Il procurement in sanità: due pareri sul sistema italiano

Le interviste a Rosaria Iardino (Fondazione The Bridge) e a Gianluca Trifirò (Università di Messina)

Il procurement in sanità è un sistema complesso e sempre in evoluzione, alla continua ricerca di un equilibrio tra la sostenibilità economica e l’accesso all’innovazione. Il nuovo codice degli appalti e la legge di bilancio 2017 hanno rappresentato due momenti di svolta importanti per un settore che chiama in causa una pluralità di professioni e di punti di vista. In virtù di questa natura multidisciplinare e per far emergere spunti di riflessione diversi da quelli solitamente rappresentati quando si legge di accesso al mercato e all’innovazione, in questo numero abbiamo chiesto un parere sulla situazione italiana a Rosaria Iardino, Presidente della Fondazione The Bridge, che si occupa di sviluppare progetti di intervento in ambito sociale e sanitario dando voce anche alle esigenze dei pazienti, e a Gianluca Trifirò, Professore Associato di farmacologia presso l’Università di Messina ed esperto di farmacoepidemiologia.

Intervista a Rosaria Iardino

Procedure pubbliche di acquisto, efficienza ed economicità degli appalti pubblici, accessibilità dei farmaci ai pazienti: qual è la situazione attuale, dal suo punto di vista?

Io penso che nel nostro Paese ci sia una buona regolamentazione: il nuovo codice degli appalti, ad esempio, ha riportato nell’ambito delle procedure di acquisto della pubblica amministrazione, e in particolare della sanità, un criterio di selezione che tiene conto di una visione terapeutica più complessa, che non si limita a considerare il minore costo di acquisto ma si rivolge al valore del prodotto. Questo approccio non può che essere il benvenuto, anche se ci sono ancora elementi di discrezionalità e di soggettività che possono rappresentare un ostacolo all’applicazione uniforme della normativa. Ad esempio, uno dei problemi riguarda il fatto che non sono chiaramente definiti gli aspetti che determinano il valore del prodotto. Sicuramente è determinato dalla capacità terapeutica, probabilmente anche dal costo di acquisto, ma ci sono altri elementi che potrebbero avere un ruolo in questa valutazione e che non sono stati esplicitati nel codice. A mio parere, uno degli indicatori da considerare potrebbe essere che cosa genera quel tipo di farmaco non in termini terapeutici ma in termini di contributo alla ricerca nei luoghi in cui quel farmaco viene utilizzato.

Inoltre non bisogna dimenticare che la spesa sanitaria in Italia è in capo alle Regioni che, tramite i loro enti appaltanti, hanno anche la responsabilità di istituire le gare per gli acquisti centralizzati: in mancanza di indicazioni specifiche sui criteri per la valutazione del valore di un prodotto, le Regioni tendono a prediligere il criterio della convenienza economica, data la loro necessità di non sforare i tetti di spesa fissati per legge. Nella nostra esperienza, però, il ricorso al solo criterio economico molto spesso viene contestato dalle aziende farmaceutiche che non risultano aggiudicatarie, generando così tutta una serie di ricorsi al TAR.

Secondo me, a livello di governo centrale c’è stata la buona volontà di ritornare, giustamente, a ragionare sul valore della qualità. Ma dall’altra parte le Regioni, forti della loro autonomia e in mancanza di uno schema certo per la definizione del valore del prodotto, assumono decisioni che dipendono dalla loro possibilità di pagatore, che varia in base alla situazione economica della Regione, tra enti che hanno i conti in rosso ed enti più virtuosi. Tutto ciò, in un clima di implosione generale del comparto salute, che genera un’attenzione sempre molto alta sul contenimento dei costi, anche laddove i conti della Regione risultino a posto al momento attuale.

La peculiarità del sistema sanitario italiano è anche questa: la presenza di numerosi attori che, a volte, sembrano avere priorità diverse.

In effetti, la situazione è piuttosto complessa e spesso si genera confusione. Anche a livello parlamentare, a volte possiamo riscontrare una sorta di “schizofrenia”, come sembra avvenire ad esempio rispetto all’introduzione dei farmaci biosimilari: da una parte, si riducono le risorse dedicate al comparto della salute, e il farmaceutico è un settore particolarmente colpito dai tagli, dall’altra parte si introducono norme, come il comma 407 della scorsa legge di bilancio, che impediscono la sostituibilità automatica dei farmaci.

In questo panorama, chi paga più pesantemente il prezzo di questa incertezza è, alla fine, la comunità dei pazienti, soprattutto quando si tratta di farmaci particolarmente costosi. La questione non riguarda solo il singolo paziente che, essendo già in terapia con un farmaco biologico originator, non viene indirizzato a una terapia meno costosa ma ugualmente efficace con il biosimilare corrispondente, ma l’intera comunità di pazienti. La domanda che io pongo è la seguente: quale danno comporta per la comunità dei pazienti il fatto di non cogliere l’opportunità di poter avere a disposizione un farmaco che costa il 30% in meno e allargare la platea dei pazienti che possono riceverlo? Non tutti i pazienti che dovrebbero essere trattati con i farmaci biologici ricevono un trattamento adeguato, e questo, molto spesso, avviene proprio a causa del costo elevato della terapia.

E inoltre, dal punto di vista etico, io mi chiedo perché un’azienda farmaceutica, che legittimamente sostiene degli investimenti economici ed è garantita da norme internazionali che regolano i brevetti, non possa avere la consapevolezza che, alla scadenza del brevetto, il suo ciclo di utili è finito e che quindi deve restituire, anche al settore pubblico, l’opportunità di risparmiare, avendo farmaci di pari efficacia.

È vero comunque che l’incertezza rappresenta un ostacolo anche per le aziende, siano esse di originator o di biosimilari: quando scade la protezione brevettuale, le aziende dovrebbero essere messe in condizione di elaborare un piano industriale sulla base di una prospettiva realistica degli sviluppi del mercato, che a loro volta sono condizionati e determinati dalle normative del settore. In mancanza di una regolamentazione chiara e affidabile anche sul lungo periodo, e con la sovrapposizione di alcuni poteri, il settore non può che essere caratterizzato da un diffuso conservatorismo.

Secondo lei, come si potrebbe affrontare il discorso della razionalizzazione della spesa farmaceutica, per favorire un migliore accesso alle terapie?

Innanzitutto vorrei sottolineare come il paziente, spesso, non venga messo al centro di questo discorso, ma piuttosto “tirato per la giacchetta” dall’industria del farmaco originator e anche da alcune società scientifiche, per convinzione o per opportunismo. Fondamentale è invece, nel rapporto con il paziente ma non solo, poter avere accesso a tutte le informazioni che sono disponibili: uno dei metodi per “orientare” un’azione è proprio quello di fornire delle informazioni parziali. In questo modo i soggetti, ad esempio i pazienti o gli attivisti, agiscono legittimamente in base a quello che loro sanno, ma che non costituisce la totalità delle conoscenze in merito a un determinato argomento.

Con la Fondazione The Bridge l’anno scorso abbiamo portato avanti in diverse Regioni un progetto complesso sui biosimilari che ha coinvolto i pagatori regionali, i clinici e le associazioni di pazienti, tutti riuniti in piccoli “think tank” dedicati ad alcuni temi di discussione chiusa, con l’obiettivo non di trasmettere la verità, ma di presentare la situazione in maniera laica. In questi incontri sono emerse le contraddizioni del sistema normativo, le posizioni di società scientifiche e di associazioni dei pazienti, sono stati spiegati i processi, sono stati messi in evidenza i punti critici e si è provato a discuterli insieme. In alcuni casi le posizioni di partenza, specialmente delle associazioni dei pazienti, potevano definirsi quasi “talebane” ma, al termine degli incontri, le nostre preoccupazioni sono state comprese. In generale, questo lavoro di confronto e informazione è stato molto apprezzato, tranne forse in una Regione dove il conservatorismo della classe medica è un po’ più radicato. Inoltre abbiamo notato che non sempre le posizioni adottate risultano coerenti: ad esempio, se si decide di considerare come faro di riferimento per le decisioni da prendere le linee guida di una società scientifica, tale scelta dovrebbe essere confermata anche se entra in vigore un articolo della legge di bilancio che afferma un principio diverso dalle linee guida. Nel nostro caso, il faro che prendiamo a riferimento sono le pubblicazioni scientifiche e le agenzie regolatorie; si può anche decidere che l’indicatore da seguire sono invece le leggi del Parlamento, ma senza dimenticare che il Parlamento fa politica e non scienza.

Nelle procedure pubbliche di acquisto e nelle gare, c’è uno spazio per poter considerare le istanze delle associazioni dei pazienti o di enti come la vostra Fondazione?

Come è noto, la stesura dei bandi gara è in capo ed è responsabilità delle agenzie che devono istituire le gare e scrivere i bandi; altrimenti si configurerebbe un conflitto di interesse, un abuso. Noi svolgiamo un ruolo più “culturale”, elaborando tramite il Centro Studi della Fondazione dei Position Paper su diversi argomenti e rendendoli pubblici. Il nostro compito non è influenzare ma informare, mettere in evidenza le criticità affinché chi ha il potere e la responsabilità di definire delle linee di programmazione, anche di acquisto, non possa dire domani «Noi non lo sapevamo».

È anche vero però che non si può partire dalle Regioni: il problema è centrale, è a monte. Ad esempio, nel momento in cui l’Autorità Nazionale Anticorruzione emana un ottimo regolamento di vigilanza sui contratti pubblici, a seguito della riforma del Codice degli appalti, che è omnicomprensivo ma che non chiarisce in modo chiaro e univoco quali siano le procedure, diventa difficile chiedere conto alle Regioni del loro operato. E la situazione si complica quando un’azienda si vede esclusa da una gara e fa ricorso: in Italia, in attesa del giudizio del Tribunale, si ripristina la procedura di acquisto precedente al bando. Così il ricorso può diventare, per le aziende che avevano già vinto in precedenza l’appalto, un modo per estendere la fornitura del proprio prodotto per un altro anno (questi sono, più o meno, i tempi del ricorso). È un meccanismo inaccettabile, sul quale intervenire. Sarebbe più opportuno, per l’interesse comune e come avviene in altri Paesi, che in caso di ricorso gli eventuali correttivi venissero adottati dopo il giudizio del Tribunale: se chi ha fatto ricorso ha ragione, allora la gara deve essere assegnata al ricorrente; se invece ha torto, deve anche pagare le spese. Per quanto riguarda le decisioni in merito a quale farmaco deve essere erogato, mi preme ribadire il ruolo fondamentale della nostra Agenzia Italiana del Farmaco, che ha tutta la capacità e la competenza per effettuare le valutazioni che garantiscono un impiego appropriato e sicuro dei farmaci. In qualche caso ci si potrebbe aspettare dall’AIFA una presa di posizione un po’ più netta, come ad esempio sui biosimilari. Però ritengo che sarebbe veramente dannoso pensare di affidare alle singole Regioni, in autonomia, l’attività regolatoria sui farmaci, che comprende anche la definizione del prezzo e del regime di dispensazione o rimborsabilità. Se ogni Regione dovesse legiferare per conto proprio, noi avremmo la stessa molecola con 20 soluzioni differenti. E questo costituisce un vero pericolo. Perciò, l’AIFA non è un ostacolo, l’AIFA è un’opportunità.

Per approfondimenti

Fondazione The Bridge: www.fondazionethebridge.it

Position Paper Fondazione The Bridge sui Biosimilari: www.fondazionethebridge.it/position-paper-biosimilari

Intervista a Gianluca Trifirò

Procedure pubbliche di acquisto, efficienza ed economicità degli appalti pubblici, accessibilità dei farmaci ai pazienti: qual è la situazione attuale, dal suo punto di vista?

Nell’ultimo anno ci sono state novità interessanti, a livello normativo, per quanto riguarda le procedure pubbliche di acquisto: innanzitutto il nuovo codice degli appalti e quindi la legge di bilancio 2017. Con questo secondo provvedimento, in particolare, lo scenario è un po’ cambiato e sono stati introdotti degli elementi che, a mio parere, sono molto positivi, anche se, ovviamente, ci sono aspetti sui quali invece è necessario ancora confrontarsi. Per quanto riguarda le note positive, mi riferisco soprattutto all’obbligo, per l’ente appaltante, di riaprire il confronto concorrenziale entro 60 giorni dall’immissione in commercio di un farmaco biosimilare contenente lo stesso principio attivo di un farmaco originatore che si è aggiudicato una gara. Il vincolo temporale dei 60 giorni costituisce una novità fondamentale e può comportare notevoli vantaggi per l’accesso al mercato e la disponibilità per i pazienti. Mentre in passato, soprattutto nella fase iniziale della commercializzazione dei farmaci biosimilari, di fatto c’era una notevole latenza tra l’immissione in commercio del biosimilare e l’effettivo beneficio economico ottenibile alla luce di un uptake significativo del biosimilare, oggi, avendo una normativa che prevede un accordo-quadro anche per i biosimilari e l’obbligo di aprire una nuova gara entro 60 giorni in caso di arrivo sul mercato di un nuovo farmaco, l’impatto di questo cambiamento può diventare significativo e misurarsi in tempi più brevi. Ad esempio, quando sono stati commercializzati i primi biosimilari della somatropina e della epoetina alfa, di fatto, per i primi anni, ben pochi si sono accorti della novità. Il vincolo temporale che obbliga alla riapertura delle gare facilita, quantomeno, la presa in considerazione dei biosimilari che, giocoforza, con la loro stessa presenza sul mercato, vanno a innescare un effetto di riduzione dei prezzi anche a livello dei farmaci originatori.

La legge di bilancio 2017 prevede l’obbligo di predisporre un lotto unico di gara in base all’ATC di V livello, con il medesimo dosaggio e via di somministrazione. Lei che cosa ne pensa?

Innanzitutto vorrei dire che su questo tema è difficile generalizzare, perché si possono presentare situazioni molto differenti tra loro. A mio modo di vedere, è insindacabile che le gare vengano svolte per principio attivo, e quindi che i lotti di gara vengano costituiti in base all’ATC di V livello e non in base alla classe, perché nell’ATC di IV livello possono essere compresi anche farmaci che, pur essendo della stessa classe, non sono comparabili o non hanno le stesse indicazioni d’uso. Questo discorso deve essere affrontato però da due punti di vista, cercando di armonizzarli: da una parte c’è l’aspetto legato puramente alla procedura d’acquisto, alla configurazione della gara che, giustamente, prende in considerazione il lotto unico, con lo stesso principio attivo. Dall’altra parte, c’è un aspetto più “culturale”, legato al confronto di classe, che deve essere affrontato attraverso il dibattito scientifico basato sui dati di letteratura e sulle esperienze cliniche e che, laddove non vi siano differenze significative in termini soprattutto di efficacia, sicurezza e compliance, può portare all’elaborazione di provvedimenti regionali che, senza andare in contrasto con la legge nazionale, possono avere l’obiettivo di favorire l’utilizzo di un farmaco dal costo minore all’interno di una stessa classe farmacologica.

In questa direzione si è mossa, ad esempio, la Regione Sicilia che, con il decreto n. 540 del 2014, ha stabilito l’obbligo per il medico prescrittore di fornire una relazione contenente la motivazione della sua scelta quando ritiene di dover utilizzare in un determinato paziente naive un farmaco biologico originatore o biosimilare che non sia quello a minor costo dentro la stessa classe. Pur non introducendo nessun limite alla prescrivibilità e alla rimborsabilità dei farmaci, la Regione chiede così un atto di responsabilità ai medici, con l’obiettivo ultimo di razionalizzare la spesa farmaceutica, garantendo comunque le migliori terapie disponibili al paziente.

Però, al di là delle gare e dei provvedimenti regionali, quello che mi preme sottolineare è che il nostro obiettivo finale è l’ottimizzazione della spesa farmaceutica e, da nostre esperienze documentate e da studi internazionali, emerge chiaramente che focalizzare la discussione solo ed esclusivamente sul costo ci fa perdere di vista un aspetto molto importante dal punto di vista clinico ma anche con ingenti ricadute economiche, e cioè l’appropriatezza prescrittiva del farmaco, che sia originator o biosimilare. In passato, molto spesso, il dibattito si è polarizzato sul tema “biosimilari sì/biosimilari no”, con la preoccupazione di utilizzare quello che costava meno, dimenticando che l’aspetto più rilevante è far sì che questi farmaci siano utilizzati al meglio. Ad esempio, noi abbiamo documentato che il risparmio ottenibile favorendo l’utilizzo del biosimilare dell’epoetina alfa, soprattutto in quelle Regioni dove già ha raggiunto dei livelli importanti, sarebbe sicuramente inferiore a quanto risparmieremmo se utilizzassimo al meglio tutte le epoetine (biosimilari ed originator) presenti sul mercato. Questo può imputarsi alla presenza di due fenomeni che abbiamo riscontrato nella pratica. Innanzitutto, la scarsa presa in considerazione dell’assetto marziale valutato tramite saturazione della transferrina: se le epoetine vengono prescritte in pazienti che non presentano una buona saturazione della transferrina, verosimilmente sarà necessario utilizzare dosaggi più alti di epoetina per avere lo stesso effetto, con un ovvio impatto sui costi ma anche sui rischi legati alle più alte concentrazioni ematiche di questo farmaco. Secondariamente, abbiamo registrato una probabile sovraprescrizione di epoetine in alcune aree geografiche, proxy di malpractice, confrontando la prevalenza d’uso di epoetina, standardizzata per età e sesso, in diverse ASL e Regioni utilizzando dati di real-world: è improbabile che una prescrizione 4 volte maggiore di epoetine in un’area geografica rispetto a un’altra sia giustificata esclusivamente da un differente burden di patologia della popolazione sottostante.

Questa è, sì, una nota a margine sul tema del contenimento della spesa farmaceutica, ma deve essere inserita e tenuta ben presente: non possiamo pensare di risolvere tutti i problemi di economia sanitaria solo con le gare d’acquisto e con normative sempre più stringenti, dobbiamo approcciare il problema con diversi strumenti e puntare a ottimizzare l’uso dei farmaci in generale attraverso la continua educazione e formazione dei professionisti sanitari e, laddove necessario, anche dei pazienti al corretto utilizzo delle risorse sanitarie.

In questo senso, lei vede un ruolo anche per le ricerche cliniche post-marketing?

Assolutamente sì, e ne sono molto convinto. Le valutazioni post-marketing, i famosi dati di real-world, sono fondamentali innanzitutto in una fase preliminare, per supportare e indirizzare le procedure e i procedimenti che vengono presi a livello regolatorio, eventualmente anche per istruire una gara, nonostante in questo caso i margini d’azione siano piuttosto ristretti. Inoltre sono indispensabili anche in una fase successiva, per monitorare quale è stato l’effetto del provvedimento adottato. Ad esempio, è possibile valutare tramite l’analisi dei dati reali quali sono stati gli esiti di una gara o dell’applicazione di una normativa, quali sono stati i consumi, se e come è cambiata la spesa farmaceutica, ma non solo: oltre al fattore relativo ai consumi e alla spesa, che è un indicatore piuttosto grezzo dell’utilizzo di un farmaco, tramite i dati reali è possibile analizzare anche se gli esiti di una gara, o di un altro provvedimento normativo, hanno generato delle ricadute in termini di appropriatezza prescrittiva o switch terapeutico e, in ultima battuta, su esiti clinici.

In particolare, sarebbe interessante, a mio parere, proprio in merito alla legge di bilancio 2017, riuscire a valutare, in tempi non eccessivamente lunghi, se e come è stato raggiunto l’obiettivo di razionalizzazione della spesa farmaceutica che era stato posto, verificando se davvero l’utilizzo di farmaci a minor costo è stato incentivato.

Nella sua esperienza, come viene gestito l’accesso ai dati di real-world nel nostro Paese?

Io credo fortemente nell’utilità dei dati di real-word ottenuti attraverso le valutazioni post-marketing, tanto è vero che sono stato il promotore di un master universitario di II livello su “Farmacovigilanza, Farmacoepidemiologia e Farmacoeconomia” dell’Università di Messina, alla sua seconda edizione, che ha proprio come obiettivo quello di fornire conoscenze teoriche ed esperienze pratiche in merito all’utilizzo di dati di real-world derivati da banche dati sanitarie per le valutazioni sulle terapie farmacologiche in real-life.

È chiaro che, data la natura regionalistica del nostro Servizio sanitario nazionale, la generazione dei dati, soprattutto dei flussi amministrativi, è compartimentata per Regioni, a volte anche per ASL. In questo panorama, c’è una grande eterogeneità a livello nazionale sulla percezione del valore dei flussi amministrativi dal punto di vista scientifico ma anche come possibile supporto ai provvedimenti loco-regionali e nazionali. Con alcune Regioni e ASL che hanno percepito prima di altre l’esigenza di analizzare questi dati in maniera critica e scientifica, noi stiamo già collaborando in modo fattivo e abbiamo firmato delle convenzioni che ci permettono di utilizzare le informazioni delle loro banche dati sia per supportare le strutture sanitarie nell’adempimento degli obblighi di legge correlati alla valutazione dell’appropriatezza prescrittiva, dei consumi e per lo sviluppo di indicatori, sia per implementare studi di valenza scientifica, che vengono disegnati e condotti seguendo scrupolosamente tutti gli standard previsti nell’etica della ricerca, a partire dall’approvazione da parte dei Comitati Etici, dal rispetto della normativa della privacy e dalle norme che riguardano la trasparenza nei finanziamenti pubblici e privati.

E inoltre la stessa possibilità di accesso ai dati varia in maniera consistente tra le diverse Regioni e ASL, e spesso, in mancanza di una normativa unica, gli accordi e i progetti si sviluppano basandosi esclusivamente sulla credibilità e sull’affidabilità dei rapporti professionali esistenti tra i singoli che, nella maggior parte dei casi, appartengono all’Università da un lato e alle Regioni e Istituzioni dall’altro.

Ancora oggi, quindi, ci troviamo in una situazione che fa registrare un gap tra il mondo scientifico, che ha sviluppato le competenze per gestire i dati di real-world, e il mondo regolatorio e istituzionale, che in teoria dovrebbe trasformare questi dati in provvedimenti o linee di indirizzo a livello regionale e nazionale, ma non sempre è nelle condizioni di poterlo fare.

A mio parere, per colmare questo gap, la strada deve passare da una partnership tra pubblico e privato mediata dalle accademie: questo è un tema che va affrontato, in maniera molto equilibrata e senza timore, perché rappresenta un’opportunità che noi oggi non stiamo cogliendo, o cogliamo solo in parte. In questo senso è fondamentale formare le professionalità che siano in grado di utilizzare questi dati, e a questo obiettivo stiamo lavorando proprio attraverso il Master di cui parlavo prima, che intende favorire dei percorsi attraverso i quali chi acquisisce queste professionalità e lavora soprattutto in centri accademici qualificati sia anche in grado di progettare e facilitare partnership tra pubblico e privato con l’obiettivo di valutare gli aspetti relativi al management farmacologico di alcune patologie di interesse generale e che possono avere delle valenze sia per i privati, come oggetto di investimenti, sia per il pubblico.

Per approfondimenti

Master Universitario di II Livello “Farmacovigilanza, Farmacoepidemiologia e Farmacoeconomia: valutazioni tramite utilizzo di real world data”: www.unime.it/it/laureati/master-e-corsi-di-perfezionamento-aa-201718

D.A.540/14. Misure volte a promuovere l’utilizzo dei farmaci originatori o biosimilari a minor costo di terapia. Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana n. 16 del 18 aprile 2014

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