La corruzione in sanità provoca perdite pari a circa il 15% dei finanziamenti pubblici. Ed è un fenomeno che non riguarda solo il nostro paese, ma anche le altre nazioni europee. In Italia, con la legge Severino (la 190 del 2012) qualcosa si è mosso, soprattutto in termini di trasparenza e consapevolezza, ma la strada è ancora lunga. Perché la corruzione si trasforma, perché con il digitale può nascondersi in modo ancora più subdolo e provocare danni incalcolabili. Perché lo scambio di mazzette non esiste praticamente più, al suo posto ci sono triangolazioni societarie, contratti poco chiari, che dietro ad un’apparente sperimentazione clinica possono nascondere la cessione di banche dati, e benefici indiretti come assunzioni di parenti o amici in società di comodo.
Con il digitale la corruzione può nascondersi in modo ancora più subdolo e provocare danni incalcolabili
Secondo l’indice di percezione della corruzione 2020 l’Italia sta fortunatamente guadagnando qualche posizione, attestandosi su un punteggio di 53 (0 significa molto corrotto, 100 pulito), in rimonta rispetto agli anni passati (nel 2012 avevamo solo 42 punti). In ogni caso, non c’è da gioire: secondo gli ultimi dati di Trasparency International Italia, tra inizio 2020 e aprile 2021 nel nostro paese sono stati riportati dai media 132 casi di corruzione nell’ambito sanitario/farmaceutico, al secondo posto rispetto al generale settore pubblico.
Ne abbiamo parlato con Francesco Macchia, vice presidente dell’EHFCN – European Healthcare Fraud & Corruption Network, e Lorenzo Segato, Head of Research di REACT, start up innovativa a vocazione sociale per la prevenzione del crimine e la corruzione.
La legge Severino non basta
La legge 190/2012, che il prossimo anno compie dieci anni, ha introdotto l’obbligo in capo alle aziende pubbliche (quindi anche le Asl) di produrre il piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC), un documento di natura programmatica che ingloba tutte le misure di prevenzione obbligatorie per legge, e che deve essere pubblicato sul sito dell’ente in amministrazione trasparente.
Ma non basta pubblicare il piano anticorruzione per essere al riparo da frodi e atti corruttivi.
Con la legge 190 del 2012 qualcosa si è mosso, soprattutto in termini di trasparenza e consapevolezza, ma la strada è ancora lunga
Secondo un’indagine svolta da REACT in questi ultimi due anni, soltanto il 2% dei dipendenti dichiara di conoscere molto bene il piano anticorruzione e solo l’8% di conoscere il codice di comportamento adottato dal proprio ente. Quasi il 90% dei dipendenti dichiara di non essere stato coinvolto nell’elaborazione della strategia anticorruzione e uno su tre non conosce il responsabile anticorruzione del proprio ente.
Solamente il 3% dei piani anticorruzione degli enti sanitari presenta un’impostazione ritenuta sufficiente ad identificare in maniera corretta gli eventi rischiosi e le misure da adottare per neutralizzarli. Inoltre, più del 12% degli enti sanitari non inserisce all’interno del proprio piano una definizione chiara di corruzione, non permettendo così ai propri dipendenti di comprendere il fenomeno. I risultati del monitoraggio e quanto emerso dalle rilevazioni rendono manifesta la necessità di accrescere il coinvolgimento e le competenze legate all’anticorruzione dei dipendenti pubblici.
Un sistema sotto finanziato è più soggetto alla corruzione
“Noi avevamo lanciato l’allarme già nel 2012 – sottolinea Macchia, che è anche presidente di ISPE Sanità, l’istituto per la promozione dell’etica in sanità – avvertendo che con un sistema sanitario corrotto e sotto finanziato, come era il Servizio Sanitario Nazionale, presto si sarebbe arrivati al collasso. E ciò che è successo in questa emergenza sanitaria è sotto gli occhi di tutti. Eravamo totalmente impreparati rispetto alla pandemia, non solo da un punto di vista tecnico, ma anche tecnologico. Non avevamo posti letto, sale d’emergenza adeguate, perché avevamo risorse scarse e mal allocate. Oggi abbiamo la grande occasione del PNRR per rifinanziare il SSN, ma dobbiamo stare attenti a corruzione e incompetenze, altrimenti si rischia di mettere acqua in un secchio pieno di buchi”.
