Leopardi diceva che «Le lingue sono sempre il termometro de’ costumi, delle opinioni, delle nazioni e de’ tempi». Per lavoro e per indole sono una persona molto attenta all’uso delle parole e credo fermamente che esse descrivano sicuramente la realtà per come la percepiamo e allo stesso tempo possano influenzare la realtà stessa.
Da tempo vi è un grande dibattito sulla semantica quando ci riferiamo alle diseguaglianze, in particolar modo di genere. Se già la Convenzione OIL (l’unica Agenzia delle Nazioni Unite ad avere una funzione normativa) adottata il 21 giugno 2019 auspicava la realizzazione di una società più equa e solidale, con la cessazione delle diseguaglianze e delle violenze, incluse quelle che passano attraverso il linguaggio, oggi molte Aziende pubbliche e private inseriscono nei loro documenti di pianificazione strategica linee di indirizzo sul buon uso delle parole.
La professione infermieristica lotta con “parole non adeguate” da anni, tra ineguaglianze di genere e ineguaglianze “professionali”
La professione infermieristica lotta con “parole non adeguate” da anni e da anni vive un duplice senso di discriminazione semantica che si auto alimenta tra ineguaglianze di genere e ineguaglianze “professionali”. Essendo la professione infermieristica composta al 75% di donne non solo si ritrovano nel nostro mondo tutte quelle disparità sociali rivolte al genere femminile, ma esse di riflesso hanno sempre indebolito l’infermieristica e viceversa. Per dirne una su tutte: quando l’infermiera viene chiamata “signora” o “signorina” e non “dottoressa”. Se questo accade in realtà a moltissime laureate, nel mondo infermieristico viene avvertito come un “doppio danno” giacché, oltre alla lotta per una emancipazione femminile, ancora esiste nel nostro mondo una lotta all’emancipazione professionale.
Così, chiunque sia infermiera e infermiere, negli anni ha portato avanti più o meno convintamente una rivoluzione grammaticale che nasceva fin dalle aule universitarie. Già quando iniziai a studiare da infermiere, circa 20 anni fa, vi era una certa veemenza di docenti e professori che ci correggevano con una particolare animosità. «Non svolgete un mestiere, ma una professione!» era una frase ripetuta molte volte. Siamo stati quasi “inculcati”, a mio avviso a ben ragione, a portare avanti questa rivoluzione sulle giuste parole da trasportare poi nei confronti della cittadinanza, del sistema, delle altre professioni e non da ultimo nei confronti dei colleghi stessi cresciuti in altri tempi e con altre parole autoriferite.
Oggi le parole intorno all’infermieristica sono molto cambiate e sono più vicine a quello che siamo, eppure quella veemenza, quell’indole quasi irosa nel cambiare la nostra descrizione, quella voglia sacrosanta di riscatto che doveva passare attraverso parole nuove, credo però che ci abbia condizionato fin troppo.
Oggi le parole intorno all’infermieristica sono molto cambiate e alcune si portano dietro lotte, conquiste, percorsi di affrancamento da stereotipi antichi
Ci ha condizionato al punto che, occupandomi anche di comunicazione istituzionale, ho raccolto una serie di parole proibite. Una black list da non usare mai se parli di infermieristica. Una black list così potente che se un giornalista ci descrive nei modi e nei termini più lusinghieri possibili ma, ahi lui, usa una delle parole proibite, il pezzo diventa inutilizzabile, pena flame o hater in quantità industriali.
Questo aspetto comunicativo sull’infermieristica è molto difficile da far comprendere a chi infermiere non è, e rende molto difficile occuparsi di comunicazione infermieristica. Per farlo capire in modo chiaro basterebbe dire che per noi alcune parole equivalgono a “nigger” nel mondo afroamericano. Una parola vissuta in senso così dispregiativo che in America è vietato pronunciarla anche se in senso neutro e didascalico, come ho appena fatto io, ed è sostituita con la locuzione generica “N-Word”. Ecco, alcune nostre parole sono vissute dalla comunità infermieristica come “N-Word”. Che poi ben calza che “N” potrebbe stare anche per Nurse. Come detto, ci sono parole che si portano dietro lotte, conquiste, percorsi di affrancamento, smarcamento da stereotipi antichi, eppure forse oggi conviene trovare un punto di svolta che da “lotta” diventi “educazione gentile”.
