Non che fosse tutto perfetto, ma quasi. Prima della pandemia il numero delle donazioni di sangue – comunque sempre sufficiente – era tornato a crescere, invertendo la curva calante dei primi anni Duemila. Poi il Covid ha spezzato la magia. Ma non è tutto: sta diventando sempre più preoccupante anche la mancanza del plasma. Ne parliamo con Vincenzo De Angelis, direttore del Centro Nazionale Sangue, e con alcuni tra i principali attori del settore in Italia, per comprendere il problema, le cause e le possibili soluzioni.
Qual è a oggi la situazione della donazione di sangue in Italia?
È una situazione di sostanziale autosufficienza, che però non è priva di criticità, né va data per scontata. I dati più recenti, ancora riferiti al 2021, sono ovviamente migliori di quelli dell’anno precedente. Ma tendenzialmente assistiamo a un calo dei donatori di sangue italiani negli ultimi dieci anni di circa il 5%. Un dato ancora più preoccupante è quello dell’invecchiamento della popolazione dei donatori a cui non corrisponde un adeguato ricambio generazionale. L’unica fascia demografica di donatori che cresce è quella che va dai 55 ai 65 anni. I donatori dai 18 ai 35 anni sono in calo tendenziale da anni e nel 2021 abbiamo registrato un calo anche tra i donatori della fascia tra i 35 e i 45 anni. Poi abbiamo anche il problema di una raccolta di sangue che spesso va a due velocità, con alcune regioni che vanno oltre la media delle 40 unità di globuli rossi per 1000 abitanti ed altre che stanno ben sotto la soglia. Il problema non è ascrivibile solo a motivi di carattere educazionale, ma anche a questioni più sostanziali come la disponibilità di personale e l’organizzazione interna.
Qual è stato l’impatto della pandemia?
Nei mesi in cui si sono registrati i picchi di contagi della variante Omicron si sono registrati forti cali nei numeri della raccolta
Non è stato un impatto di poco conto. Abbiamo detto che il calo dei donatori tendenziale è stato del 5% in dieci anni. Se però prendiamo in considerazione i numeri più recenti vediamo che il confronto con i dati pre-covid è comunque preoccupante. Tra 2019 e 2021 abbiamo registrato un -2% e i dati preliminari del 2022 confermano il trend negativo. Ma se nel 2020 il calo della raccolta è stato compensato in parte da un minor utilizzo, nel 2021 e nel 2022 le chirurgie hanno ricominciato a lavorare a pieno regime. E anche una variante come Omicron che, in termini di vittime, è stata sicuramente meno impattante, ci ha comunque messo molto in difficoltà. Perché ovviamente una persona affetta da Covid, anche nella forma più blanda, non può donare il sangue e quindi una larga diffusione della variante ha costretto a casa ogni volta centinaia di migliaia di donatori ma anche medici e infermieri. Non è un caso che nei mesi in cui si sono registrati i picchi di contagi noi abbiamo registrato dei forti cali nei numeri della raccolta.
E il plasma?
Il discorso fatto per i globuli rossi vale anche per il plasma. Con una aggravante: l’Italia non è autosufficiente in termini di raccolta plasma. il Paese ha raccolto circa 850mila chilogrammi di plasma e si attesta a un indice di conferimento pari a 14.2 kg/1.000 abitanti, valore palesemente sottodimensionato rispetto a quanto sarebbe necessario per garantire al Paese un’indipendenza strategica nei confronti del mercato per i due farmaci plasmaderivati più richiesti, rappresentati da immunoglobuline polivalenti e albumina. Infatti, ai fini di tale indipendenza sarebbe necessario raccogliere circa 1.100.000 chilogrammi di plasma e raggiungere quindi una media nazionale di almeno 18 Kg/1000 abitanti/anno, come peraltro è già stato scritto nei programmi nazionali di autosufficienza per il 2020 e per il 2021.
Quali sono quindi al momento le principali criticità da superare?
