Autonomia differenziata: facoltativa e reversibile, ma rischia di aumentare il divario interregionale

Ecco come spiega in modo semplice l’autonomia differenziata, tra opportunità e rischi, l’Avvocato Vincenzo Salvatore (Studio BonelliErede)

Saranno le Regioni a poterla chiedere allo Stato su base volontaria e su tutte o solo alcune delle “materie di competenza concorrente”, sanità inclusa. Ottenerla significherà essere responsabili di gestire il finanziamento diretto per far funzionare meglio le cose. Sotto il controllo della Cabina di regia interministeriale. È l’opzione, non obbligata, a cui potranno ricorrere le Regioni. Ecco come spiega in modo semplice l’autonomia differenziata, tra opportunità e rischi, l’Avvocato Vincenzo Salvatore (Of Counsel e Leader del Focus Team Healthcare & Life Sciences di BonelliErede).

Avvocato Salvatore, l’autonomia differenziata è uno dei temi caldi che tiene banco in questi giorni nelle stanze della politica e nei talk show. Ci aiuta a capire di che si tratta esattamente?

Si tratta dell’attuazione di una norma della nostra Costituzione, che definisce tra l’altro le competenze dello Stato e quelle delle Regioni. L’articolo 116 indica che per le Regioni a statuto ordinario (restano quindi escluse quelle a statuto speciale Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige/Südtirol, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna, ndg) possono essere definite ulteriori forme di autonomia, chiarendo anche quali sono le modalità.

Significa che nelle materie di ‘competenza concorrente’ – trasporti, scuola, sanità – possono essere consentite alle Regioni che ne fanno richiesta forme di autonomia maggiore. Ciò si traduce nella possibilità di disporre direttamente delle risorse finanziarie ed economiche per gestire queste modalità di autonomia.

Attualmente le Regioni su queste materie ricevono risorse trasferite dallo Stato. Nel momento in cui alle Regioni viene riconosciuta la maggiore autonomia, esse gestiscono autonomamente le risorse.

Non è possibile attuare interventi discriminatori che penalizzino determinate categorie di cittadini

In sostanza si tratta dell’attuazione del Titolo V?

Sì. È il compimento di una norma che era rimasta inattuata. Il Titolo V indica quali sono le materie di competenza dello Stato e quelle di competenza concorrente sulle quali si può dare alle Regioni una maggiore autonomia. Un’autonomia di carattere organizzativo, che non deve attendere l’intervento dello Stato.

I fondi che vengono assegnati alle Regioni per la gestione autonoma delle materie concorrenti devono essere spesi in un certo modo? Ci sono forme di controllo?

Autonomia significa riconoscere la possibilità di diversificare l’organizzazione di servizi come i trasporti e la sanità. Il bilancio dello Stato avrà meno risorse perché le risorse restano alle Regioni che hanno richiesto e poi ottenuto la maggiore autonomia. Naturalmente bisogna assicurare che vengano garantiti i livelli essenziali di erogazione delle prestazioni (Lep), nel rispetto del vincolo istituzionale di solidarietà economica e sociale e di perequazione sociale.

Non è quindi possibile attuare interventi discriminatori che penalizzino determinate categorie di cittadini. La verifica dei Lep spetta alla Cabina di Regia istituita dall’ultima Legge di Bilancio, composta dai ministri dell’Economia, degli Affari Regionali, degli Affari Europei, delle Riforme e di quelli che per competenza riguardano le singole materie di competenza concorrente per le quali ciascuna Regione ha fatto richiesta.

Lei citava pocanzi i Lep (Livelli essenziali di prestazione). C’è differenza rispetto ai Lea (Livelli essenziali di assistenza) o la sanità ha fatto da apripista sin dalla loro istituzione nel 2001?

La sanità era già avanti. I Lea sono stati introdotti molto prima del Ddl sull’autonomia differenziata. I Lea rappresentano il modello per i Lep.

Anche se le Regioni hanno la volontà di organizzare autonomamente le modalità di erogazione dei servizi sanitari, ci sono alcuni principi essenziali che vanno garantiti a tutti. In sanità oggi si potrebbe parlare di Leps (Livelli essenziali di prestazioni sanitarie). Si tratta nientemeno che dei fabbisogni standard minimi che vanno garantiti nell’erogazione dei servizi. Anche sanitari.

L’autonomia delle Regioni nell’organizzazione dei servizi in base ai Lep non potrà giustificare un incremento di spesa

L’articolo 8 di questo Disegno di legge indica che l’autonomia differenziata non dovrà determinare alcun nuovo onere per la finanza pubblica. Che cosa significa esattamente?

