L’evoluzione del nuovo Distretto Socio-Sanitario: a che punto siamo?

Uno degli elementi centrali della riforma dell'assistenza territoriale è il Distretto, punto di riferimento per l'accesso a tutti i servizi del territorio. Panoramica sulla situazione attuale, tra opportunità e criticità

Con la riforma dell’assistenza territoriale disegnata dai provvedimenti del PNRR e del DM 77 si sta definendo un nuovo modello organizzativo del SSN per una sanità più vicina alle persone e più attenta alle esigenze di cittadini e pazienti. Uno degli elementi centrali è il Distretto Socio Sanitario (DSS), che dovrà costituire il punto di riferimento per l’accesso a tutti i servizi del territorio, dalla Centrale Operativa Territoriale alle Case di Comunità, dalle Unità di continuità assistenziale agli Infermieri di Famiglia e Comunità, per coinvolgere tutti gli attori non solo a livello sanitario ma anche socio-assistenziale e di welfare.

Il tema del distretto è stato al centro di una Live che è stata l’occasione per fare un primo bilancio dell’evoluzione di questo nuovo modello organizzativo, per sottolineare quali sono i punti di forza e su che cosa è ancora necessario concentrarsi. Ne abbiamo parlato con Aldo Atzori (Presidente CARD Sardegna, Direttore del Distretto Socio-Sanitario ASL Carbonia), Emanuele Porazzi (Direttore Healthcare Datascience Lab – HD LAB, LIUC Business School) ed Emanuele Vendramini (Professore ordinario in economia aziendale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza).

Le competenze del direttore del distretto

Il Decreto ministeriale 77/2022 “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale” ha raffigurato un nuovo distretto che deve valorizzare e garantire tutte le risposte assistenziali integrate con strumenti e competenze professionali importanti, in modo da dare una risposta efficace in termini di presa in carico della popolazione di riferimento. In questo senso, il direttore del distretto assume un ruolo fondamentale perché dovrà gestire e organizzare i servizi sanitari e sociali a tutti i livelli, soprattutto in ambito territoriale.

Emanuele-Porazzi

Emanuele Porazzi, che è stato direttore per LIUC Business School di un recente Corso per direttore di distretto organizzato in collaborazione con l’Università degli Studi dell’Insubria di Varese e l’Accademia di formazione per il Servizio Sociosanitario Lombardo, delinea così una panoramica delle competenze necessarie: “Per poter svolgere correttamente questo ruolo, sono convinto che ci voglia una salda formazione multidisciplinare con competenze in differenti ambiti. Al di là del background, che può essere di diverso stampo (dalla medicina all’ambito infermieristico, da psicologia o ingegneria a economia), l’aspetto importante è che questa figura abbia esperienza nel campo della sanità, dei servizi sociali, del territorio e che conosca molto bene sia le normative di riferimento, per poter poi impostare le strategie più efficaci, sia le regole del settore e del territorio”.

La conoscenza delle leggi e dei regolamenti rappresenta la cornice all’interno della quale il direttore del distretto deve muoversi con grande libertà per interpretare le esigenze del suo territorio di riferimento, come è ben chiaro nel DM77.

La capacità di costruire rapporti di fiducia con gli altri stakeholders sanitari e con i pazienti è essenziale per guardare con successo all’erogazione di nuovi servizi in ottica di rete

Nella formazione del direttore del distretto, Porazzi sottolinea quindi l’importanza delle competenze “soft”, come quelle di leadership e di comunicazione (per relazionarsi sia con il personale sia con gli altri enti): “La capacità di costruire rapporti di fiducia con gli altri stakeholders sanitari, con i pazienti e con le associazioni di pazienti, è essenziale per il successo delle attività del distretto e per guardare con successo all’erogazione di nuovi servizi in un’ottica sempre maggiore di collaborazione e di rete fra tutti gli attori”.

In questo senso, un altro aspetto cruciale riguarda la pianificazione strategica e l’orientamento al cambiamento, soprattutto per promuovere l’innovazione e comprendere l’opportunità di utilizzo delle nuove tecnologie: “Nell’ambito del distretto la possibilità di utilizzare nuove tecnologie che cambieranno i processi sarà un elemento chiave per permettere di erogare prestazioni e servizi con le risorse presenti sul territorio”.

