Ripensare il recupero dei rifiuti sanitari

Oggi i rifiuti sanitari infettivi si smaltiscono soprattutto negli inceneritori o in discarica, dopo sterilizzazione. L’Oms ha evidenziato come, a livello mondiale, l’aumento di rifiuti sanitari legati alla pandemia abbia mandato in tilt molte realtà. Da più parti arriva l’invito all’economia circolare e al riuso di questi materiali, per esempio negli asfalti

Un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha evidenziato come la pandemia abbia impattato sull’ambiente, almeno per quanto riguarda i rifiuti sanitari. Da quando è scoppiata, infatti, si sono moltiplicati i dispositivi di protezione individuale (dpi) usa e getta, e dunque si è posto il problema del loro smaltimento.

L’indagine Oms ha rilevato come, a livello globale, i sistemi di gestione dei rifiuti sanitari siano carenti, soprattutto nei Paesi più poveri. Nel 2019 una struttura sanitaria su tre non gestiva in modo sicuro i rifiuti sanitari. La pandemia ha aumentato la quantità di rifiuto potenzialmente infettivo da gestire, facendo crescere, in alcuni casi, l’impatto ambientale dei rifiuti solidi.

Un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità ha evidenziato come la pandemia abbia impattato sull’ambiente, almeno per quanto riguarda i rifiuti sanitari

Le autorità sanitarie di tutto il mondo, nella primavera del 2020, hanno infatti puntato a garantire le forniture di dpi necessarie, senza soffermarsi troppo sul problema del loro smaltimento, che in alcune aree del mondo è una questione seria: non riuscire a liberarsi correttamente degli scarti sanitari può infatti significare danneggiare il personale sanitario (che può ferirsi con dispositivi pericolosi non smaltiti correttamente o essere più esposto agli agenti patogeni), mentre siti mal gestiti rischiano di contaminare le falde acquifere.

L’Oms stima che tra marzo 2020 e novembre 2021 siano state acquistate 87.000 tonnellate di dpi, ma si tratta di una minima quantità rispetto ai numeri reali: il dato è infatti relativo al solo portale di approvvigionamento Covid-19 delle Nazioni Unite, mentre non tiene conto di tutto ciò che è stato comprato al di fuori di questo sistema e dei rifiuti generati dai cittadini.

Dalla stessa fonte sappiamo che sono stati conteggiati oltre 140 milioni di kit per i test diagnostici, in grado di generare potenzialmente 2.600 tonnellate di rifiuti solidi non infettivi (soprattutto plastica, il 97% della quale viene incenerita) e 731.000 litri di rifiuti chimici. Gli 8 miliardi di dosi di vaccino somministrate nel periodo considerato, poi, hanno prodotto 144.000 tonnellate di rifiuti aggiuntivi sotto forma di siringhe, aghi e cassette di sicurezza.

La gestione dei rifiuti in Italia

Valeria FrittelloniI problemi maggiori hanno riguardato i Paesi con meno risorse e sistemi più fragili già in partenza. L’Italia, nonostante sia stata la prima Nazione a dover fronteggiare il virus, si è comportata bene per quanto riguarda la gestione dei rifiuti sanitari: “Fin dalla primavera 2020 l’Istituto superiore di sanità ha definito le linee guida per il trattamento dei dpi, in ambiente domestico e non solo – afferma Valeria Frittelloni, responsabile del Centro Nazionale dei rifiuti e dell’economia circolare dell’Ispra, l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale –. La scelta di bloccare la raccolta differenziata in quei nuclei familiari dove ci fosse un positivo è legata a come avviene la selezione all’interno degli impianti: spesso è manuale, con persone che si occupano di separare i vari materiali. Ovviamente nella prima fase della pandemia, quando mancavano le evidenze scientifiche sulla modalità di trasmissione del virus, non potevamo permetterci un focolaio all’interno di un impianto”. Con il tempo abbiamo poi scoperto che il virus non si trasmetteva attraverso le superfici, ma all’epoca era un’informazione di cui non si disponeva.

L’altra indicazione importante contenuta nel documento dell’Iss riguardava il doppio imbustamento di guanti e mascherine usate.

Risale invece a fine marzo 2020 il documento del Sistema nazionale di protezione ambientale (di cui fa parte Ispra con le varie agenzie regionali) che ha fornito indicazioni gestionali per gli impianti. “Non ci risulta che ci siano stati focolai tra gli operatori e la raccolta dei rifiuti è andata bene in tutte le aree del Paese, anche in quelle più colpite dal virus – afferma Frittelloni – L’Europa, poi, quando ha redatto le sue linee guida, si è ispirata molto a quello che abbiamo scritto e fatto noi in Italia”.

