L’ultimo rapporto di Crea Sanità ha evidenziato come, nel 2018, mancassero all’appello 3,93 infermieri ogni mille abitanti, segnalando una carenza che oscilla complessivamente tra i 23.000 e i 43.000 professionisti.
Il documento State of the Health in the Eu 2021 dedicato all’Italia e redatto dall’Ocse, con l’European Observatory on Health System and Policies, in collaborazione con la Commissione europea ha rilevato come l’Italia sia tra i Paesi con il minor numero di infermieri (6,2 per mille abitanti, circa il 25% in meno rispetto alla media Ue), sottolineando anche come il numero di laureati sia diminuito dal 2014.
L’Italia nel 2019 era quartultima tra i Paesi Ocse per numero di laureati in materie infermieristiche ogni 100.000 abitanti (dopo di lei solo Messico, Lussemburgo e Colombia): nel Belpaese 18,4 persone, contro le 44,5 della media Ocse e a fronte di Paesi come Germania e Gran Bretagna che ne hanno rispettivamente 54,3 e 65,6 fino ad arrivare ai 108,2 della Svizzera.
“Come sottolineato anche dalla Commissione europea, si devono aumentare i posti a bando nelle università – sottolinea Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche – Secondo i nostri calcoli, mancano almeno 63.000 infermieri in Italia ma fonti istituzionali come l’Agenas e istituti di ricerca come Bocconi e Crea Sanità stimano tra le 80.000 e le 100.000 unità per poter soddisfare le nuove esigenze legate al Pnrr”.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza individua infatti nell’infermiere una figura cardine non solo in ambito ospedaliero, ma anche sul territorio. Nel mese di gennaio, si sono mosse anche le associazioni di malati cronici, che hanno scritto a Governo, Parlamento e Regioni per chiedere un impianto normativo che valorizzi la multidisciplinarietà e la presenza di infermieri specializzati sul territorio. I gruppi firmatari rappresentano oltre 22 milioni di persone in Italia.
Gli infermieri sono la categoria più coinvolta nel precariato sia prima che durante la pandemia
“Formalmente esiste un tavolo interministeriale tra università e Salute per ripensare alla formazione infermieristica. Il problema è che non ha mai iniziato ad operare”, ha lamentato Mangiacavalli, ricordando poi come gli infermieri siano “la categoria più coinvolta nel precariato sia prima che durante la pandemia, proprio per il loro ruolo di prossimità alla persona che, in ospedale come sul territorio, li rende figure necessarie in gran numero per un’assistenza di qualità. La carenza ormai storica di organici ha costretto durante la pandemia a immettere con contratti flessibili nel sistema più del doppio dei precari che già erano presenti nel Ssn, chiedendo tuttavia competenze specialistiche che ci sono, ma che ancora non sono regolamentate normativamente, mentre ora è evidente la loro necessità per poter gestire i vari segmenti dell’assistenza”.
Formazione e stipendi
Numeri alla mano, la carenza di personale ha una serie di conseguenze negative: un rapporto infermieri-pazienti superiore a 1 a 6 (considerato lo standard ottimale, che diventa 1 a 4 nei bambini) aumenta il rischio di mortalità tra il 25 e il 30%. “L’aumento di un paziente per infermiere rispetto allo standard, poi, fa crescere il rischio di riammissione in ospedale dell’11% nelle unità mediche e del 48% in quelle chirurgiche – continua Mangiacavalli – Negli ospedali ad alta complessità, inoltre, il rapporto infermieri pazienti dovrebbe essere 1 a 2. È infatti dimostrato che un maggior controllo e una maggiore educazione a igiene e prevenzione diminuisce il rischio di una serie di patologie: polmoniti (-64%); scompenso d’organo (-52%); infezioni gastrointestinali (-47%); infezioni alle basse vie respiratorie (-40%); sepsi (-21%)”.
Nell’ambito della formazione, poi, esiste anche il problema delle specializzazioni, che vanno oltre alla laurea triennale abilitante: “La professione sta riflettendo sullo sviluppo clinico delle lauree magistrali, nel solco delle aree di formazione specialistica già riconosciute dalle norme esistenti, come quella di urgenza/emergenza, quella neonatale/pediatrica, la medica, la chirurgica, la salute mentale e le cure territoriali, anche introducendo il concetto di infungibilità – spiega Mangiacavalli – Ora, proprio in questa ottica, è necessario concretizzare ancora più operativamente le specializzazioni, grazie alla crescita della formazione, già radicate nel resto d’Europa. È necessario quindi riformarne il percorso, contestualmente a un graduale ampliamento dei numeri programmati per le lauree in infermieristica e in particolare per l’accesso alle lauree magistrali, per garantire flussi costanti di infermieri in relazione alle esigenze dei servizi nei prossimi anni”.
