A 45 anni dalla legge 194, che istituisce il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), secondo numerosi osservatori i dati sull’attuazione della norma sono ancora incompleti.
Secondo l’articolo 16 della stessa legge, infatti, il Ministro della sanità dovrebbe presentare ogni anno al Parlamento entro il mese di febbraio una relazione sull’attuazione della norma e sui suoi effetti. Le Regioni, da parte loro, sarebbero tenute a fornire le informazioni necessarie entro il mese di gennaio di ogni anno.
Il condizionale è d’obbligo: l’ultima relazione disponibile, quella con i dati relativi al 2020, è stata depositata in Parlamento l’8 giugno 2022.
Ma non si tratta solo di un problema di rispetto dei tempi: come evidenziato dall’inchiesta “Mai dati” realizzata dalle giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove, il Ministero fornisce dati aggregati a livello regionale (inizialmente in un file pdf, poi in un excel), senza restituire il dettaglio della variegata situazione nelle diverse strutture sanitarie.
Il Ministero fornisce dati aggregati a livello regionale, senza restituire il dettaglio della variegata situazione nelle diverse strutture sanitarie
E poi c’è un problema di aggiornamento del sistema stesso di sorveglianza, che è attivo dal 1980 su una legge vecchia di 45 anni e “oggi non tiene conto dell’evoluzione delle stesse modalità di aborto, che non sono più limitate solo alla chirurgia, ma prevedono anche il trattamento farmacologico”, afferma Benedetto Rocchi, economista, professore associato presso l’Università di Firenze e presidente dell’Osservatorio permanente sull’aborto.
Infine, sebbene i dati debbano essere trasmessi trimestralmente dalle Regioni al Ministero, la loro pubblicazione non avviene in tempo reale, ma con uno scostamento di due anni e mezzo, vanificandone almeno in parte l’impatto.
Come avviene la raccolta dei dati
Il monitoraggio avviene a partire dai questionari dell’Istat che ciascuna struttura sanitaria è tenuta a compilare per ogni interruzione volontaria di gravidanza effettuata.
Le Regioni devono poi raccogliere e analizzare queste informazioni, per rispondere a questionari trimestrali e a un questionario riepilogativo annuale predisposti dall’Istituto superiore di sanità (Iss) e dal Ministero della Salute.
A questo punto la palla passa all’Iss che, una volta verificata la qualità dei dati prodotti dalle Regioni elabora, in collaborazione con l’Istat, le tabelle con le distribuzioni a livello regionale e nazionale.
Dal 2018 esiste una nuova piattaforma sulla quale sono svolte le varie attività di monitoraggio dei flussi
A partire dal 2018, l’Istat ha cambiato le modalità di acquisizione dati per quanto concerne la salute riproduttiva: da allora esiste la piattaforma GINO++ sulla quale sono raccolti i dati individuali e vengono svolte le varie attività di monitoraggio dei flussi.
Alla piattaforma hanno accesso anche l’Iss e il Ministero, nonché le Regioni e le strutture sanitarie, che possono inserire e aggiornare i dati nello stesso ambiente.
Il passaggio al nuovo sistema, tuttavia, procede a rilento e il 2020 è considerato ancora un anno di transizione, in cui – come scrive lo stesso ministero nel rapporto – “è stato necessario verificare i dati acquisiti con il nuovo strumento”.
A causa del Covid – si legge sempre nel report – per i dati del 2020 è stato necessario prolungare le operazioni di controllo (di fatto un “rimbalzo” dei questionari trimestrali tra Iss e Regioni) fino a novembre 2021. Nonostante questo, Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Abruzzo, Campania e Puglia hanno fatto registrare un elevato numero di informazioni mancanti, che sono state integrate grazie alle Schede di dimissione ospedaliera per un totale di 625 casi.
Durante il 2020, sebbene il Ministero abbia predisposto fin da subito delle linee guida, indicando come prestazione indifferibile l’Ivg, le associazioni che si occupano del tema hanno ricevuto molte segnalazioni di interruzione di servizio.
Sul sito Epicentro si legge che “Grazie a una rilevazione che ha coinvolto tutti i referenti regionali della sorveglianza, nel maggio 2020 l’Iss ha potuto rilevare una variabilità nell’organizzazione delle Regioni e dai singoli servizi Ivg a seguito dell’emergenza da Covid-19. Oltre la metà delle Regioni ha dichiarato che nessuna struttura ha segnalato problemi a seguito dell’emergenza pandemica.