Infatti alcune delle parole proibite nel mio mondo sono sì mestiere, vocazione, missione, mansioni, angeli ma anche cuore, gentilezza, caritatevole, sorriso, bontà, se usate in un contesto avvertito “sbagliato”.
Se vi siete straniti sulle ultime parole, sappiate che io sono stranito con voi. Credo che la rivoluzione semantica portata avanti dalla mia professione abbia bisogno di fermarsi a riflettere. Leggo di molti medici, ad esempio, che descrivono la loro professione come “mestiere” senza problema alcuno, anche in scenari pubblici importanti. Ebbene la forza di una professione non può basarsi solo su una parola. Se io ho saldo e chiaro il mio mandato professionale, non posso sentirmi sminuito da una parola non del tutto adeguata.
Forse oggi conviene trovare un punto di svolta che da “lotta” diventi “educazione gentile”
Questo eccesso di acredine ha generato la sfiducia di molti giornalisti vicini al nostro mondo, ad esempio, che si sono sentiti attaccati da frotte di colleghi solo per aver scritto un “mestiere pieno di cuore” di troppo. Questo eccesso di acredine ci ha fatto perdere alleati comunicativi. Ci ha fatto concentrare troppo sulla singola parola e meno sul contesto in cui è inserita.
Come delegato della FNOPI alla comunicazione vi assicuro che continueremo a coltivare una narrazione sempre più centrata, eppure capita spesso di stracciare un buon pezzo, un buon supporto, una bella dimostrazione di sostegno, solo perché viene evidenziata la “gentilezza di una professione”. O “l’indole generosa”. È molto comprensibile che la voglia di riscatto chieda una narrazione che sia anche scientifica, professionale, competente ma fa male abdicare tutta la componente umana ed umanistica che portiamo fieri anche nel nostro codice deontologico. Non si può pensare alla nostra professione scevra dalla componente relazionale ed empatica e dovremmo avere la capacità di comprendere che questa componente e competenza relazionale, in articoli popolari per una platea popolare, spesso tenda a semplificarsi nella sua narrazione.
Osservo, special modo sui social, un eccesso di attenzione in questo che va a scapito di un ragionamento culturale di sistema più ampio. Per farvi capire, e strapparvi una risata, un collega sui social della FNOPI ha cominciato ad attaccarci perché il copy di un nostro post riportava la parola “missione” riferita alla Missione 6 del PNRR. Ma tanto basta. Ha letto “missione” ed è partito con vari strali senza nemmeno fermarsi a comprendere. Capite che questo eccesso di zelo dall’essere partito come una rivoluzione semantica giustissima sta a mio avviso diventando a tratti grottesco.
La parola è un mezzo, il fine un altro e anche se si condizionano dovremmo provare a farle convivere
È forse utopistico immaginare un mondo, civile e professionale, dove disquisire di contenuti, di azioni, di pensieri andando sì a sottolineare il cambiamento di alcune parole sbagliate ma tuttavia non confondere il mezzo con il fine. La parola è un mezzo, il fine un altro e anche se si condizionano dovremmo provare a farle convivere. Elevare una professione non può e non deve essere solo andare a fare i “grammar nazi” in ambito professionale ma può e deve essere esempio agito ogni giorno in ogni contesto di lavoro. E se qualcuno tesse il grande valore della nostra professione chiamandola “mestiere” glielo faremo notare, cercheremo di correggere per la prossima volta, ma di certo non buttando a mare il bambino con l’acqua sporca.