La persistente e critica difficoltà nel reperimento di medici costringe ogni giorno ad annullare diverse sedute esterne di raccolta sangue
Come anticipato prima, sicuramente l’invecchiamento della popolazione dei donatori è una delle problematiche più pressanti. Ma non è l’unica. La persistente e critica difficoltà nel reperimento di medici, sia nelle strutture pubbliche, sia nelle unità di raccolta associative, costringe ogni giorno ad annullare diverse sedute esterne di raccolta sangue. Già un’indagine effettuata dal Centro nel 2019 aveva messo in luce la necessità di adeguamento degli organici medici dei servizi trasfusionali pubblici stimata intorno al 30% delle dotazioni all’epoca presenti. Un’altra indagine del 2021 ha messo in luce una ulteriore complessiva mancanza di 273.000 ore/uomo annue sul territorio nazionale, per far fronte alle cessate attività di personale medico già dipendente dal SSN o convenzionato con gli enti del SSN e le Associazioni e Federazioni dei donatori di sangue.
E poi il plasma. La dipendenza dal mercato estero è una debolezza strategica che va superata il prima possibile. Fino a oggi abbiamo fatto affidamento sulle esportazioni di plasmaderivati dagli Stati Uniti. Ma negli ultimi anni, a causa del Covid, anche gli Usa hanno raccolto meno plasma e questo ha comportato un inevitabile aumento dei prezzi. Solo albumina e immunoglobuline, per la parte non prodotta dal plasma italiano, nel 2023 potrebbero costare all’Italia circa duecento milioni di euro. Ma i costi potrebbero non essere l’unico problema, un giorno potremmo trovarci di fronte a difficoltà nel reperimento dei farmaci stessi.
Quali prospettive e quali possibili soluzioni?
Bisogna agire di concerto e su più livelli. Nel corso del 2022 l’esecutivo ha sbloccato importanti finanziamenti sia per la promozione della donazione di sangue e plasma, sia per l’acquisto da parte delle unità di raccolta associative di materiali e tecnologie utili alla raccolta. Con molti partner europei e di concerto con soggetti come AIFA e European Blood Alliance stiamo lavorando a diversi progetti internazionali per fronteggiare la carenza di farmaci emoderivati e per adottare buone pratiche a livello continentale per implementare la raccolta di plasma, come il progetto SUPPLY che punta a fornire strumenti utili proprio a incrementare la raccolta di plasma da donazioni volontarie e non remunerate nei paesi membri dell’UE. Quanto alla carenza del personale (medici in primo luogo), servono urgentemente misure di intervento su più fronti, dall’incremento della dotazione di medici addetti ai servizi trasfusionali, al migliore e più razionale impiego di altre professionalità sanitarie (soprattutto infermieri, tecnici di laboratorio, biologi, farmacisti…) ed infine all’uso delle tecnologie in telemedicina da applicare a tutte le attività trasfusionali.
AVIS: “Inserire i centri di raccolta sangue nelle Case di Comunità”
“Non vedo la situazione in modo poi così negativo e non sono pessimista: il periodo pandemico ha dimostrato che la generosità dei donatori non è mai venuta meno, anzi: durante il perdurare dell’emergenza nel 2021 si è donato più che nel 2020, grazie anche al tema del plasma iperimmune e al dibattito che si è creato intorno ad esso”, commenta Gianpietro Briola, Presidente di AVIS Nazionale. “Le difficoltà che permangono non sono comunque legate alla disponibilità dei donatori quanto all’organizzazione della rete di raccolta, al personale e anche, in qualche modo, al clima sociale che riguarda i donatori, in modo particolare giovani. Mi riferisco soprattutto ai luoghi dove la raccolta è solo pubblica e i centri di raccolta sono aperti dalle 10 alle 12 dal lunedì al venerdì: questo limita la presenza di chi lavora, anche perché con la ripresa dell’attività lavorativa i datori di lavoro giustamente non incentivano l’assenza dal posto di lavoro”.
