e a prognosi infausta, avvolgono di protezione i malati e le loro famiglie. Non poter guarire non significa non poter curare. Il motto delle cure palliative è: “quando non c’è più niente da fare, c’è ancora tanto da fare…”. Ciò che si può fare è garantire al paziente la migliore qualità della vita possibile, fino alla fine, controllando il dolore e gli altri sintomi disturbanti, sostenendolo dal punto di vista non solo fisico, ma anche psicologico, sociale e spirituale. Significa prendersi cura dell’intera famiglia, supportando i familiari nel loro ruolo di caregiver e aiutandoli a riorganizzare la loro vita dopo la perdita.

L’accompagnamento delle cure palliative permette che nessuno si senta solo nel dolore, né quando si appresta a lasciare la vita, né quando affianca i propri cari malati. Infatti, come scriveva Cicely Saunders, iniziatrice delle cure palliative in Inghilterra, “la sofferenza è intollerabile solo se non importa a nessuno”.

Le cure palliative mettono al centro il paziente, per permettergli di fare le sue scelte di fine vita in un’atmosfera di rispetto e di attenzione, senza perdere il suo ruolo sociale e familiare, in nome di un’autodeterminazione perseguita come scopo concreto dell’assistenza. Hanno un versante tecnico (non è semplice dosare e combinare i farmaci e gli interventi terapeutici per ottenere una buona qualità della vita) e uno squisitamente umano, relazionale, che comporta la capacità di attenzione e vicinanza, e in ultima analisi l’empatia.

Quando le persone sono accompagnate da buone cure palliative, tutta la comunità ne beneficia, sia chi lascia il mondo sia chi resta, che spesso affronta il lutto con maggiore serenità e forza

Tutti i cittadini hanno pari diritto di accesso alle cure palliative, qualora ne abbiano bisogno, come stabilito dalla legge 38/2010 e dalla legge 219/2017. Quando le persone sono accompagnate da buone cure palliative, tutta la comunità ne beneficia, sia chi lascia il mondo sia chi resta, che spesso affronta il lutto con maggiore serenità e forza. La legge 38 elenca come segue le sue finalità: “a) tutela della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione; b) tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine; c) adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale della persona malata e della famiglia.”

Come si praticano le cure palliative? Quali sono le competenze richieste?

Le cure palliative si dividono in cure palliative di base, coordinate dal medico di medicina generale (quando i bisogni del paziente e della sua famiglia sono semplici) e cure palliative specialistiche (quando i bisogni sono maggiormente complessi). In Italia, tradizionalmente, è soprattutto il Terzo Settore ad aver costruito, a partire dalla fine degli anni Ottanta, équipe di cure palliative specialistiche, che lavorano, in genere, in convenzione con le aziende sanitarie locali. La dimensione dell’équipe è fondamentale, perché permette al paziente e ai suoi cari di sentirsi accolti in modo olistico, con attenzione agli aspetti fisici, psicologici, sociali, e spirituali della malattia e dell’approssimarsi della morte.

Tutti i curanti, in cure palliative, devono essere in grado di comprendere quali siano i principali bisogni dei pazienti e dei loro familiari

Le équipe specialistiche sono multiprofessionali e sono composte da medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali, OSS, arte e musicoterapeuti, volontari. Tutti i curanti, in cure palliative, devono essere in grado di comprendere quali siano i principali bisogni dei pazienti e dei loro familiari. Contenere il dolore e gli altri sintomi dell’approssimarsi della fine della vita (insonnia, dispnea, nausea, vomito, stipsi, debolezza) è obiettivo primario. Talvolta solo quando questi sintomi sono sotto controllo diventa possibile per il malato esprimere altri bisogni, che riguardano il bilancio della propria vita, le relazioni con i familiari o l’accettazione della morte. Ogni figura ha naturalmente la sua professionalità, ma la dimensione dell’équipe è di fondamentale importanza, perché tutti i curanti devono comprendere che cosa fanno gli altri e quali sono le priorità, che diventano così priorità condivise. Sia per l’esigenza di lavorare in modo coeso, sia per quella di sviluppare la capacità empatica nei curanti, l’équipe ha sempre una supervisione psicologica, che permette la crescita della solidarietà interna e l’accoglimento delle difficoltà di ciascuno.

