Si calcola che il Long Covid colpisca tra il 10 e il 30% delle persone che hanno avuto l’infezione da SARS-CoV2, anche nella sua forma asintomatica. Riconosciuto ormai come un disturbo a sé, il Long Covid (o Pasc, come sarebbe più corretto chiamarlo, Post-acute sequelae of Covid-19) è caratterizzato da oltre 200 sintomi che si protraggono per diversi mesi dalla guarigione dal Covid-19.
Stanchezza cronica, difficoltà a concentrarsi e a ragionare, dolori muscolari, problemi respiratori e depressione sono tra le conseguenze più frequenti in chi soffre di questa “coda lunga”. Tra gli aspetti più infidi, il fatto che i sintomi siano aspecifici e dunque si possano confondere con altre patologie e che, nello stesso paziente, possano variare nel tempo.
Dopo i primi mesi in cui i clinici hanno sottovalutato quanto riportato dai pazienti, invitandoli a riposarsi e a riprendersi dal trauma, a poco a poco gli studi scientifici hanno dimostrato che i sintomi descritti erano tutt’altro che capricci o condizioni passeggere: “Dalle autopsie delle persone che hanno avuto il Covid, si è visto come questo virus vada ovunque nel nostro corpo. La verità è che non siamo in grado di prevedere le conseguenze che questo potrà avere tra vent’anni”.
Dalle autopsie delle persone che hanno avuto il Covid, si è visto come questo virus vada ovunque nel nostro corpo. La verità è che non siamo in grado di prevedere le conseguenze che questo potrà avere tra vent’anni
Agnese Codignola è una giornalista scientifica laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche che ha appena pubblicato per Utet “Il lungo Covid: la prima indagine sulle conseguenze a lungo termine del virus” in cui ripercorre ciò che sappiamo del Long Covid, le analogie con le sequele lasciate da altre pandemie del passato e che cosa possiamo fare per fronteggiare al meglio questo compagno che starà con noi nei prossimi anni. Il volume è stato presentato all’ultimo Salone del Libro di Torino.
“Non è un disturbo legato alla gravità dell’infezione acuta da Covid, ma è una conseguenza probabilmente di tipo autoimmune che può manifestarsi in tanti modi diversi”, afferma la giornalista. Le ipotesi sul tavolo sono infatti quattro:
- il Long Covid potrebbe essere la conseguenza di danni secondari provocati dall’infezione
- la risposta a SARS-CoV2 potrebbe risvegliare altri virus già presenti nell’organismo
- il sistema immunitario, profondamente sconvolto dall’aver avuto a che fare con un virus mai incontrato prima, potrebbe non riuscire più a tornare alla normalità;
- nell’organismo potrebbero rimanere frammenti di genoma virale o di virus in quantità molto bassa (non rilevabile dai normali tamponi) che continuano però ad alimentare una risposta.
Un ambulatorio post-Covid19
Finora la gestione del Long Covid in Italia è stata lasciata alla buona volontà delle strutture sanitarie, alcune delle quali si sono organizzate in autonomia per rispondere ai bisogni dei pazienti. Al momento infatti non esistono indicazioni precise su come trattare chi presenta sintomi invalidanti dopo essere guarito dal Covid.
“Noi abbiamo attivato fin da subito un ambulatorio post-Covid19 – spiega Patrizia Rovere-Querini, direttrice del programma strategico di Integrazione Ospedale-Territorio e responsabile dell’hot spot Covid-19 dell’Irccs Ospedale San Raffaele – Nella primavera del 2020, non appena abbiamo registrato una lieve flessione delle ospedalizzazioni, abbiamo richiamato tutti i pazienti Covid che erano stati visitati in Pronto soccorso o ricoverati in reparto, per verificare come stessero”.
Con il passare delle settimane, l’attività si è concentrata solo sui pazienti ospedalizzati, a causa degli alti numeri. Il San Raffaele invitava a una visita di follow-up da effettuarsi entro un mese dalla dimissione. “Nella stessa mattinata venivano visti da un internista, facevano un ECG, un test del cammino, un eco polmone, veniva risistemata la terapia medica che spesso era stata cambiata durante il ricovero… Quando sono emersi i primi dati sulle conseguenze neurocognitive si è unito al gruppo un collega psichiatra e degli psicoterapeuti e abbiamo iniziato a fare un lavoro anche sul disturbo da stress post traumatico, l’ansia, l’insonnia e la depressione”, continua Rovere-Querini.
L’ospedale San Raffaele è stato tra i primi in Italia ad attivare sin da subito un ambulatorio post-Covid, che nel tempo si è evoluto e adattato al variare delle condizioni
La proposta era di ripetere la visita anche a tre e sei mesi, in modo da restituire al paziente l’equilibrio che aveva prima di ammalarsi. “Dai nostri dati ci risulta che il 75% dei dimessi ha effettuato almeno una visita e che il 60% ha aderito all’intero percorso”.
Tra i punti forti dell’ambulatorio, che è stato tra i primi a livello italiano, la flessibilità e la capacità di cambiare la strategia al variare delle condizioni: “Negli ultimi tempi ci sono pazienti che hanno avuto un Covid lieve sul territorio e che poi mostrano sequele – rileva Rovere-Querini – Abbiamo quindi aperto l’ambulatorio verso l’esterno: si può accedere su prenotazione, con l’impegnativa del proprio medico di famiglia che prescrive una visita internistica. Il professionista che prende in carico il paziente effettua quindi esami ad hoc”.
Il rapporto con il territorio è fondamentale: “I medici di medicina generale (Mmg) ci conoscono per via dell’hot spot Covid-19, un servizio dedicato ai pazienti Covid non gravi – spiega la referente del servizio – Durante il Covid abbiamo anche fatto una serie di incontri per conoscerci meglio e collaborare in un momento in cui i Pronto soccorso erano pieni. Abbiamo istituito un canale telefonico dedicato grazie al quale il Mmg che abbia un paziente fragile con Covid, può mettersi in contatto con noi. Entro 24 ore noi effettuiamo un controllo ed eseguiamo i vari esami strumentali, restituendogli delle informazioni sull’interessamento polmonare, sulla saturazione e così via. Nei nostri ambulatori abbiamo anche la possibilità di prescrivere terapie antivirali e somministrarle nel caso ci fosse la necessità della via endovenosa, come per il remdesivir”.
Questa conoscenza reciproca fa sì che oggi i Mmg sappiano di avere nel San Raffaele un punto di riferimento anche per quanto riguarda il Long Covid.
Il modello messo a punto al San Raffaele, che vede nell’internista il cardine dell’intera organizzazione, si è rivelato idoneo anche quando il Covid è mutato, lasciando spazio a varianti meno aggressive: “Adesso la malattia è completamente diversa – conferma Rovere-Querini – è molto più lieve e i pazienti ricoverati in ospedale sono molto fragili e spesso comorbidi. Il nostro è un ambulatorio internistico, più che infettivologico: qui sistemiamo infatti le conseguenze del virus, della terapia che l’infezione si è portata dietro, dell’ospedalizzazione e dell’allettamento che nel paziente spesso geriatrico può comportare sequele come per esempio la perdita di massa muscolare”.
L’organizzazione, ammette Rovere-Querini, non è stata semplice: “Tuttavia, noi siamo una grossa Medicina e abbiamo svolto in un primo momento questa attività a turno. I colleghi sono molto sensibili al problema e hanno messo volentieri a disposizione il proprio tempo. Più di recente è stato formalizzato un organico dedicato ed è stata assunta una nuova persona part time: oggi quindi questo servizio è possibile grazie a un misto tra risorse liberate da noi e risorse che ci sono state date in più dall’ospedale”.
Al momento dall’ambulatorio del San Raffaele passano in media 20-40 persone a settimana. “Abbiamo vissuto periodi in cui si arrivava anche a 80, adesso abbiamo una media di 6 pazienti al giorno”.
Il progetto del Ministero
Per cercare di fare chiarezza sulla situazione a livello nazionale, il Ministero della Salute ha avviato un progetto Ccm guidato dall’Istituto superiore di Sanità (Iss).
L’intento è nobile, ma i tempi non saranno brevi: “Abbiamo iniziato a dicembre 2021 e prevediamo di pubblicare una lista di buone pratiche e di indicazioni di comportamento entro la fine dell’anno”, commenta Graziano Onder, coordinatore del progetto e direttore del Dipartimento di Malattie cardiovascolari, endocrino-metaboliche e invecchiamento dell’Iss.
Durante la pandemia sono sorti sul territorio 120 Centri che si occupano di Long Covid, ma il loro comportamento è eterogeneo. Il Ministero ha avviato un progetto Ccm guidato dall’Istituto superiore di Sanità per il miglioramento delle conoscenze mediche, la mappatura della rete dei centri italiani e la definizione di linee guida terapeutiche
Siccome il Long Covid è una condizione nuova, sono sorti sul territorio molti Centri che se ne occupano, ma il loro comportamento è molto eterogeneo. Si va da esperienze ambulatoriali come quella del San Raffaele a strutture private che propongono check-up a pagamento. Spesso, poi, la distribuzione territoriale non è uniforme. “Abbiamo avviato un censimento delle strutture pubbliche che trattano il Long Covid, raggiungendo quota 120. Solo tre Regioni, al momento, ne sono sprovviste: Valle d’Aosta, Basilicata e Sardegna – spiega Onder – Prima di fornire indicazioni, infatti, è importante censire quello che già esiste, per poi provare a metterlo in rete”.
Una volta fotografata la situazione e fornite indicazioni standard, saranno le Regioni a dover individuare una rete di Centri di riferimento. “È comunque nostra intenzione condividere presto sul nostro portale la mappa dei Centri che hanno risposto al nostro appello, con tutte le indicazioni necessarie per contattarli, in modo da permettere al cittadino di sapere a chi rivolgersi”.
Le 120 strutture censite hanno risposto a un questionario diffuso online dall’Istituto superiore di sanità: “Abbiamo cercato di raggiungere tutti nel modo più capillare possibile, grazie alla collaborazione con le Regioni e le Società scientifiche. I 120 Centri assistono circa 5.000 pazienti ogni mese. Non possiamo dire se si tratta della totalità, ma sono senza dubbio un buon campione”. Ciascuno di questi, come già detto, si muove però in modo diverso: “Quello che abbiamo visto è che il modo di comportarsi di questi Centri è molto eterogeneo: alcuni hanno un solo specialista, altri sono multi-specialistici, alcuni si occupano in modo specifico di alcune complicanze, come quella cardiaca, altri invece hanno una visione più ampia. L’approccio diagnostico è dunque molto variabile”.
Per definire le buone pratiche, l’Iss ha istituito un tavolo di lavoro che coinvolge diversi specialisti (neurologi, infettivologi, geriatri, cardiologi, pneumologi, biologi, oltre ai pazienti) che proveranno a rispondere a varie domande sulla gestione e il trattamento del Long Covid.
“Da quello che stiamo producendo è evidente fin d’ora come sia necessario, vista l’elevata frequenza delle condizioni, rivalutare a distanza di 3-6 settimane tutti i pazienti che sono stati ospedalizzati per Covid. Questa è una raccomandazione che abbiamo già rilasciato e che è in linea con quanto dicono le principali istituzioni”.
In questo percorso, inoltre, si valorizzerà il ruolo del medico di medicina generale, “che deve essere la porta d’entrata al servizio, colui che rappresenta il punto di riferimento per il paziente”, afferma Onder.
L’impatto economico
Il Ministero della Salute ha definito alcune prestazioni essenziali per le persone con Long Covid, riconoscendo la condizione e destinando di conseguenza delle risorse. “Oltre agli esami strumentali ed ematici è importante il colloquio psicologico, soprattutto per le persone che sono state in rianimazione e terapia intensiva – sottolinea Onder – C’è poi la valutazione multidimensionale per le persone anziane, che, con le donne, sono tra le più colpite. Il Ministero quindi non solo ha finanziato il progetto che vede l’Iss come capofila, ma ha anche lanciato le basi per riconoscere questa malattia e gli esami essenziali per le persone con questa condizione”.
L’impatto economico delle persone che hanno avuto il Long Covid è notevole: per chi è stato ospedalizzate o in terapia intensiva la spesa sanitaria nei sei mesi successivi all’ospedalizzazione per Covid è di 4-5 volte superiore a quella dei non ospedalizzati
L’Iss ha svolto una valutazione con Ars Toscana sull’impatto economico delle persone che hanno avuto il Long Covid. “L’impatto è notevole: per le persone che sono state ospedalizzate o in terapia intensiva la spesa sanitaria nei sei mesi successivi all’ospedalizzazione per Covid è di 4-5 volte superiore a quella dei non ospedalizzati – rende noto Onder – Bisogna capire se questo è legato alle serie conseguenze di salute o al fatto che si tende a studiare molto questa condizione perché non la si conosce. Dunque in questa fase si sovradimensionano i volumi di prestazioni erogate per queste persone”.