Sul punto della carenza di personale sanitario, problema acuitosi con la pandemia, determinando una riduzione delle giornate di raccolta e di conseguenza una riduzione delle donazioni stesse, l’AVIS ha avviato un’attività di interlocuzione parlamentare culminata lo scorso anno con l’approvazione del decreto “Sostegni ter” che introduce la possibilità per i medici specializzandi (proprio come avvenuto per le vaccinazioni anti-Covid) di “prestare, al di fuori dell’orario dedicato alla formazione specialistica e fermo restando l’assolvimento degli obblighi formativi, la propria collaborazione volontaria a titolo gratuito ed occasionale agli enti e alle associazioni che, senza scopo di lucro, svolgono attività di raccolta di sangue ed emocomponenti”. Ma sebbene il decreto sia stato pubblicato in Gazzetta ufficiale nella primavera 2022, si attende ancora un regolamento attuativo che stabilisca le modalità e i limiti per la prestazione dell’attività.
A questo tema si collega la proposta di AVIS Nazionale di inserire i centri di raccolta sangue nelle Case di Comunità. L’auspicio del sodalizio è che i fondi stanziati dalla legge sulla concorrenza (7 milioni di euro per le attività trasfusionali) possano essere impiegati proprio per incrementare il numero di punti di raccolta plasma sul territorio nazionale, così da raggiungere finalmente l’autosufficienza da farmaci plasmaderivati che il nostro Paese non ha mai centrato. “Le Case di Comunità saranno costruite ovunque in tutto il Paese oppure rafforzate dove le strutture già esistono: sarebbe un’occasione per poter aprire centri di raccolta sangue sull’intero territorio nazionale, ma non solo – sostiene Briola -. Trattandosi di spazi sociosanitari, avere al loro interno associazioni di volontariato sarebbe un’opportunità per avere una presenza sociale nelle Case di Comunità, che tenda a fare rete e a fornire servizi ai cittadini: altrimenti c’è il rischio che rimangano alla fine delle cattedrali nel deserto, poco riempite, poco usate e poco aperte”.
FIDAS: “Il primo problema è la carenza dei medici trasfusionisti”
L’attività delle associazioni per sensibilizzare la popolazione è fondamentale, dice Giovanni Musso, presidente FIDAS Nazionale. Ma non basta: sarà il governo a dover cercare soluzioni alla questione della carenza di medici trasfusionisti.
Come valuta la situazione attuale della donazione di sangue in Italia?
Nel corso di questi ultimi due anni abbiamo assistito a una contrazione dovuta alla situazione epidemiologica causata dal Covid-19 con la quale i donatori e le associazioni si sono dovuti confrontare. Per tutti i protagonisti del sistema – volontari, medici, donatori, trasfusionisti – il cambiamento è stato una sfida superata con successo grazie alla forte motivazione di tutto l’apparato e alla consapevolezza che i pazienti negli ospedali necessitano per curarsi di sacche di sangue e plasma. Secondo il Centro nazionale sangue, sono circa 1800 le persone che si rivolgono ogni giorno agli ospedali per una cura di trasfusioni e di emocomponenti, e l’Italia è impegnata nel percorso di riuscire a coprire il fabbisogno nazionale e raggiungere l’autosufficienza.
La situazione della donazione sangue in questi mesi sta tornando lentamente alla fase pre-Covid, ma con caratteristiche peculiari assunte nel corso degli ultimi due anni: infatti se la pandemia ha portato il mondo del sangue ad acquisire nuovi sistemi organizzativi, come ad esempio la prenotazione della donazione, percorsi che rendono la procedura ancora più sicura per il donatore e il paziente, d’altra parte si sono esacerbate carenze che prima esistevano già.
Quali sono secondo Lei le principali criticità al momento? Quali priorità e spazi di miglioramento?
Nonostante una sostanziale tenuta del sistema dell’ultimo periodo, le criticità divenute urgenti partono dalla mancanza di personale medico trasfusionista, problematica che ha implementato le difficoltà organizzative relative all’offerta donazionale. Un caso esemplare è quello delle associazioni del dono di Cuneo che si stanno rivolgendo alla politica per risolvere la questione a livello regionale.
Il problema è nazionale e il disservizio va a colpire direttamente chi ha una patologia e già vive in una difficile condizione di fragilità.