Oggi per ogni professore-infermiere ci sono circa 1.350 studenti, mentre in altre discipline del settore sanitario la media è 1 a 6
Secondo la Federazione, per raggiungere la qualificazione delle competenze del personale infermieristico è necessario porsi come obiettivo minimo da realizzare entro un decennio la disponibilità di almeno il 20% dei professionisti a elevata specializzazione nelle diverse aree dell’assistenza.
Tutto questo presuppone poi il necessario aumento delle docenze infermieristiche nel settore disciplinare specifico. Oggi per ogni professore-infermiere ci sono circa 1.350 studenti, mentre in altre discipline del settore sanitario la media è 1 a 6.
“L’aumento delle docenze è necessario anche per garantire la qualità della formazione, che rappresenta il fiore all’occhiello degli infermieri laureati in Italia, ricercati proprio per questo in tutto il mondo. All’estero, soprattutto per le migliori condizioni economiche e di carriera, ci sono almeno 20.000 infermieri italiani”, rende noto Mangiacavalli.
Secondo i dati aggiornati a dicembre 2019, i Paesi maggiormente interessati da questa migrazione sarebbero Regno Unito (con 3.988 infermieri italiani) e Germania (con 2.033). Seguono poi Belgio, Spagna e Francia.
La Federazione ha individuato come driver principale dello spostamento il trattamento economico: “In Italia un infermiere che lavora nel pubblico parte da uno stipendio di 1.150 euro netti. Mediamente a metà carriera raggiunge i 1.410 euro netti mensili e solo con l’età e un certo livello di specializzazione può raggiungere i 2.000 euro – fa i conti Mangiacavalli – Per contro, in Germania e Regno Unito lo stipendio medio è di circa 2.500 euro, mentre la media europea si attesta sui 1.900”.
Il nodo del turnover
Il turnover medio negli anni è stato di circa 18.000 infermieri all’anno. Nell’ultimo decennio, a causa del blocco dei contratti e dei Piani di rientro attuati in molte Regioni, è mancato quasi completamente il ricambio. Per contenere la spesa, non sono stati sostituiti gli infermieri che hanno lasciato il Ssn (tipicamente per pensionamento).
“Basti pensare che dal 2009 al 2019 invece di rafforzare l’organico del Ssn per una migliore assistenza, si sono persi solo per colpa del mancato turnover circa 9.000 infermieri – afferma la presidente Fnopi – Le conseguenze di questa scelta si sono viste purtroppo proprio durante la pandemia”.
Dal 2009 al 2019 invece di rafforzare l’organico del Ssn per una migliore assistenza, si sono persi solo per colpa del mancato turnover circa 9.000 infermieri
Naturalmente il mancato turnover sconta l’avanzamento dell’età dei professionisti: se quella media degli iscritti agli ordini è di circa 46-47 anni, le cose peggiorano vistosamente per gli infermieri dipendenti del Servizio sanitario nazionale che raggiungono una media di 53-54 anni, ma che in alcune Regioni, soprattutto quelle che sono state in Piano di rientro che hanno subito blocchi totali del turnover, sfiorano i 58-59 anni, differenziandosi anche di 8-9 anni con l’età media di tutti gli iscritti agli ordini.
“Secondo i modelli previsionali, se con le risorse previste tra manovre e Pnrr si riuscirà a introdurre nuovi professionisti più giovani, la curva delle uscite dal mercato del lavoro si fletterà nei prossimi due anni – spiega Mangiacavalli – Ma, proprio per la carenza attuale e per le condizioni che non danno la possibilità di formare un numero di giovani sufficienti, la crescita riprenderà e in modo costante negli anni immediatamente successivi, mettendo in seria crisi l’assistenza, a meno di un cambio di rotta nella formazione e nei percorsi retributivi e di carriera che permettano di rendere più attrattiva la professione”.
Per riuscire a soddisfare i bisogni di salute dei pazienti, insomma, servono infermieri e non “soluzioni fantasiose come quelle cui abbiamo assistito in questi anni, che vanno dall’assunzione di personale straniero all’allargamento delle competenze di altri professionisti sanitari”.
L’infungibilità degli infermieri significa proprio questo: riconoscerne l’unicità e la non sostituibilità come professionista
L’infungibilità degli infermieri significa proprio questo: riconoscerne l’unicità e la non sostituibilità del professionista. Farlo significa anche riconoscere la specializzazione dell’infermiere, evitando così di sostituire un professionista esperto in una certa area clinica con uno non formato.