E dal 2012 ad oggi le cose non sono troppo cambiate. Il tema della corruzione in sanità è più che mai attuale.
Le aree più colpite sono gli acquisti, la sanità privata (per i mancati controlli), la farmaceutica (anche se in questo ambito le cose sono migliorate) e la questione delle nomine, che sono ancora oggetto di pesanti ingerenze politiche.
Le aree più colpite sono gli acquisti, la sanità privata, la farmaceutica e la questione delle nomine
In passato, gli interessi che generavano corruzione erano legati soprattutto agli appalti: si andava dalla costruzione di opere fino ai servizi ad alta e bassa specializzazione. Le pratiche corruttive erano molto diffuse, soprattutto perché mancava una capacità repressiva e una strategia preventiva. Dal 2012 in poi l’attenzione su questo tema è aumentata, e l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) si è ripetutamente occupata di sanità. Sono state introdotte norme che hanno codificato le procedure, è aumentata la trasparenza e si è pian piano diffusa una cultura dell’etica e dell’integrità nella pubblica Amministrazione.
“Ma le trasformazioni del sistema sanitario hanno fatto nascere nuovi rischi di corruzione, prima latenti – sottolinea Segato – alcune regioni hanno spinto sulla privatizzazione del sistema sanitario, aumentando il rischio di corruzione nella fase dell’accreditamento, dei rimborsi e della conferma dei requisiti. Il settore farmaceutico e protesico rimane esposto ai rischi legati alla sperimentazione e all’innovazione, che per loro natura non possono essere vincolate da procedure troppo stringenti. Il tema delle nomine, poi, rimane estremamente fragile. C’è invece un settore in grande espansione, in termini di rischio di corruzione, legato alla digitalizzazione della sanità: si tratta della gestione dei dati sanitari e clinici, che fanno gola a imprese farmaceutiche, assicurative, di servizi per la cura alla persona ma anche a giganti informatici che puntano a profilarci per poi vendere le nostre caratteristiche a terzi”.
Qui la corruzione riguarda il pagamento di dipendenti pubblici per fare in modo che condividano dati sanitari o altri flussi informativi. “Sono particolarmente preoccupato – rimarca Segato – perché in questo settore le competenze dei dipendenti pubblici sono spesso scarse, e lo smart working, così come le debolezze infrastrutturali delle reti informatiche, costituiscono fattori di rischio elevati”.
Negli altri paesi Ue le cose non sono troppo diverse
Lo scorso ottobre si è tenuta la 14esima International Conference dell’European Healthcare Fraud & Corruption Network (EHFCN), e si è discusso di quanto sia importante definire approcci comuni per contrastare gli sprechi e i fenomeni corruttivi e non perdere la preziosa occasione del “Next Generation EU”, il più grande programma di finanziamento mai avviato in Europa dalla sua fondazione.
Secondo una ricerca svolta nel 2014 sempre da EFHCN, ma tutt’ora attuale (al netto di quanto successo durante l’emergenza pandemica), tra i vari sistemi sanitari europei non c’è una differenza sostanziale in termini di sprechi, frodi, corruzioni. In generale, un quinto della spesa sanitaria non è impiegato nel modo corretto. Ma c’è di più, come spiega il vice presidente EFHCN: “Abbiamo rilevato che nei paesi tax based, come il nostro, prevale la corruzione in sanità, mentre in quelli insurance based, come Germania e Francia, prevalgono le frodi e questo è facilmente intuibile proprio per i differenti sistemi sanitari. La gestione in emergenza legata alla pandemia potrebbe aver peggiorato la situazione a vari livelli, ma lo capiremo fra un po’, adesso è presto per tirare le somme”.
In generale, un quinto della spesa sanitaria non è impiegato nel modo corretto
Di certo, durante la pandemia si è assistito a un paradosso: nonostante la legge 190 del 2012 e il Codice degli appalti (due norme che evidentemente ingessano piuttosto che semplificare il sistema), durante l’emergenza sanitaria i provveditori hanno lavorato pressoché in deroga alle varie norme, perché non esistevano norme più flessibili.