Le associazioni hanno oggi come priorità quella di trovare nelle nuove generazioni le nuove leve dei donatori
L’altro aspetto che le associazioni stanno affrontando oggi è l’aumento dell’età media dei donatori: secondo i dati del Centro Nazionale Sangue i donatori di sangue tra i 18 e i 25 anni sono in calo costante dal 2013, la diminuzione ha toccato il 12 per cento, mentre il numero di donatori tra i 26 e i 35 anni, è diminuito del 17 per cento. Il calo è stato ancora maggiore per il gruppo di donatori dai 36 ai 45 anni che sono il 25 per cento in meno, mentre è in aumento il numero di chi sceglie di donare sangue dai 45 anni in su. Consapevoli di questo, le associazioni della donazione hanno oggi come priorità quella di trovare nelle nuove generazioni le nuove leve dei donatori, sia come volontari, sia come responsabili associativi. Per raggiungere questo obiettivo le associazioni sono impegnate costantemente in campagne di sensibilizzazione alla donazione di sangue e plasma, e nel diffondere la cultura del dono per la tutela delle categorie fragili in un’ottica lungimirante, volta a ridurre fino a far scomparire la caratteristica di emergenzialità che in alcuni mesi dell’anno torna a farsi sentire.
L’altro aspetto che sottolineerei è che la donazione di plasma, spesso sottovalutata, è strategica per il sistema trasfusionale italiano, ma non solo, è centrale anche per migliaia di pazienti che quotidianamente si sottopongono a cure a base di plasmaderivati definite “salvavita”.
Alcune criticità necessitano di un impegno maggiore da parte del sistema sangue, uno sforzo nella sensibilizzazione da parte dei volontari e dei responsabili delle associazioni, d’altra parte la questione relativa alla carenza di medici trasfusionisti richiede un intervento del governo ogni giorno sempre più urgente.
SIMTI: “Il ruolo della medicina trasfusionale è centrale ma poco considerato”
“Il tema donazione di sangue e dell’autosufficienza non è preso nella dovuta considerazione da parte del Servizio Sanitario italiano per due motivi – sostiene Francesco Fiorin, presidente della Società italiana di medicina trasfusionale e immunoematologia (SIMTI) -. Il primo è che veniamo da periodi in cui, grazie al lavoro delle associazioni, in Italia in genere non c’è mai stato un vero problema di autosufficienza di globuli rossi concentrati, perché le regioni dove normalmente si aveva una raccolta eccedentaria, come ad esempio Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia e Piemonte, hanno sempre ceduto l’eccedenza alle regioni più carenti. Il meccanismo di sussidiarietà e solidarietà tra regioni ha sempre funzionato, e questo anche perché la legge del 2019 pone l’autosufficienza del sangue e dei suoi prodotti come bene sovraregionale. Alla luce del sistema di compensazione tra regioni, fino al 2019-20, l’Italia era in una situazione ampiamente sufficiente.
Ma il calo delle donazioni ha radici più profonde rispetto alla pandemia. Il problema è legato al fatto che la popolazione è sempre più anziana e che non c’è un adeguato ricambio nei donatori, non perché non ce ne siano di giovani ma perché la fascia 18-40 anni si approccia alla donazione con una frequenza molto minore rispetto ai cinquantenni: chi ha 18-30 anni fa in media una donazione all’anno, e non è solo un discorso di pandemia ma probabilmente anche di calo dell’attenzione della popolazione nei confronti della donazione di sangue”.
Prosegue l’esperto: “Il secondo aspetto è legato al fatto che essendo abituati ad avere un’abbondanza di produzione, nessuno si è mai preoccupato più di tanto del ruolo vero dei servizi trasfusionali all’interno delle strutture sanitarie: non si tratta solo delle forniture di emocomponenti per gli interventi chirurgici, ma di un ruolo centrale nell’attività sanitaria in maniera trasversale. Nelle nostre aziende, oltre a raccogliere e distribuire emocomponenti, ci occupiamo dell’uso appropriato degli emocomponenti stessi, sia quanto alle tempistiche che alle quantità che serve trasfondere. Inoltre, la medicina trasfusionale ha un ruolo in attività sanitarie molto più complesse, come ad esempio quella dei trapianti oppure nella gestione delle cellule staminali.