Sette Regioni hanno predisposto percorsi Ivg separati per le donne Sars-CoV-2 positive, tre hanno centralizzato gli interventi solo in alcune strutture e diverse Regioni hanno riferito una riduzione del numero settimanale di interventi, sia farmacologici che chirurgici. Sarà utile valutare le scelte organizzative e le eventuali criticità rilevabili nel 2021 per studiare quali siano i migliori modelli organizzativi per fronteggiare possibili futuri scenari pandemici, confermando la bontà della tempestiva scelta ministeriale di includere l’Ivg tra le prestazioni indifferibili in ambito ginecologico”.
I limiti del sistema
“I rapporti del Ministero si basano su una serie di informazioni standard e statistiche previste dal sistema di sorveglianza della 194 che sono largamente incomplete – afferma Rocchi – Oggi oltre il 25% degli aborti è di tipo farmacologico e ci si aspetta di raggiungere a breve la metà. L’attuale sistema di sorveglianza concepito 45 anni fa, quando tutti gli aborti erano ospedalieri e chirurgici, deve essere aggiornato”.
Per questo l’Opa chiede al Ministero che sia istituito un tavolo tecnico per discutere di una revisione del sistema di sorveglianza.
Di diverso avviso Valeria Dubini, ginecologa e direttrice per l’Asl Toscana Centro del dipartimento per la Salute e la Medicina di genere, già vicepresidente Aogoi: “Per quello che ci riguarda ritengo che il sistema di monitoraggio funzioni bene, al netto di alcuni rallentamenti dovuti al passaggio di sistema informatico. L’aborto farmacologico? È più sicuro per la donna che non deve sottoporsi a un intervento chirurgico e la letteratura ci dice che le complicanze emorragiche, che inizialmente ci preoccupavano, sono del tutto sovrapponibili a quelle che si hanno durante l’intervento. Per contro, non si hanno perforazioni uterine o infezioni”.
“L’attuale sistema di sorveglianza concepito 45 anni fa, quando tutti gli aborti erano ospedalieri e chirurgici, deve essere aggiornato”
Nelle complicazioni dell’aborto farmacologico compaiono anche le mancate interruzioni: “In un 3-5% dei casi il trattamento non riesce e occorre procedere per via chirurgica – afferma la ginecologa – Non si tratta di un fallimento, ma di una possibilità da contemplare che tuttavia fa aumentare la percentuale di complicanze”.
Nel suo ultimo report, l’Osservatorio permanente sull’aborto ha stimato i costi dell’Ivg in Italia: per il 2020 si parla di poco più di 60 milioni di euro, a fronte di 66.413 interruzioni. Il tasso di abortività (5,4 ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni) è tra i più bassi del mondo ed è in calo (-6,7% rispetto al 2019).
Nel report del Ministero si legge che la riduzione del numero di Ivg osservata negli ultimi anni potrebbe essere in parte riconducibile all’aumento delle vendite dei contraccettivi di emergenza a seguito delle determine Aifa che hanno eliminato l’obbligo di prescrizione medica per l’Ulipristal acetato, noto come “pillola dei 5 giorni dopo” e per il Levonorgestrel, noto come “pillola del giorno dopo” per le donne maggiorenni. Una terza determina dell’Agenzia ha eliminato l’obbligo di prescrizione per l’Ulipristal acetato anche per le minorenni.
“Sebbene non siano farmaci abortivi, prevengono le gravidanze – conferma Dubini – Anche se il trend in calo si registra da ben prima che fossero introdotti e sono legati all’attività di counselling dei consultori e delle strutture sanitarie, unito a politiche regionali avvedute”. Il riferimento è alla gratuità della pillola contraccettiva che la Toscana ha introdotto dal 2018 per alcune fasce di popolazione, come le giovanissime e chi ha un reddito basso. “Questo ci ha permesso di osservare, per la prima volta, un calo drastico nell’accesso all’Ivg tra le più giovani: siamo passate dal 30% al 16%”, afferma l’esperta.
In questo senso, i dati aggregati a livello regionale sono un limite: “Effettivamente, non danno conto di quello che succede nelle varie strutture”, ammette Dubini.