Emergenza Covid-19: l’80% delle aziende del settore non può soddisfare la domanda interna per mascherine e dispositivi medici

Confindustria a fianco delle aziende che decidono di riconvertirsi. Boggetti: “Ma non è semplice realizzare una mascherina. Il governo deve intervenire”

Il settore dei dispositivi medici in Italia sta vivendo un periodo di grande pressione: da una parte si raccolgono le forze per trovare produttori di mascherine (e non solo) che riescano a confezionare in tempi brevi articoli di qualità e soprattutto efficaci, dall’altra si chiede al Governo di appoggiare e tutelare economicamente le aziende che decidono di riconvertire. Il tutto esacerbato da un orizzonte sempre più vicino: l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2017/745 che regola i dispositivi medici, rinforzandone i requisiti innovativi e di sicurezza. In questo modo sarà necessario aumentare gli investimenti per immettere sul mercato questi prodotti: molte aziende, già provate oggi per questa epidemia, potrebbero non farcela.

Mancano i produttori di mascherine

Confindustria a fianco delle aziende che decidono di riconvertirsi

Tutto nasce dal fatto che in Italia la produzione di mascherine a uso medico (così come buona parte dei dispositivi medici di uso comune, come le garze) è quasi completamente esternalizzata. I produttori locali sono in realtà dei distributori di mascherine che sono prodotte in altri paesi, per mere ragioni di prezzo. Il settore dei dispositivi medici italiano è composto per l’80% di piccole e medie imprese che vivono soprattutto di export e non sono per ora in grado di soddisfare il fabbisogno del Paese. La logica con cui hanno lavorato le centrali di acquisto degli ospedali negli ultimi anni, volta a premiare il prezzo più basso, ha di fatto escluso il settore industriale italiano. E oggi si fanno i conti con questo depauperamento che può mettere in crisi il nostro Servizio Sanitario Nazionale.

Boggetti: “Ma non è semplice realizzare una mascherina. Il governo deve intervenire”

Che cosa si sta facendo in Italia

La Regione Lombardia con il consulente Guido Bertolaso da una parte, il Governo con il commissario Domenico Arcuri e la Protezione Civile dall’altra e, nel mezzo realtà come Confindustria Dispostivi Medici e il Politenico di Milano, stanno tutti lavorando assiduamente per trovare una soluzione alla carenza di mascherine. Da più parti, aziende tessili alzano la mano per dire che sono pronte a riconvertire, ma non basta la buona volontà per farcela.

Occorrono investimenti, occorre saper produrre questi dispositivi in modo corretto, occorre essere pronti per quando l’emergenza passerà e capire cosa farsene di questa riconversione: andare avanti a produrre mascherine, con il rischio che le centrali di acquisto tornino a preferire le produzioni estere a prezzi bassi, e quindi rischiando di rimanere a terra, oppure tornare alla produzione precedente, con tutti i costi e i rischi che ne conseguono?

La voglia di fare è molta, ma i dubbi sono ancora troppi. A sentire il presidente di Confindustria Dispositivi Medici, Massimiliano Boggetti, la situazione è frenetica, per usare un eufemismo: «Ci stiamo muovendo su diverse direttrici, per prima cosa stiamo lavorando come punto di contatto fra Istituzioni e aziende, facendo ricognizione delle disponibilità a magazzino dei dispositivi medici secondo i bisogni che ci hanno comunicato le istituzioni e stiamo dando al Ministero e alla protezione civile tutto quanto è disponibile. Stiamo cercando inoltre di mettere a sistema le nostre produzioni, vale a dire fare in modo che le aziende che hanno produzione residua possano aiutare, convertendo le loro fabbriche, a fornire il materiale di cui c’è bisogno».

Confindustria Dispostivi Medici sta lavorando anche per frenare eventuali impennate dei prezzi, una tentazione a cui potrebbero cedere diverse aziende: «Abbiamo stipulato un codice di comportamento che abbiamo fatto sottoscrivere alle imprese, in modo che continuino ad applicare gli stessi prezzi che proponevano prima dell’emergenza coronavirus».

La riconversione delle fabbriche

Per riconvertire le fabbriche ci vogliono però molti investimenti e non tutte le aziende oggi possono sostenerli. Le aziende italiane che hanno manifestato interesse a una riconversione per produrre mascherine sono circa 40. E a regime ne potrebbero produrre quotidianamente circa 600.000. La Lombardia ne ha bisogno al momento di 300.000 al giorno.