La medicina trasfusionale è una delle poche branche che non hanno una scuola di specializzazione
Eppure siamo una delle poche branche della medicina che non hanno una scuola di specializzazione, ma non solo: non esiste neanche un insegnamento di medicina trasfusionale nel curriculum del corso di laurea in Medicina, per cui si rischia, quando un nuovo collaboratore entra in reparto, che sappia poco o niente e si trovi a imparare sulla base di abitudini o di comportamenti anche non propriamente corretti che sono in uso nei reparti, e che vanno comunque sempre controllati sulla base delle evidenze. Penso al caso della trasfusione fatta per dimettere in fretta il paziente anemico, ma oggi sappiamo che la trasfusione non ha sempre effetti benefici di per sé: resta pur sempre il trapianto di un organo ed è un atto medico specialistico.
Le difficoltà sono quindi da una parte l’autosufficienza e dall’altra l’uso corretto degli emocomponenti
Le difficoltà sono quindi da una parte l’autosufficienza e dall’altra l’uso corretto degli emocomponenti, perché è inutile la rincorsa ad avere sempre più unità quando quelle a disposizione non le usiamo sempre nella maniera più corretta e appropriata; e del resto non si può continuare a parlare di appropriatezza quando ci si trova in condizioni di scarsità di prodotto, perché l’appropriatezza è un concetto che prescinde dalla quantità: si tratta di fare la cosa giusta per il paziente in quel momento”.
Cosa succede invece per il plasma? “È un altro paio di maniche. Fino adesso la donazione di plasma è stata vissuta come donazione “accessoria” o di “serie B”, riservata alle donne anemiche in età fertile che non potevano donare il sangue. Ma il plasma, che usiamo come materia prima per la produzione dei plasmaderivati, è diventato una risorsa strategica per il SSN. In Italia, dove la donazione, a differenza ad esempio degli Stati Uniti, è volontaria, anonima e non remunerata, ci troviamo adesso soprattutto per quanto riguarda le immunoglobuline ad avere una scarsità di prodotto e a correre il rischio non poterle dare a chi ne ha bisogno. Le immunoglobuline sono un farmaco salvavita per alcuni pazienti, ad esempio per chi è affetto da immunodeficienze primitive o acquisite o da altre malattie. La carenza è a livello mondiale, per cui la donazione di plasma e il raggiungimento dell’autosufficienza diventano necessari per assicurare la cura e l’efficienza del sistema senza dover ricorrere all’acquisto sul mercato, dove non ci sono regole se non la legge della domanda e dell’offerta: il prezzo per chilo delle immunoglobuline oggi è superiore a quello dell’oro.
Favorire meccanismi più vicini alle esigenze dei donatori sarebbe un atto lungimirante per il futuro del SSN e della cura dei pazienti
È un rischio molto serio quello che stiamo correndo. Per questo è importante sensibilizzare e coinvolgere la popolazione sull’argomento, al fine non tanto di estendere il numero dei donatori, ma di farli rendere conto che la loro donazione è preziosa e che serve donare con una frequenza adeguata. Qui sì che la pandemia ha causato un problema, quando il donatore non può assentarsi dal lavoro per venire a fare la donazione, ma non può venire a donare sempre di sabato e domenica; anche perché in ospedale c’è bisogno di emocomponenti e plasmaderivati non solo nel fine settimana. Donare è un atto meritorio, ma un’altra cosa è portare a casa lo stipendio e mandare avanti la famiglia: questo è un problema politico e favorire meccanismi più vicini alle esigenze dei donatori da parte di chi prende le decisioni sarebbe un atto lungimirante nei confronti del futuro del SSN e della cura dei pazienti”.
Come donare sangue e plasma
La donazione di sangue e plasma è aperta a tutti i cittadini che dispongano di un documento di identità valido.
I requisiti fisici
Per poter donare sono richiesti:
- età compresa tra i 18 e i 65 anni (per la prima donazione 60 anni, i donatori periodici possono donare fino a 70, previo consenso del medico selezionatore)
- peso corporeo minimo di 50 chilogrammi
- buono stato di salute.
Per informazioni e per cercare l’unità di raccolta più vicina consulta i seguenti siti: