Medici, dirigenti sanitari, infermieri e altri professionisti sanitari incrociano le braccia il 5 dicembre. Una scelta dolorosa fatta con pieno senso di responsabilità, e dunque, garantendo comunque i servizi assistenziali essenziali. Lo sciopero riguarda il personale appartenente alla dirigenza medica, veterinaria, sanitaria professionale, tecnica e amministrativa in servizio presso le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale, compresi i medici specializzandi (assunti con il decreto Calabria), il personale infermieristico e altre professioni sanitarie.
Secondo i sindacati di categoria ANAAO ASSOMED, CIMO-FESMED e NURSING UP le misure contenute nella Legge di Bilancio in discussione al Senato non sono adeguate a risollevare il SSN dalla grave crisi in cui versa ormai da tempo, né soddisfano le richieste degli operatori sanitari in prima linea nella salvaguardia della salute dei cittadini.
TrendSanità ha chiesto le motivazioni dello sciopero a Pierino Di Silverio, Segretario Nazionale ANAAO ASSOMED, Guido Quici, Presidente CIMO-FESMED e Antonio De Palma, Presidente Nazionale di NURSING UP.
“Nessun cambio di rotta nonostante le promesse”
Le misure previste nella Legge di Bilancio non sono sufficienti per risollevare il SSN, che versa da anni in una grave crisi strutturale, né per soddisfare le richieste dei medici e delle altre figure sanitarie. L’aspettativa era di vedere in parte defiscalizzate le indennità di specificità medica e sanitaria per aumentare gli stipendi e frenare l’emorragia di professionisti che fuggono all’estero e nel privato.
Per Pierino Di Silverio, Segretario Nazionale ANAAO ASSOMED “la condizione della dirigenza medico-sanitaria non è drammatica soltanto oggi, lo è ormai da diverso tempo. Cosa è cambiato rispetto al passato? C’è stato il Covid e, soprattutto, è cambiato il sentiment e lo spirito di abnegazione e sacrificio dei medici. Ormai siamo stanchi, disillusi, la pandemia ha destrutturato il lavoro, ci ha mandato in burnout. Chiedevamo che la manovra contenesse risorse economiche per il lavoro ordinario, visto che ci hanno definiti imprescindibili per il sistema. Lo stesso ministro Schillaci parlava di rendere più appetibile economicamente il SSN. Invece, la manovra, che ha disatteso anche le parole del Ministro, contiene un incremento economico per la sanità privata accreditata convenzionata di 700 milioni di euro per il recupero delle liste di attesa. Poi, invece di premiare il lavoro ordinario, tendono a riconoscere quello straordinario che noi umanamente non potremmo fare pur volendo. Quando, per smaltire le liste di attesa, dicono che pagheranno 80 euro il lavoro extra, nonostante le 60 ore a settimana che già facciamo a recupero della carenza di personale, vuol dire quasi prenderci in giro.
Poi abbiamo chiesto degli incrementi economici per il rinnovo dei contratti e nei soldi previsti abbiamo scoperto che sono inclusi anche i medici convenzionati, che possono certamente averne diritto, ma non attingendo sempre allo stesso calderone. Dai calcoli che abbiamo fatto, invece, l’incremento di questo contratto ci darà dieci punti percentuali sotto l’inflazione. Siamo al ridicolo. Ci si aspettava che fossero messe in campo risorse adeguate al rinnovo dei contratti e, invece, i 2,3 miliardi previsti per l’intero comparto sanità non sono che briciole per tutti. Nessun cambio di rotta, quindi, anzi, si prevede il taglio dell’assegno previdenziale tra il 5 e il 25% l’anno. Un duro colpo per almeno 50mila persone”.
“Vogliono incentivare i privati? Bene, ma con le stesse nostre regole…”
Conferma Guido Quici di CIMO-FESMED, “i soldi stanziati sono davvero pochi, perché dei 3,2 miliardi previsti per la sanità, 2,3 sono per i rinnovi contrattuali, quindi, non sono soldi utili a risolvere la crisi del settore. Restano 900 milioni, di cui 280 andranno alle Regioni per le liste di attesa e il resto alle strutture private. Ecco il paradosso: i medici fuggono dagli ospedali pubblici per le condizioni di lavoro insostenibili e approdano alle strutture private che avranno i soldi per ridurre i tempi di attesa; pertanto, i medici che avrebbero dovuto ridurre le tempistiche nelle proprie strutture ospedaliere, lo faranno nelle cliniche private. Del resto, se gli ospedali chiudono gli ambulatori perché manca il personale, è chiaro che l’attesa aumenta. Se le case della salute funzionassero come dovrebbero, gli ospedali gestirebbero le attività complesse e ci sarebbe una più equa distribuzione tra territorio e ospedale.
Le Regioni, inoltre, hanno accantonato 2,6 miliardi non spesi per assumere il personale, perché il tetto di spesa non è stato superato, tranne per l’Emilia-Romagna. Questo mi fa pensare che non si vuole assumere: da un lato c’è il tetto di spesa, dall’altro, anche se ci sono i soldi, non assumono. Vogliono però usare i soldi del PNRR per le tecnologie, quindi avremo nuove tecnologie senza personale, che si sarà spostato nel privato. Si vuole incentivare la sanità privata? Va bene, se ha le nostre stesse regole: il Pronto Soccorso, con tutti i costi sociali, le terapie intensive neonatali, le rianimazioni per le lungodegenze, ecc… Inoltre, lo sciopero lo fanno anche i medici della sanità privata che non hanno il contratto da 18 anni. Il privato ci guadagna e anche molto, perché i dipendenti non hanno il rinnovo del contratto, ingaggia i medici anziani esperti che escono dal pubblico e li paga a percentuale, più fanno ricoveri e prestazioni, più guadagnano, aumentando l’inappropriatezza delle cure. Con quali soldi? Con quelli che gli dà la finanziaria per ridurre i tempi di attesa”.
“C’è anche il taglio alle pensioni”
“Molti medici stanno per andare in pensione, circa 55.600 – afferma il Presidente CIMO-FESMED – in tutto siamo 110mila, quindi circa il 50%. Perderanno da 200 a 1000 euro al mese di pensione con questo provvedimento. Ciò comporterà un’ulteriore fuga. Ci hanno provato già negli anni precedenti, stavolta fanno sul serio. Gran parte delle altre categorie ha già avuto questo taglio, adesso rimane ancora una buona fetta di dipendenti, tra cui i 55mila medici. Probabilmente è anche una cosa necessaria ma sbagliata nei tempi, visto che si vuole applicare in un momento in cui c’è il fuggi fuggi dagli ospedali. Direi un errore di valutazione. Abbiamo avuto 2,3 miliardi per il rinnovo contrattuale, che corrisponde a un incremento del 5,6%.
Mi piacerebbe evidenziare, e lo dirò chiaramente durante il sit-in previsto a Roma in piazza Santi Apostoli il giorno dello sciopero, che il Governo non ha avuto il coraggio di recuperare i 90 miliardi di evasione fiscale o gli extraprofitti delle banche, mentre ha dato 2,3 miliardi alla TIM che ha 26 miliardi di deficit. Devono dire ai cittadini che è meglio se iniziano a mettere da parte i soldi per curarsi da soli”.
“Si dica che sistema non è più sostenibile…”
“La spada di Damocle sulle pensioni – continua Di Silverio – prevede strategie di recupero creative. Prima si dice ‘penalizziamo soltanto i medici che vanno in pensione prima’, poi ‘facciamo partire il taglio dal 2027’, poi dal 2025. Insomma, poche idee e confuse. Non siamo contro questo Governo, il colore della politica conta poco, è un problema di norme, di attese, di disattese e di voler o meno investire nei professionisti della sanità pubblica. Se questi sono i presupposti, secondo noi continuerà la fuga dei medici e potremo solo stare a guardare. In fondo, nessuno ha il coraggio di dire che si sta andando verso un sistema sanitario misto, perché la nostra cultura si basa su un sistema democratico di assistenza sanitaria pubblica. Si abbia il coraggio di dire, in maniera trasparente, che questo sistema non è più sostenibile, non ci sono i soldi. In questo modo, tutti sono preparati, i medici se ne andranno dall’ospedale, troveranno situazioni in cui sono riconosciuti professionalmente e si riparte da zero. A quel punto poi potrà esserci anche una rivolta sociale, dei cittadini. È anche questo il senso dello sciopero, percepire come si sta senza medici…
Cosa chiediamo? La defiscalizzazione di una parte del nostro stipendio, come è stato fatto per altre categorie di lavoratori, il ritiro immediato della norma sulle pensioni, maggiori investimenti distratti dalla sanità privata e veicolati sulla sanità pubblica. Non ci fermeremo, andremo avanti con le mobilitazioni nonostante il silenzio del Governo, ci dovremmo abituare a vedere sempre più medici fuori dagli ospedali, visto che la nostra presenza non è apprezzata”.
Non solo medici a incrociare le braccia
A scendere in piazza ci sono anche gli infermieri, le ostetriche e altri professionisti sanitari che chiedono la valorizzazione delle professionalità sanitarie non mediche ormai da anni. “Gli infermieri sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto durante l’emergenza Covid – interviene Antonio De Palma, Presidente del sindacato NURSING UP –, hanno lavorato con abnegazione e in un momento critico per tutta la collettività si sono messi le mani in tasca e hanno perfino acquistato, quando le Asl non li mettevano a disposizione, i dispositivi di sicurezza come le tute di contenimento e le hanno mandate alle Regioni che ne avevano più bisogno. Di fronte a tutto questo ci aspettavamo, al di là dei proclami da parte della politica, che si arrivasse con la legge finanziaria a dei provvedimenti in favore del comparto sanità. Invece, nulla di fatto. Anzi, la legge penalizza gli infermieri e i professionisti dell’assistenza in generale, mettendo le mani su qualcosa di sacro come le pensioni, in particolare dei più anziani, delle persone prossime al pensionamento, addirittura di quelle che già hanno 42 anni di servizio alle spalle. Questo per noi è inconcepibile, il benservito da parte dello Stato a chi ha dato il più ampio tributo, anche in termini di vite umane, durante l’emergenza della pandemia. Non solo, nessuna valorizzazione della professionalità ma anche il taglio alle pensioni, con una riduzione fino al 25% dell’assegno pensionistico.
Questa è una cosa gravissima, anche perché un infermiere o un professionista sanitario non è un impiegato che sta dietro a una scrivania. Un infermiere garantisce la copertura di turni, può prestare servizio a un tavolo operatorio. Se passa questa riforma, non bastano più i 42 anni e 10 mesi per accedere alla pensione anticipata senza penalizzazioni, ma bisognerà andare in pensione con i 67 anni canonici. Ci sono molti infermieri che hanno 60 anni di età e 42 anni di servizio, pertanto, l’anno prossimo potrebbero andare in pensione, ma con questa norma dovranno aspettare altri 7 anni e andare in quiescenza con 49 anni di servizio. Insomma, stiamo parlando di persone di 67 anni. Ce le immaginiamo alle tre del mattino a un tavolo operatorio per un’emergenza? Quale sicurezza per la salute pubblica, se un medico o un infermiere, all’età in cui dovrebbero stare a casa a godersi la pensione, sono costretti a lavorare?
Contestiamo questo, la mancata valorizzazione, il taglio alle pensioni, il fatto che la Legge di Bilancio non preveda che una parte delle risorse indicate, e cioè una parte di quei famosi 2,3 miliardi di euro, siano finalizzati a integrare l’indennità di specificità infermieristica, che oggi vale circa 2,5 euro lordi al giorno, poco più di 72 euro lordi al mese, quindi attorno ai 40 euro netti. Ciò che noi chiediamo è che la legge finanziaria destini almeno 444 milioni che, secondo i nostri calcoli, sarebbero sufficienti per almeno raddoppiare l’indennità di specificità infermieristica, portandola a circa 140 euro lordi, estendendola anche alle ostetriche, perché svolgono una professione assistenziale molto delicata con elevate responsabilità”.
Medici e infermieri dall’estero ed esodo dei professionisti italiani
Viene spontaneo domandarsi perché pagare personale che arriva dall’estero e non incentivare e incrementare quello già presente. Per la sanità italiana è davvero un vantaggio? È ciò di cui abbiamo bisogno? Risponde il Presidente NURSING UP: “In questi giorni stanno arrivando in Lombardia infermieri che giungono dal Sud America che hanno, ci dicono, problemi legati alla lingua italiana. Non entro nel merito dei titoli di studio, ma tengo a sottolineare che gli infermieri italiani sono dottori in infermieristica, quindi laureati. Parliamo solo dell’aspetto linguistico. In Italia mancano 170mila infermieri. Come si può immaginare di risanare questa voragine a livello strutturale senza pagare i nostri professionisti almeno quanto quelli del resto dell’Europa, invece di mettere delle toppe che sono peggiori del buco stesso? Si ingaggiano persone che non conoscono la lingua (inutile dire che faranno dei discutibili corsi accelerati) e che dovranno acquisire anche il linguaggio tecnico dell’assistenza infermieristica e della comunicazione medica.
Quindi, come si può immaginare che queste persone possano erogare un’assistenza di qualità e assumere le grandi responsabilità legate all’assistenza ai vari livelli, come accade per gli infermieri italiani? Pensiamo soltanto a quelle situazioni di emergenza in cui è necessario mettere in atto manovre salvavita. Siamo senza parole e ci chiediamo se questi provvedimenti, che ovviamente servono a mettere una toppa sulla grave carenza dovuta alla scarsa valorizzazione contrattuale ed organizzativa del personale di assistenza, non denotino la reale considerazione che il governo e le Regioni hanno della professionalità infermieristica”.
“Solo per gli italiani vale il tetto di bilancio…”
Pierino Di Silverio aggiunge:“È un cane che si morde la coda perché, se il sistema non è appetibile, i medici non vogliono lavorarci e si crea una carenza. Se si vogliono tenere aperti gli ospedali e i servizi di emergenza-urgenza quindi ci si arrangia prendendo i medici a gettone o dall’estero. Non siamo contrari ideologicamente, diciamo soltanto che, quando un medico arriva in Italia, dovrebbe quanto meno passare al vaglio dell’Ordine per valutare le competenze. Tanto poi scappano anche loro, visto le condizioni in cui lavoriamo. Inoltre, i soldi che si usano per pagarli non si possono impiegare per assumere nuovi medici italiani o per pagare le indennità. Per assumere, infatti, ci sono i tetti di spesa e regole relative al bilancio. Per reclutare i medici gettonisti, invece, si usano i fondi relativi a beni e servizi e si ha più margine di manovra. Il riconoscimento sociale ormai di questa professione è pari a zero, perché non siamo più portatori di interessi economici diretti”.
Depenalizzazione dell’atto medico: nessuna notizia
Nonostante sia stata varata sei anni fa, la Legge Gelli-Bianco sulla responsabilità sanitaria e la depenalizzazione dell’atto medico resta sulla carta, poiché mancano i decreti attuativi. Inoltre, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha istituito una Commissione per lo studio e l’approfondimento della depenalizzazione dell’atto medico, ma non se ne hanno più notizie, nonostante l’impegno del ministro della Salute, Orazio Schillaci, a regolamentare questo aspetto così delicato dell’attività medica.
“Abbiamo chiesto diandare avanti con la depenalizzazione dell’atto medico e di avere uno scudo penale – ci dice il Segretario Nazionale ANAAO ASSOMED – e il ministro Schillaci si era detto pronto ad agire, poi il ministro Nordio ha detto che è sua competenza e di voler istituire una commissione senza la presenza di medici riconosciuti nell’ambito delle organizzazioni sindacali. La commissione però è sparita nel nulla. Abbiamo chiesto più volte di avere un’audizione, per lo meno per sapere come la pensa chi ogni giorno vive in prima persona le difficoltà. Depenalizzare l’atto medico non vuol dire fuggire dalle responsabilità, ma prendere atto che il medico non può essere sottoposto a tre tribunali (ospedaliero, ordinistico e civile) e che nel giudizio non si può partire da una presunzione di colpevolezza”.
È approdato, invece, alla Commissione Giustizia della Camera un disegno di legge presentato dalla Lega che si muove nella direzione opposta a quanto richiesto dai sindacati di categoria. “La Lega batte tutti sul tempo e mette in discussione un disegno di legge in cui si fanno almeno 5 passi indietro rispetto alla legge attuale – aggiunge Di Silverio –. Si prevede il carcere per chi commette un errore medico. Rasentiamo il tragicomico, siamo davvero sconcertati”. Conclude il Presidente CIMO-FESMED: “Da noi, come solo in Messico e in Polonia, c’è la responsabilità penale. Tutti i governi dicono che è impossibile depenalizzare l’atto medico e che il tentativo della Commissione è di introdurre delle norme legislative che agiscano da deterrente per il cittadino, il quale deve sapere che, se perde la causa, le spese sono a suo carico e può rischiare altri provvedimenti. L’idea è scoraggiare le cause ma serve a poco, perché il cittadino si rivolge all’avvocato che gli fa credere che vincerà la causa, anche se perderà, mentre l’avvocato avrà guadagnato in ogni caso. Inoltre, più del 90% degli eventi avversi sono legati a problemi organizzativi e non all’atto medico. Anche su questo non sono ottimista”.