Il territorio come luogo chiave per dare risposte ai cittadini

La riforma del sistema di assistenza territoriale nasce, come sappiamo, dall’emergenza pandemica ma deve diventare l’occasione per ripensare la sanità ripartendo dai bisogni di salute dei cittadini e in particolare da chi è più fragile e necessita di maggiori cure. Nel nostro Paese, il bisogno di salute viene espresso prevalentemente dalla popolazione anziana e con patologie cronico-degenerative.

Esordisce così Emanuele Vendramini (Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza): “La normativa, ma anche gli stessi professionisti, sono concordi nel ritenere che l’ambito più adatto dove trovare queste risposte sia il territorio, e in particolar modo la risposta dovrebbe essere il più vicino possibile al domicilio”.

Va quindi creata a livello distrettuale una rete di cure primarie che sia in grado di farsi carico di questi bisogni, all’interno della quale tre professionisti appaiono come centrali: il medico di medicina generale, l’infermiere di famiglia e di comunità e l’assistente sociale. Devono affiancare queste figure i medici di continuità assistenziale e gli specialisti della convenzionata ambulatoriale.

Prosegue Vendramini: “È importante che questi interlocutori possano trovare nella casa della comunità e al domicilio del paziente il modo di offrire una risposta integrata al bisogno espresso da questi cittadini. In questo modo, si potranno generare anche vantaggi per il sistema sanitario nella sua complessità, nell’ottica di ‘scaricare’ le strutture ospedaliere da prestazioni di ‘primo livello’ che, se correttamente gestite sul territorio, potrebbero consentire all’ospedale di concentrarsi su un ‘secondo livello’ assistenziale più complesso, come la gestione delle crisi acute o delle riacutizzazioni”.

Il complesso bisogno di salute espresso dai cittadini deve essere gestito da una rete di cure primarie supportata, al domicilio, dalle nuove tecnologie di telemedicina e telemonitoraggio

L’idea è quella di creare, da un lato, una rete di professionisti e di strutture che possano farsi carico dei pazienti fragili che esprimono un bisogno di salute complesso e, dall’altro lato, di costruire una risposta caratterizzata, a livello domiciliare, dalla presenza di nuove tecnologie che consentano di seguire il paziente a distanza, così come delineato anche nel PNRR in tema di telemedicina e telemonitoraggio.

I nuovi strumenti tecnologici rappresentano un’opportunità ulteriore da non mettere in competizione con l’ospedale ma da valorizzare in una logica di ridefinizione dell’offerta, partendo dalla domanda, o meglio, dai bisogni dei cittadini.

Governare la complessità per garantire servizi uniformi

Alzo Atzori, Presidente CARD Sardegna e Direttore del Distretto Socio-Sanitario ASL Carbonia, condivide la sua esperienza in un territorio con diverse peculiarità: “La Regione Sardegna parte da un modello di distretto forte, nel senso che tutti i distretti della Sardegna sono delle strutture complesse, che amministrano ed erogano servizi. Da questo punto di vista è un modello abbastanza complesso e per governare la complessità è necessaria una visione olistica”.

Atzori sottolinea quindi come le principali criticità siano legate proprio alla eterogeneità dei servizi all’interno di ciascun distretto e alla mancata integrazione di alcuni servizi tra di loro: “Può accadere che alcuni settori siano abbastanza omogenei, come la medicina specialistica, le cure domiciliari, le attività amministrative ma spesso si svolgano senza avere un adeguato livello di integrazione soprattutto con le cure primarie, rappresentate dai medici di medicina generale e dalla pediatria”.

I servizi vanno indirizzati ai cittadini ma gli stessi cittadini devono essere dentro questa governance

Senza dimenticare l’ambito sociale: “Se vogliamo costruire strutture che si rivolgono alla comunità, sempre più la comunità deve essere dentro questa vision: i servizi vanno indirizzati ai cittadini ma gli stessi cittadini devono essere dentro questa governance, perché altrimenti non potremo soddisfare gli stessi criteri del PNRR che sono alla base di questo cambiamento”.

Il rischio è che questo cambiamento, sicuramente molto impegnativo, possa svilupparsi con diverse velocità, soprattutto a seconda delle condizioni di partenza.

I dati del monitoraggio regionale: a che punto siamo?

A livello nazionale, nei distretti socio-sanitari, l’implementazione delle strutture previste dalla riforma è ancora molto diversificata. Alcuni distretti hanno già iniziato a sviluppare partnership con altri enti pubblici e privati, nell’ottica di una rete che possa rispondere alle esigenze della popolazione; altri sono ancora in fase di progettazione.