Che funzione hanno la musica e l’arte in cure palliative?

Tra le attività portate avanti dal musicoterapeuta, una delle più importanti è la pratica dell’improvvisazione musicale con strumenti e voce. Grazie a questa modalità il paziente, o i suoi familiari, anche se privi di formazione musicale, possono manifestare e dare forma a emozioni difficili da esprimere mediante il linguaggio verbale. Il terapeuta ha quindi la possibilità di accogliere, sostenere, e provare a rielaborare e restituire i contenuti espressi. Un’altra attività importante è l’ascolto di musiche eseguite dal vivo o registrate. Nel caso in cui si volesse stimolare la memoria, o migliorare il tono dell’umore, il musicoterapeuta può proporre brani conosciuti dal malato. Nel caso in cui invece occorra rilassare il malato, il professionista suona per lui brani distensivi, attingendo non solo al proprio bagaglio culturale, ma anche a improvvisazioni strumentali o vocali che siano in sintonia con il paziente, facendolo spesso assopire. Tra le pratiche più efficaci, quando le condizioni di salute del malato ancora lo permettano, c’è la composizione di canzoni. Tutte queste attività portano all’instaurarsi di relazioni interpersonali, migliorano la capacità di espressione e regolazione delle emozioni e soprattutto creano momenti di condivisione importanti e autentici.

L’arteterapia consente ai malati di comunicare il proprio vissuto attraverso la pittura

In modo analogo funziona l’arte. L’arteterapia consente infatti ai malati di comunicare il proprio vissuto attraverso la pittura. Il linguaggio non verbale porta sovente alla luce una parte molto intima della persona, che era sconosciuta anche allo stesso paziente. L’arteterapia si rivolge anche alle famiglie. I figli dei pazienti alla fine della vita dialogano spontaneamente con pennelli e colori. Esprimono le loro paure, il loro amore, o sfuggono semplicemente ad una pressione troppo forte dovuta alla malattia di un genitore.

Quanto sono diffuse e note nel nostro paese le cure palliative?

Vari sondaggi hanno purtroppo dimostrato che nel nostro paese la maggioranza della popolazione non conosce i propri diritti in merito alle cure palliative e ne ignora la funzione. Molti pregiudizi, alimentati da una cultura ossessivamente orientata a negare la morte, allontanano le persone dalla conoscenza di questo tema, che è essenziale, visto che il cento per cento degli uomini e delle donne affronterà la morte e buona parte di loro avrà a che fare con lunghe malattie croniche.

Purtroppo, anche i medici non sono preparati sul tema delle cure palliative

Purtroppo, anche i medici non sono preparati sul tema delle cure palliative. Non sono abbastanza consapevoli i medici di medicina generale, che pure sono stati individuati come figure chiave, essendo loro, nella maggior parte dei casi, ad attivare le cure palliative, e, come stabilisce la legge 38, a coordinare gli interventi palliativi “di base” e ad essere presenti nel caso di interventi di équipe di cure palliative specialistiche. Non essendoci una  sufficiente preparazione dei medici di famiglia su questo tema, spesso si hanno ritardi nell’attivazione delle cure palliative, riducendone notevolmente gli effetti benefici.

Oggi si parla sempre di più di cure palliative simultanee. Cosa si intende con questa espressione?

Contrariamente all’idea che le cure palliative siano cure di fine vita, o che debbano necessariamente essere attivate quando tutte le terapie attive siano state interrotte, oggi i palliativisti sostengono l’importanza di cure palliative precoci

Contrariamente all’idea che le cure palliative siano cure di fine vita, o che debbano necessariamente essere attivate quando tutte le terapie attive siano state interrotte, oggi i palliativisti sostengono l’importanza di cure palliative precoci, che vengano iniziate quando il paziente, magari ancora in cura per terapie che cerchino di controllare o stabilizzare la malattia, manifesti dei sintomi che richiedono un intervento palliativo.