Nella primavera 2020, inoltre, l’Ispra aveva svolto un’indagine cautelativa sui presunti volumi di dpi che avrebbero dovuto essere smaltiti nei mesi successivi: “All’epoca il peso delle mascherine era tra i 3 e i 30 grammi, a seconda del tipo e della presenza o meno delle valvole, a cui si dovevano aggiungere i guanti, che in quel momento sembrava che sarebbero diventati obbligatori”.

“Non ci risulta che ci siano stati focolai tra gli operatori e la raccolta dei rifiuti è andata bene in tutte le aree del Paese, anche in quelle più colpite dal virus”

Le stime dell’Istituto restituivano un peso compreso tra le 150.000 e le 450.000 tonnellate. “In realtà nella prima parte dell’emergenza abbiamo usato molto le mascherine chirurgiche e i guanti non sono mai diventati obbligatori – ricorda l’esperta – Quindi siamo rimasti sotto quella stima iniziale. Abbiamo elaborato a dicembre 2021 i dati sui rifiuti urbani del 2020 e abbiamo registrato complessivamente una riduzione, legata anche alla chiusura delle attività commerciali”.

A livello nazionale l’ente ha rilevato un calo di oltre un milione di tonnellate. Nel 2020, infatti, la produzione nazionale di rifiuti urbani è stata di 28,9 milioni di tonnellate, il 3,6% in meno rispetto al 2019.

Nel 2020 inoltre la percentuale di raccolta differenziata è stata del 63% rispetto alla produzione nazionale, facendo registrare un +1,8% rispetto al 2019. In termini assoluti, tuttavia, i volumi sono calati, anche se non in modo significativo (si è passati da 18,4 a 18,2 milioni di tonnellate). La produzione complessiva si è quindi ridotta, ma la qualità del rifiuto è cresciuta, nonostante l’indicazione a sospendere la differenziata nei nuclei familiari con membri positivi o in quarantena.

Gli inceneritori

In Italia non esistono più impianti dedicati allo smaltimento di rifiuti sanitari. Questi ultimi si dividono in rifiuti non pericolosi (il cui smaltimento è assimilato a quello dei rifiuti urbani) e in rifiuti a rischio infettivo, un parametro che non si misura con delle analisi, ma viene assegnato in base alla provenienza del rifiuto stesso.

Nel caso dei rifiuti ospedalieri, per esempio, sono considerati a rischio infettivo quelli che sono venuti in contatto con materiale biologico o che provengono da reparti che trattano malattie infettive. “Nel 2020, poiché la frazione di rifiuti a rischio infettivo è aumentata, alcune persone all’interno degli ospedali hanno iniziato a interrogarsi sull’effettiva utilità di questo metodo di valutazione. In condizioni normali, infatti, alcune frazioni potrebbero prendere strade diverse dopo la sterilizzazione”, ragiona Frittelloni.

Il decreto risale infatti al 2003 e, per i rifiuti speciali, prevede lo smaltimento in inceneritori certificati, oppure la sterilizzazione, che ha il compito di portare la carica batterica al di sotto di un certo limite. Durante la pandemia, il Governo italiano ha permesso di smaltire questi rifiuti sterilizzati in discarica. La legge, che inizialmente aveva validità temporanea (fino alla fine dell’emergenza sanitaria) è poi stata resa permanente. “In realtà, a valle del processo di sterilizzazione, potrebbe essere possibile un riutilizzo di alcuni di questi rifiuti”, rileva l’esperta.

Tra il 2013 e il 2020, sono stati chiusi 11 impianti per l’incenerimento dei rifiuti pericolosi e oggi la maggior parte si trova nelle Regioni del Nord Italia

Tra il 2013 e il 2020, sono stati chiusi 11 impianti per l’incenerimento dei rifiuti pericolosi e oggi la maggior parte si trova nelle Regioni del Nord Italia (le sole Lombardia ed Emilia Romagna ne contano 20 sui propri territori).

Se l’esistente è in grado, almeno sulla carta, di rispondere alle esigenze di smaltimento nazionale, è pur vero che la concentrazione degli impianti in alcune aree geografiche può causare qualche problema, economico e logistico, a chi ne è carente.