Oggi il gettito tributario è legato all’espletamento di queste mansioni. Il gettito è dello Stato, che poi lo trasferisce alle Regioni. In futuro, con l’autonomia differenziata, il gettito resterà nelle casse delle Regioni. Ma l’autonomia delle Regioni nell’organizzazione dei servizi nel rispetto dei Lep non potrà giustificare un incremento di spesa

Abbiamo capito che aderire all’autonomia differenziata sarà quindi una scelta delle singole Regioni (a statuto ordinario) e per tutte o solo alcune delle materie di competenza concorrente.  In relazione alle funzioni in ambito sanitario, a suo avviso ci saranno Regioni che aderiranno e altre che non lo faranno? E con quali motivazioni?

A oggi le Regioni che hanno fatto richiesta di autonomia differenziata sono poche. In particolare quelle che hanno una maggiore capacità organizzativa: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. La Campania ci sta riflettendo.

Desidero precisare anche un altro aspetto importante: ottenere l’autonomia differenziata non è un processo irreversibile. È uno status che dura 10 anni. E si può tornare indietro nel caso ci si accorga che non si è raggiunta l’efficienza sperata nell’erogazione dei servizi. Difficilmente le Regioni che la otterranno sceglieranno di fare retromarcia. Ma lo Stato potrebbe contestare la maggiore autonomia alla luce del non raggiungimento dei Lep.

In altri termini, è presumibile che saranno poche le Regioni a chiedere l’autonomia differenziata perché sono poche quelle che storicamente possono contare su sistemi sanitari “virtuosi” e che ritengono di poter fare ancora meglio, organizzandosi autonomamente?

Esatto. Probabilmente non cambierà moltissimo in queste Regioni. Perché di fatto il servizio sanitario è già gestito a livello regionale.

Tuttavia, esperti di politica sanitaria e sindacati proprio in questi giorni lamentano il fatto che la potenziale adesione regionale all’autonomia differenziata accentuerà la distanza tra Regioni tradizionalmente più organizzate e quelle in cui la sanità continua a rappresentare una grande criticità politica e sociale. Secondo lei sarà così?

Astenendomi da valutazioni politiche, resta vero il fatto che l’autonomia differenziata crea un sistema diversificato. C’è il rischio reale che attraverso l’autonomia differenziata i cittadini che vivono in determinate Regioni siano avvantaggiati rispetto ad altri.

Conseguentemente, le Regioni più organizzate saranno sempre più attrattive per i cittadini che non vedono soddisfatti i propri bisogni di cure nella Regione di appartenenza, favorendo il fenomeno della mobilità sanitaria?

Sì. Le divergenze interregionali rischiano di aumentare, rafforzando le Regioni più ricche e capaci di organizzare i servizi in maniera moderna rispetto ad altre Regioni che rischiano di rimanere indietro e di accumulare ulteriori ritardi e inefficienze.

Lo status di autonomia differenziata dura 10 anni e può essere ridiscussa, dalla Regione che l’ha ottenuta o dallo Stato

Quali sono i prossimi passi e le relative tempistiche perché il Ddl diventi legge dello Stato?

Il Ddl è la conclusione di una procedura complessa. L’autonomia differenziata deve essere prima deliberata dalla Regione interessata. La deliberazione deve essere trasmessa al presidente del Consiglio e al ministro per gli Affari Regionali e poi valutata da tutti i ministri competenti compreso quello delle Finanze. Successivamente inizia il negoziato con la Regione, al termine del quale ci deve essere l’Ok del Consiglio dei ministri e la sua trasmissione alla Conferenza Stato-Regioni che deve emettere il suo parere. Se è favorevole il Ddl passa alle Camere. L’approvazione deve avvenire da entrambi i rami del Parlamento a maggioranza assoluta dei componenti: almeno 201 deputati alla Camera e almeno 101 senatori a Palazzo Madama.

I tempi per percorrere tutto questo iter dipendono dalla calendarizzazione parlamentare. Le maggioranze di Camera e Senato paiono abbastanza solide. Potrebbe arrivare a compimento in poco tempo, nell’ordine di poche settimane o pochi mesi. Il lavoro più impegnativo è quello che ha portato al Ddl di cui stiamo parlando.

Altra novità relativa all’iter approvativo riguarda il fatto che lo schema di intesa debba essere trasmesso immediatamente alla Conferenza unificata, e non dopo la sottoscrizione.

A quel punto lo schema di intesa preliminare viene trasmesso alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari, entro sessanta giorni dalla data di trasmissione dello schema di intesa preliminare, udito il Presidente della Giunta regionale. Viene quindi raddoppiata la tempistica rispetto ai 30 giorni previsti dalla precedente bozza. Lo schema di intesa definitivo dovrà quindi essere approvato dalla Regione; a quel punto, entro trenta giorni, sarà deliberato dal Consiglio dei ministri.

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