Dal punto di vista culturale, si tratta di un grande cambiamento, perché viene meno il pensiero (ancora troppo diffuso) della palliazione come  intervento prima della morte. Il palliativista  che lavora di concerto con gli specialisti d’organo  ha una migliore conoscenza del paziente nel momento in cui siano sospese le terapie attive.

Proprio per il cambiamento di mentalità richiesto, tuttavia, c’è molta resistenza della classe medica di fronte alle cure palliative simultanee. “Non sta ancora morendo” è una frase che i pazienti e i familiari si sentono spesso dire se chiedono di essere seguiti da cure palliative. Ciò accade nonostante molti studi chiariscano che la Sanità, in presenza di buone cure palliative, risparmia su tutti gli altri capitoli di spesa, perché si evitano esami diagnostici costosi e inutili e terapie inappropriate, che non allungano più la vita, né sono in grado di migliorarne la qualità.

Come si collocano le cure palliative all’interno della biomedicina?

Le cure palliative hanno rappresentato un’importante istanza critica all’interno della biomedicina, fin da quando hanno avuto origine, in Inghilterra, verso la metà del secolo scorso, ad opera di Cicely Saunders, infermiera, assistente sociale e medico che ha dato inizio al movimento hospice. In una medicina orientata a respingere le morte con tutte le sue energie, e in mancanza di una preparazione dei curanti ad accogliere la morte del paziente, a comunicare cattive notizie,  a stare accanto a pazienti non più guaribili, le cure palliative riaffermano la dignità dell’ultimo periodo della vita, la possibilità di viverlo fino in fondo (“speriamo che la morte ci trovi vivi”), affiancati e accompagnati in modo corretto. Contro la diffusa oppiofobia della medicina, soprattutto in Italia, hanno affermato l’esigenza di usare la morfina e di dare la terapia antalgica a intervalli regolari e non su richiesta del paziente. Hanno insegnato l’importanza della comunicazione corretta della diagnosi e della prognosi, insegnando a “stare nella verità”, rispettando il percorso di consapevolezza del paziente e dei suoi familiari, e non a mentire, tacere, o al contrario riversare la verità per intero e subito su persone non in grado di accoglierla.

All’interno di una biomedicina che ha contribuito a respingere il pensiero della morte, le cure palliative hanno cercato di costruire la possibilità di una crescita personale in prossimità della morte

All’interno di una biomedicina che ha contribuito a respingere il pensiero della morte, le cure palliative hanno cercato di costruire la possibilità di una crescita personale in prossimità della morte: perché tutti dobbiamo morire, e proprio per questo conta il come si muore.

Si è sempre parlato delle cure palliative come della “cenerentola” della medicina. Oggi c’è nel nostro paese un’importante novità, l’istituzione della scuola di specialità in medicina palliativa. I giovani medici potranno quindi specializzarsi in cure palliative: ne deriverà sia l’aumento della competenza in questo ambito, sia la rilevanza del percorso.

 

Marina Sozzi è nata a Pavia, è laureata in filosofia, e ha studiato all’EHESS a Parigi e alla Normale di Pisa. Da quasi trent’anni si occupa di temi inerenti al fine vita. È stata direttrice scientifica della Fondazione Fabretti, quindi ha collaborato con la Rete oncologica del Piemonte e della Valle d’Aosta coordinando un Centro di Promozione delle cure palliative, e attualmente dirige un’associazione di cure palliative nella provincia di Torino (SAMCO). Dal 2012 scrive un blog dal titolo “Si può dire morte”. Ha insegnato per alcuni anni Tanatologia all’Università di Torino. Tra i suoi libri: Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia (Laterza 2009); Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita (Chiarelettere 2014); Non sono il mio tumore. Curarsi il cancro in Italia (Chiarelettere 2019).

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Mariateresa Dacquino
Dirigente Formazione, Comunicazione, Fundraising, Azienda Ospedaliera di Alessandria (AOAL). Direttore Centro Studi Cura e Comunità per le Medical Humanities, DAIRI AOAL. Masterista CCW-Cultural Welfare Center