“È stato fatto tutto a fin di bene per rispondere velocemente alle esigenze legate alla pandemia – riprende Macchia – però gli scandali ci sono stati comunque, i casi di mascherine pagati un milione di euro e mai arrivate, ad esempio. Tutto questo ci conferma che la corruzione è ancora ben presente e riaffiora ogni volta che i controlli si allentano”.
Per Macchia sarebbe opportuna una revisione che riduca le complessità ex ante del vecchio codice appalti e cerchi di introdurre controlli ex post più veloci e snelli: “Ora ci sono tanti controlli, fatti da diversi soggetti talvolta sulle stesse cose. Un eccesso di controlli a monte, per evitare i quali entra in gioco la corruzione. Mi domando perché, invece, non si aumentino i controlli ex post, per verificare che i procedimenti siano stati fatti nel modo giusto, anche dopo la prima verifica”.
In questo senso, sul Recovery Plan gli Stati dovranno attuare una valutazione del rischio, una vera e propria compliance in tema di anticorruzione, di conflitto d’interesse e di frode. In Italia la valutazione del rischio sarà in capo alla cabina di regia del ministero dell’Economia.
Sarebbe opportuna una revisione che riduca le complessità ex ante del codice appalti e introduca controlli ex post più veloci e snelli
Ma il vero rischio viene dall’urgenza di spendere risorse ingenti in un tempo relativamente breve e con un sistema di appalti lento e farraginoso. È chiaro che dovranno essere previsti rigidi e pervasivi controlli in un secondo tempo.
“Questo è un punto su cui le istituzioni dovrebbero riflettere e parlo per tutti i paesi Ue, non solo il nostro – conclude Macchia – ciascun Paese si sta organizzando autonomamente per capire come controllare che le risorse siano usate nel modo appropriato ma non c’è un coordinamento europeo in tal senso: il network EHFCN si propone di promuovere un maggior coordinamento individuando e diffondendo best practice”.
“Io trovo che l’utilizzo di procedure accelerate possa aiutare la pubblica amministrazione a rispondere alle necessità della popolazione – aggiunge Segato – ma questo può comportare rischi di corruzione, e in ogni caso le procedure di emergenza non possono diventare la prassi. La cosa positiva è aver scoperto che le aziende sanitarie sono in grado di fare acquisti in pochi giorni. Questa velocità deve bilanciarsi con una maggiore responsabilità per chi gestisce il procedimento e con un sistema di controlli ex post più efficienti”.
Sanità privata, chi controlla?
Il controllo del privato è sempre stato un vulnus della sanità italiana. Ci sono naturalmente delle eccellenze, ma in generale questo settore non è controllato come quello pubblico.
Un esempio? Il controllo dell’accreditamento viene fatto la prima volta, se poi la struttura cambia, anche in modo sostanziale (ad esempio cancellando un dipartimento), non si viene a sapere perché non ci sono più controlli.
Per le aziende private esiste una normativa diversa, che attribuisce agli amministratori dell’azienda responsabilità penali per i reati commessi dai propri dipendenti in favore dell’ente. È il famoso modello introdotto dal decreto Legislativo 231 dell’8/06/2001 che ancora oggi purtroppo sconta di una mancanza generalizzata di competenze nella analisi dei rischi.
Bisogna lavorare su due fronti, quello della formazione specialistica e quello dell’educazione delle persone
Si tratta di un modello di organizzazione e gestione, non obbligatorio, utile per permettere alle imprese di essere dispensate dai reati imputati ai singoli dipendenti. La società che lo sottoscrive può chiedere legittimamente l’esclusione o la limitazione della propria responsabilità derivante da uno dei reati menzionati nella norma.
“Noi collaboriamo con alcuni enti sanitari privati proprio per condurre analisi dei rischi accurate e sofisticate – spiega Segato – mentre spesso ci troviamo dei modelli 231 copia incolla che non tutelano l’ente e i suoi amministratori, in caso ci sia qualche episodio di corruzione. Nel caso delle aziende convenzionate, il sistema pubblico deve mantenere il controllo delle risorse che trasferisce, e qui ancora una volta ci si scontra con la volontà e con la capacità degli enti pubblici di effettuare controlli accurati ed efficaci. Da questo punto di vista bisogna lavorare su due fronti, quello della formazione specialistica e quello dell’educazione delle persone”.