Da alcune settimane l’intero comparto è in agitazione e il 28 gennaio si è tenuto uno sciopero molto partecipato a livello nazionale. Tra le ragioni della protesta, la mancata erogazione delle risorse stanziate a dicembre e destinate agli infermieri, le condizioni di lavoro sempre più massacranti, con responsabilità crescenti, gli stipendi tra i più bassi d’Europa.
L’interconnessione con il territorio
Anche per gli infermieri, così come per i medici, la legge di Bilancio in realtà ha messo a disposizione fondi per la stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato durante la pandemia. “Questo però senza rendere davvero attrattiva la professione, visto che le percentuali di incremento retributivo restano decisamente basse. In realtà, mancano le risorse per un reale incremento degli organici che sia in grado di coprire le carenze attuali”.
Spariti invece i due emendamenti sull’assegnazione-ponte dell’indennità specifica infermieristica (mai assegnata dallo scorso anno) e sull’incremento del numero dei docenti-infermieri nelle università.
E questo nonostante durante i momenti più duri della pandemia gli infermieri siano stati considerati, accanto ai medici, degli eroi. “Tutto questo segna un brutto episodio per la professione infermieristica – afferma la Fnopi in una nota –, un brutto segnale che non è passato e non passerà inosservato davvero nemmeno a chi finora ha contato per la sua salute sugli infermieri”.
Il Pnrr ha previsto una serie di contenitori (dalle centrali operative alle case della comunità, fino allo sviluppo ulteriore degli ospedali di comunità) che nelle intenzioni andrebbero “riempiti” anche con un numero significativo di infermieri. Le stime della Federazione sono di 20-30.000 unità, a fronte delle 9.600 previste dal decreto Rilancio a maggio 2020.
Gli infermieri di famiglia e di comunità dovrebbero essere l’asso nella manica del territorio, ma il Pnrr non ha previsto il percorso e la destinazione di risorse sufficienti
“Gli infermieri di famiglia e di comunità dovrebbero essere l’asso nella manica del territorio, ma il Pnrr non ha previsto il percorso e la destinazione di risorse sufficienti a riempire questi contenitori di ‘contenuti’, che altro non sono se non i professionisti necessari al funzionamento di queste strutture e a quell’assistenza domiciliare e di prossimità, parola d’ordine al nuovo modello di assistenza”.
Il Governo nel 2020 ha stanziato 480 milioni di euro per assumere circa 9.600 infermieri nel corso del 2021 e potenziare così l’assistenza domiciliare. Tuttavia, la Federazione nota che stando al dato emerso nelle prime bozze della revisione dell’assistenza sul territorio (il cosiddetto dm 71) e nei calcoli dell’Agenzia nazionale dei servizi sanitari queste risorse non basterebbero: “Servirebbe almeno un infermiere ogni 2-3.000 abitanti, cioè circa 20-30.000 in più”, osserva Mangiacavalli, che aggiunge: “Anche dei 9.600 già previsti, sempre secondo Agenas, non se ne sono trovati più di 3.000”.
Ancora una volta quindi, secondo la presidente di Fnopi, affinché il Pnrr sia realizzabile è necessario riformare il percorso di formazione degli infermieri con maggiori organici e specializzazioni; cambiare rotta sugli interventi terapeutici grazie all’ampliamento delle competenze; gestire e coordinare processi assistenziali anche attraverso nuovi strumenti di teleassistenza e soprattutto assistenza infermieristica territoriale con il potenziamento e la diffusione a livello nazionale del ruolo dell’infermiere di famiglia e di comunità; valorizzare la professione delineando il mix quali-quantitativo del personale nel medio periodo in relazione agli standard di esiti di cura attesi sulla popolazione; valutare, reclutare e valorizzare le competenze specialistiche in relazione alle specifiche esigenze dell’organizzazione attraverso strumenti di selezione dei candidati.
“Non abbiamo bisogno di duplicare servizi, di aggiungere, ma dobbiamo interconnettere quello che c’è già perché il territorio spesso è già ricco – afferma l’esperta – La vera sfida è mettere insieme, cioè sviluppare le competenze, la formazione dei professionisti sanitari, ognuna in base alle reali necessità delle persone. Per fare tutto questo occorrono professionisti in numero e qualità sufficienti e quindi adeguatamente formati e per tutto questo le risorse stanziate, al momento attuale, non bastano”.