Riprende Porazzi: “Penso che l’obiettivo più importante del DM 77 sia riuscire a trovare il giusto equilibrio tra le prestazioni che devono essere effettuate sul territorio e quelle che devono essere erogate a livello ospedaliero. In questo momento la situazione è ancora in via di definizione: in alcuni distretti ci sono ancora carenze importanti o coperture inadeguate. È vero che c’è tempo fino al 2026 per portare a compimento questa evoluzione, e in questo momento siamo ancora nella fase di progettazione in molte realtà. Ma forse quello che manca è una forte collaborazione tra gli attori locali, con un utilizzo non ottimale delle metodiche di project management. Il PNRR, con i fondi europei e nazionali, sulla parte di salute vale 20 miliardi di euro, che rappresentano un’opportunità di investimento fondamentale per il Servizio Sanitario Nazionale. Finora gli obiettivi sono sempre stati raggiunti, seppur con qualche difficoltà, e di conseguenza sono state sbloccate nuove risorse. È necessario continuare con questo passo”.

A livello nazionale, nei distretti socio-sanitari, l’implementazione delle strutture previste dalla riforma è ancora molto diversificata

Ma qual è la situazione attuale? Rispetto al monitoraggio effettuato da Agenas a fine dell’anno scorso, l’implementazione delle strutture sta andando un po’ a rilento in alcune Regioni, con percentuali differenti a seconda del fondo che viene utilizzato per le risorse; gli interventi infatti vengono divisi in due macrocategorie: quelli previsti nei POR (Piano Operativo Regionale) allegati ai Contratti Istituzionali di sviluppo) sottoscritti tra le Regioni/PA e il Ministero della Salute in attuazione del PNRR, e gli interventi Extra POR, che utilizzano altre fonti di finanziamento (come l’art.20, Fondi regionali, Fesr etc.).

Per le Case di comunità, a fine 2022 l’attuazione è stata dell’8,5% per gli interventi POR e dell’11,6% per gli interventi EXTRA POR. Per queste strutture, le Regioni più avanti sono Emilia Romagna, Lombardia, Molise, Piemonte, Toscana e Umbria.

Per quanto riguarda invece le Centrali operative territoriali, entità che dovrebbero entrare a regime in tempi un po’ successivi rispetto alle altre strutture, la percentuale di Centrali operative territoriali POR attive è del 2,3%, contro il 25% di Centrali operative territoriali EXTRA POR attive.

Per gli Ospedali di comunità, le percentuali sono del 7,1% per gli interventi POR e del 27,8% per gli interventi EXTRA POR.

Per tutte queste strutture, il disegno attuale è ancora parziale rispetto a quello che sarà. Sottolinea Porazzi: “Questa situazione risente anche di un altro elemento: il rapporto della popolazione rispetto ai distretti è molto vario. Lo standard definito dal DM77 prevede un distretto ogni 100.000 abitanti circa ma esistono realtà da circa 60.000-65.000 abitanti, come in Friuli Venezia Giulia, Abruzzo e Sardegna, e altre da 180.000 abitanti, come nel Veneto”.

Medicina generale e infermieristica verso un nuovo ruolo

Al medico medicina generale e all’infermiere di famiglia e di comunità, per quanto di competenza, viene chiesto un ruolo particolarmente attivo, legato, da un lato, al tema della presa in carico e dall’altro, al raccordo con il livello specialistico e il livello distrettuale.

Commenta questa evoluzione Vendramini: “A prescindere dalla forma della convenzione, nei fatti il medico di medicina generale può contribuire al raggiungimento dei risultati di salute per il paziente solo nel momento in cui è parte integrante della rete delle cure primarie e del sistema distrettuale, insieme con gli altri professionisti. Centrale è anche il personale infermieristico, specialmente nelle Case di comunità e negli Ospedali di comunità, dove la dimensione assistenziale è fondamentale”.

Al medico di medicina generale e all’infermiere viene richiesto un ruolo attivo legato alla presa in carico e al raccordo con il livello specialistico e distrettuale

E prosegue: “I medici di medicina generale non possono che essere fortemente coinvolti quando si parla di riprogettazione e ripensamento della presa in carico e di miglioramento della tempestività della risposta alle esigenze dei pazienti cronici, che sono costituiti dai loro assistiti. I dati evidenziano che ci sono un certo numero di pazienti cronici a livello distrettuale ed è nella gestione di questi soggetti che la medicina generale può fare un importante salto di qualità, in un’ottica di responsabilizzazione, verso la medicina di iniziativa”.