Ma queste aziende hanno essenzialmente due dubbi e finché questi non saranno chiariti, non riconvertiranno: dove troveranno i soldi per trasformare la produzione e come saranno tutelate una volta che l’emergenza sarà superata?

Sul primo dubbio Boggetti è in prima linea per chiedere aiuti economici concreti al governo, necessari ed urgenti per avviare le riconversioni. Ma il secondo dubbio è ancora più forte del primo e, se non arriveranno sufficienti rassicurazioni da parte del Governo, le riconversioni potrebbero non partire, nonostante gli eventuali aiuti economici che potrebbero arrivare da Roma.

«Abbiamo chiesto al Governo di intervenire in questo senso – riprende il Presidente di Confindustria Dispostivi Medici – ma ancora non abbiamo ottenuto risposta. Sto cercando in queste ore di mettermi in contatto anche con il commissario Domenico Arcuri (nominato dal governo per gestire l’emergenza coronavirus, ndr) ma ancora non ci sono riuscito».

Alcune aziende potrebbero essere pronte a produrre in una decina di giorni. Ma fra dieci giorni altri Paesi europei, dove si trovano produttori di mascherine, potrebbero essere nel pieno dell’emergenza Coronavirus, come ci troviamo noi adesso, e potrebbero decidere (alcuni lo hanno già fatto) di bloccare le esportazioni verso il nostro paese: a quel punto, l’Italia non riceverebbe più prodotti, perché quei Paesi li terrebbero per far fronte alla loro emergenza.

«Bisogna prendere una decisione adesso – insiste Boggetti – Noi siamo pronti a fare la nostra parte, ma la politica deve assumersi la responsabilità di chiarire questi dubbi. E lo deve fare adesso, altrimenti rischia di essere troppo tardi. Tergiversare ancora sarebbe grave e inaccettabile».

Sono circa 40 le aziende italiane interessate alla riconversione per produrre mascherine

Realizzare mascherine non è facile

Un altro aspetto su cui non c’è molta attenzione, ma che invece è cruciale è la produzione stessa di mascherine: si tratta di dispositivi complessi, che devono essere realizzati secondo certe procedure, non basta un tessuto di qualità per avere una mascherina capace di bloccare i contagi.

«Per questo motivo – aggiunge il presidente di Confindustria Dispositivi Medici – abbiamo lavorato con l’Istituto Superiore di Sanità per realizzare una scheda tecnica con tutte le caratteristiche che devono avere le mascherine per poter essere efficaci. Perché i dispositivi medici sono articoli che devono essere realizzati in un certo modo, e soprattutto funzionare. So di alcune aziende tessili che vorrebbero mettersi a realizzare mascherine, dobbiamo fare attenzione perché rischiamo di investire soldi in cose che poi non funzionano. Sarà l’Istituto Superiore di Sanità a controllare che le aziende producano le mascherine in modo corretto».

Altro aspetto da non trascurare: delle 40 aziende che si sono dette disponibili a riconvertire, quante poi alle fine ce la faranno ad essere effettivamente operative? Boggetti allarga le braccia: «Adesso non possiamo saperlo. La riconversione è una cosa complessa, spesso in queste realtà mancano le competenze. Un’azienda mi ha chiamato chiedendomi dove avrebbe potuto trovare le materie prime, per intenderci. Bisognerà capire quante aziende riusciranno veramente a riconvertirsi, quante mascherine riusciranno veramente a produrre, quante supereranno i controlli qualitativi e quante risulteranno idonee ai controlli ispettivi dell’Istituto Superiore di Sanità».

Sarà l’Istituto Superiore di Sanità a controllare che le aziende producano le mascherine in modo corretto

Il Sistema Sanitario Nazionale dovrà cambiare

Quando l’emergenza sarà finita, la gestione degli approvvigionamenti, ma anche la stessa gestione del Sistema Sanitario Nazionale dovrà per forza cambiare: «In questi anni in Italia – sottolinea Boggetti – per quanto riguarda l’ambito dei dispositivi medici, ma l’esempio si potrebbe applicare anche ad altri settori, l’offerta è stata un po’ mortificata dalla domanda. Mi spiego meglio: se il Governo italiano decide di affidare a centrali di acquisti gli approvvigionamenti per tutte le regioni e per un periodo di sei -sette anni, è ovvio che così facendo si tagliano via tutte le piccole e medie imprese che rappresentano il tessuto industriale italiano, privilegiando grandi gruppi che fanno leva sulle economie di scala e sul prezzo».