Più che un problema di trasparenza, è un tema di responsabilità
La trasparenza da sola serve a poco se non esiste la responsabilità, la cosiddetta accountability. Se la trasparenza viene violata in qualche modo, quali sono le conseguenze? Come si individuano i responsabili?
“Io credo serva una trasparenza intelligente – riprende l’Head of Research di REACT – che punti all’accessibilità delle informazioni più che alla messa a disposizione di banche dati senza alcun criterio. Prendiamo ad esempio il Freedom of information act (FOIA): una conquista di civiltà nel nostro paese, ma lo strumento rimane praticamente inutilizzato.
Se la trasparenza viene violata in qualche modo, quali sono le conseguenze? Come si individuano i responsabili?
Durante la pandemia è stato spesso impiegato per ottenere dati sui malati di COVID e sulle vaccinazioni, ma non abbiamo visto utilizzi di questi dati che abbiano portato valore aggiunto ai cittadini che erano in difficoltà. Piuttosto, sono stati usati come strumento politico per chiedere conto a questa o quella regione. Come cittadino, anch’io voglio avere gli elementi per valutare l’operato dei politici che ci governano, ma, come tecnico, devo anche sapere che la produzione di questi dati richiede tempo e risorse alla pubblica amministrazione. Ritengo quindi che sia fondamentale imparare a utilizzare gli strumenti della trasparenza per ottenere le informazioni che davvero interessano”.
Il Sunshine act è già tramontato?
Il Sunshine act all’italiana, meglio conosciuto come Disposizioni in materia di trasparenza dei rapporti tra le imprese produttrici, i soggetti che operano nel settore della salute e le organizzazioni sanitarie (atto 1201 del Senato), potrebbe essere uno strumento prezioso per aumentare la trasparenza in sanità, ma ad oggi non è stato ancora approvato in via definitiva e giace inerte in Commissione Igiene e Sanità a Palazzo Madama. Il disegno di legge introduce obblighi di trasparenza nei rapporti tra le aziende farmaceutiche e gli operatori sanitari. Il testo introduce il principio di trasparenza totale ed è all’avanguardia nel nostro paese. Forse troppo. Le aziende farmaceutiche saranno obbligate a pubblicare tutti i finanziamenti, diretti e indiretti, verso gli operatori sanitari, altrimenti pagheranno multe di 20 volte il valore dell’omessa dichiarazione.
Occorre l’accettazione culturale del fatto che, nel rispetto di trasparenza e leggi, possono esserci rapporti commerciali tra strutture sanitarie e aziende farmaceutiche
“Questo disegno fa un po’ fatica a decollare anche perché in Italia abbiamo un conflitto perenne tra trasparenza e privacy – rimarca Macchia – ma ci sono anche delle resistenze culturali con cui fare i conti. Se negli USA un’azienda farmaceutica dichiara in tutta trasparenza di aver dato dei soldi a un ospedale per un particolare progetto, nessuno si scandalizza. Da noi si scatenerebbe un putiferio e si griderebbe subito allo scandalo. In Europa c’era stato un tentativo da parte di EFPIA di realizzare un codice di trasparenza, ma appena avviato, la stampa ha fatto uscire subito articoli sensazionalistici e non se ne è fatto più nulla. Il punto è che occorre prima un’accettazione culturale del fatto che, nel rispetto della trasparenza e delle leggi, ci possono essere dei rapporti commerciali tra strutture sanitarie e aziende farma”.
Un concetto fatto proprio anche da REACT: “Sosteniamo la richiesta di approvare il Sunshine act, ma dall’applicazione della norma non deve derivare un fenomeno di ‘name and shame’, piuttosto bisogna rendere espliciti i rapporti economici fra enti privati ed enti pubblici. Mi pare che il rischio maggiore che emerge da una lettura macro di questi dati sia di una abdicazione nel sistema sanitario pubblico versus sistema privato. Confido che i progetti e le risorse del PNRR vadano nella direzione di rinforzare il sistema pubblico sanitario, che organizza le proprie cure non in termini di remuneratività ma nei termini costituzionali di cura universale delle persone”.