In concreto il medico di medicina generale è chiamato a svolgere un ruolo di governo della domanda (ad esempio verificando se il paziente cronico si sottopone ai controlli periodici richiesti) e di educazione sanitaria in relazione agli stili di vita e a quelle buone pratiche (come la dieta, l’attività fisica e la cessazione del fumo) che richiedono il coinvolgimento del paziente tramite il proprio medico di medicina generale.

Sintetizza Vendramini: “Il mio auspicio è che sempre di più, a livello di distretto, si crei un’alleanza professionale tra chi è chiamato a dirigere i distretti, la medicina generale (organizzata in forma associata, con le aggregazioni funzionali o con unità complesse di cure primarie) e le professioni sanitarie, in particolar modo gli infermieri di famiglia e di comunità. Sarebbe un peccato che si perdesse questa possibilità perché il medico di medicina generale, con tutte le complessità emerse in questi anni, come ad esempio la carenza di personale, ricopre, soprattutto in alcuni contesti, un ruolo centrale che deve essere valorizzato e riconosciuto dalle aziende sanitarie e dai cittadini, diventando un interlocutore in grado di dare tempestivamente una risposta alle esigenze di salute soprattutto sulle patologie croniche”.

In questo senso, il rapporto tra medico e infermiere deve svilupparsi come un concreto rapporto di collaborazione, di condivisione e di integrazione in modo tale che si possa fornire al paziente una risposta che preveda un piano di presa in carico già integrato, ciascuno per la propria competenza.

Uniformità dei servizi vs peculiarità del territorio

Nella messa a terra dei progetti delineati dal PNRR e dal DM77, un aspetto critico riguarda la richiesta di uniformità dei servizi da garantire e la difficoltà di fornire risposte uguali per tutti nei diversi territori che, come già sottolineato, sono caratterizzati da peculiarità anche forti, come la presenza di isole, o lunghe distanze, o aree a diverso tasso di densità abitativa.

Una riflessione su questo tema sta avvenendo anche all’interno della Confederazione Associazioni Regionali di Distretto (CARD), come conferma Atzeri, presidente CARD per la Regione Sardegna: “Il Decreto ministeriale 77 è uno strumento importantissimo, dal mio punto di vista, in quanto, probabilmente per la prima volta in Italia, detta una standardizzazione piuttosto lineare per tutte le Regioni italiane. Dobbiamo tener conto però che la comunità è strettamente legata al territorio e il territorio è strettamente legato ai bisogni, quindi le standardizzazioni non possono prescindere dalla realtà di riferimento”.

Ad esempio, nel caso della Sardegna si pone il problema delle piccole isole che costituiscono distretti con un numero di abitanti molto esiguo ma con un’importante complessità interna.

La stratificazione del bisogno è la chiave per coniugare la standardizzazione dei servizi con le caratteristiche dei territori

Come riuscire ad andare tutti nella stessa direzione? Secondo Atzori, uno degli elementi fondamentali è risolvere il problema della stratificazione del bisogno: “Noi molto spesso ci troviamo a tendere verso un obiettivo ma senza sapere come raggiungerlo o come orientarci. Per questo la stratificazione del bisogno è importante e deve stare alla base di tutte le decisioni in tema di realizzazione di Case di comunità o Ospedali di comunità o di cure domiciliari, che possono dipendere anche dalle esperienze precedenti delle singole realtà, ma che devono partire dall’analisi dei bisogni dei cittadini”.

L’altro elemento chiave è la transizione tra i setting assistenziali: “Se vogliamo costruire una presa in carico adeguata e garantire la continuità assistenziale ai cittadini, dobbiamo essere in grado di gestire in maniera diversa i setting assistenziali, senza considerazioni ‘gerarchiche’ tra ospedale e territorio”.

Come emerso dal dibattito nel corso della Live, in questo momento la situazione è ancora in divenire e spesso i cittadini stentano a vedere il cambiamento in pratica: se è vero che il fermento ora è soprattutto nelle direzioni, che sono operative nel delineare le linee progettuali di questo cambiamento e soprattutto in ottica di realizzazione di “contenitori”, è anche vero che l’occasione è troppo importante per non essere colta e che la formazione e la definizione di “contenuti” e nuovi ruoli professionali deve essere portata avanti in contemporanea.

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Rossella Iannone
Direttrice responsabile TrendSanità