Quello che è mancata è una visione strategia e politica che mettesse al centro la salute del cittadino e che vedesse nella white economy (il settore privato della salute), un ambito strategico che potesse rappresentare il made in Italy. Secondo alcune analisi svolte nel 2018, la white economy contribuisce al Pil nazionale per il 10,7%, dando lavoro a oltre 2,4 milioni di persone (circa il 10% dell’occupazione complessiva).

Il problema, ribadito da più parti, è che la salute non ha mai rappresentato un argomento davvero interessante per il Governo, questo e quelli passati. Si è lavorato molto per definire il payback farmaceutico, per centralizzare gli acquisti, ma non si è mai manifestato interesse in un settore così strategico come la salute.

Il Regolamento europeo per i dispositivi medici potrebbe peggiorare la situazione

In tutto questo scenario, chi oggi produce dispositivi medici deve fare i conti con una scadenza importante: il 26 maggio 2020, tra due mesi, sarà pienamente operativo il Regolamento (UE) 2017/745 relativo ai dispositivi medici, entrato in vigore il 25 maggio 2017 e che ha dato tempo tre anni alle aziende per organizzarsi. Il regolamento modifica la direttiva 2001/83/CE, il regolamento (CE) n. 178/2002 e il regolamento (CE) n. 1223/2009 e abroga le direttive 90/385/CEE e 93/42/CEE del Consiglio.

Le novità più importanti mirano a rinforzare la sicurezza del paziente e il contenuto innovativo dei dispositivi, ma si prevede inoltre:

  • la creazione di una banca dati europea per i dispositivi medici (Eudamed)
  • la trasparenza e tracciabilità dei dispositivi
  • la definizione e gli obblighi per tutti gli operatori economici
  • la nuova figura del “Responsabile del Rispetto della Normativa”
  • la supervisione degli organismi notificati (società terze accreditate dalle Autorità Europee competenti per condurre audit ai produttori di dispositivi medici e ai loro prodotti e sistemi)
  • la valutazione clinica
  • la sorveglianza post- commercializzazione
  • il piano di Post Market Clinical Follow Up (PMCF)

Queste nuove disposizioni, se da una parte contribuiscono a migliorare la normativa e ad elevare gli standard qualitativi per i dispositivi medici, richiederanno per la loro reale applicazione investimenti, in termini di tempo e di persone da impiegare.

«Il nuovo regolamento è un’opportunità – sottolinea Boggetti – perché rafforza la sicurezza del paziente e dell’operatore. Questo benché già esistano sistemi molto attenti come la marchiatura CE dei dispositivi medici. Ogni volta che si rafforza l’innovazione dei nostri prodotti, noi che viviamo di innovazione, non possiamo che essere contenti. Alla luce di quello che sta succedendo oggi c’è però una certa preoccupazione, non lo nascondo, perché il sistema regolatorio imporrà maggiori costi per immettere i prodotti sul mercato. Le aziende di dispositivi medici che già oggi versano in difficoltà per fronteggiare questa crisi, potrebbero uscire stremate da questa emergenza. Dover affrontare ulteriori spese per applicare il nuovo regolamento potrebbe significare la morte per alcune di loro. Abbiamo chiesto un prolungamento del regolamento però adesso, in questa emergenza del Covid-19, si fa fatica a trovare un interlocutore che possa seguire la questione».

Nonostante i cambiamenti introdotti dal Regolamento europeo, rimane invariato il percorso per stabilire la conformità e ottenere la marcatura CE necessaria ad accedere ai mercati europei. In questa corsa a realizzare le mascherine in tempi utili, quello che probabilmente salterà sarà proprio la certificazione CE perché non ci sono i tempi tecnici per ottenerla. Ciò significherà saltare step importanti, dalla predisposizione del sistema di gestione qualità della mascherina, al fascicolo tecnico fino all’audit necessaria presso l’organismo notificato per dimostrare la conformità del dispositivo. Si salterà tutto. Perché siamo in emergenza.

«Non dobbiamo però lavorare sempre in questo modo – conclude Boggetti – se il nostro Paese vuole strutturarsi per saper fronteggiare situazioni di questo tipo in futuro, c’è tanto lavoro da fare e decisioni politiche importanti da prendere. Una di queste è tornare a mettere la salute dei cittadini al centro dell’agenda politica».

Può interessarti

Angelica Giambelluca
Giornalista professionista in ambito medico