È il caso del Molise, che nell’agosto del 2018 ha spento l’ultimo inceneritore della Regione per i rifiuti pericolosi, che si trovava proprio di fronte all’ospedale Cardarelli di Campobasso. Motivo: l’impianto era ormai obsoleto. La pandemia ha però fatto crescere i volumi di rifiuti infettivi che andrebbero smaltiti attraverso questo canale. E con le quantità sono lievitati anche i costi per il loro trasporto fuori Regione. Da qui la volontà di ammodernare e riattivare l’impianto chiuso.

Facile a dirsi, un po’ meno a farsi: nell’agosto 2020 l’Asrem, l’Azienda sanitaria regionale del Molise, ha diffuso un avviso pubblico per trovare privati disposti a farsi carico dell’ammodernamento e della gestione dell’impianto in project financing, una modalità nella quale l’investimento del privato viene ripagato dagli introiti garantiti dalla gestione del bene. Si è fatta avanti una sola azienda e, a distanza di un anno e mezzo dalla chiusura dei termini per la manifestazione d’interesse, non è ancora stata indetta alcuna gara per l’aggiudicazione dei lavori.

L’asfalto a partire dalle mascherine

Daniele Landi Accanto alle modalità di smaltimento classiche, tuttavia, c’è chi sta cercando alternative che permettano di riutilizzare i rifiuti prodotti. Il progetto Supra (Single Use Ppe Reinforced Asphalt), per esempio, si propone di capire se i dpi opportunamente triturati possano essere utilizzati negli asfalti rinforzati.

Ricercatori dell’Università della Tuscia e dell’Università di Bergamo sono al lavoro, da dicembre 2021, per dimostrare la fattibilità tecnica, economica e ambientale dell’uso di questi dispositivi negli asfalti. “Abbiamo vinto un bando del Ministero della Transizione ecologica – spiega Daniele Landi, ricercatore dell’Università di Bergamo nel Dipartimento di Ingegneria gestionale dell’Informazione e della Produzione – Entro l’estate presenteremo i nostri risultati che, se positivi, potranno dare il via alla fase successiva, nella quale saranno coinvolte anche alcune aziende per portare la ricerca accademica fuori dall’università”.

La fibra presente nei dispositivi di protezione individuale potrebbe essere utilizzata per rafforzare gli asfalti

La fibra presente nei dpi potrebbe essere utilizzata per rafforzare gli asfalti: “In passato abbiamo lavorato su un progetto simile, che però utilizzava gli pneumatici esausti – spiega Landi – Adesso stiamo cercando di capire se questo possa funzionare con materiali diversi, alla luce della crescita di rifiuti come mascherine, camici e cuffie cui abbiamo assistito negli ultimi due anni”.

In realtà l’inserimento di fibre nell’asfalto avviene già oggi, utilizzando però materiali, come la cellulosa, con un impatto economico e ambientale importante. “Con i dpi si avrebbe un doppio vantaggio – rileva l’esperto – non si getterebbero questi rifiuti nell’inceneritore e sarebbe possibile utilizzare asfalto vecchio ottenendo performance simili a quello nuovo”.

Per quanto riguarda il riuso dei dpi in questo settore, le sfide sul tavolo riguardano sia la fase di triturazione, sia quella di raccolta. “Al momento stiamo analizzando la prima – spiega il ricercatore – i tessuti devono infatti diventare simili a dei coriandoli di carnevale, ma i dpi contengono materiale termoplastico e dunque non possiamo raggiungere temperature troppo elevate per non disperderne le proprietà”. I tessuti, poi, sono filamentosi: “Questa caratteristica è importante: non dobbiamo cancellare tutta la storia dei dpi, perché quei fili sono utili per rafforzare l’asfalto. Per questo stiamo lavorando a un progetto di trituratore”.

Infine, l’ultima questione riguarda la composizione: “Stiamo sperimentando varie “ricette” di conglomerati bituminosi, per far sì che i nuovi materiali siano effettivamente un rinforzo per l’asfalto”.

Una volta conclusa questa parte, si passerà a quella che al momento è stata trascurata: la raccolta. “Adesso questi rifiuti, sia a casa sia in ospedale, sono mischiati con gli altri – rileva Landi – La sfida sarà capire come effettuare la raccolta in modo che sia sostenibile economicamente e priva di rischi per chi se ne occupa”. La fase di sterilizzazione, invece, non sembra portare con sé grandi problemi: “Poiché i dpi saranno mescolati ai bitumi ad alte temperature, la sterilizzazione potrebbe avvenire direttamente durante il processo. Stiamo effettuando alcuni test per capire se questa modalità sia effettivamente percorribile”.

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista