Long Covid, l’onda lunga del virus e il progetto CCM

Per uniformare l’approccio e la gestione clinica a livello nazionale, è nato recentemente un progetto CCM capitanato dall’Istituto Superiore di Sanità e che coinvolgerà, per due anni, una serie di enti in tre Regioni: Friuli Venezia Giulia, Toscana, Puglia

Sono passati più di due anni da quando, l’11 marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tramite del suo direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato la diffusione del Coronavirus in Cina non più un’epidemia confinata a circoscritte aree geografiche, ma una vera e propria pandemia capace di incidere a livello globale sulla salute pubblica.

Da allora si sono susseguiti numerosi studi e ricerche sul tema, la letteratura disponibile è in continua evoluzione, poiché ad oggi sono ancora numerosi gli aspetti opachi o ignoti di questa patologia. Così come l’impatto individuale sui singoli pazienti, non in base all’età.

C’è chi si è ammalato di Covid-19 sperimentando i sintomi di una comune influenza, chi ha perso la vita e chi ne è guarito ma da quel momento ha manifestato una sintomatologia post guarigione più o meno debole. La cosiddetta “Long Covid”. Per trattarla, in Italia e all’estero, sono già nati diversi centri che per ora hanno agito in autonomia.

La condizione post Covid-19 si verifica in individui con una storia di probabile o confermata infezione da SARS-CoV-2, di solito a 3 mesi di distanza dall’inizio del Covid-19, con sintomi che durano per almeno 2 mesi e non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa

Per uniformarne l’approccio e la gestione clinica a livello nazionale, ma anche per valutare l’impatto di questa nuova patologia sulla spesa sanitaria, di recente il Ministero della Salute ha lanciato e finanziato il progetto CCM, capitanato dall’Istituto Superiore di Sanità e che coinvolgerà, per due anni una serie di Enti in tre Regioni (Friuli Venezia Giulia, Toscana, Puglia): ARS Toscana, Aress Puglia, Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale, Rete delle Neuroscienze e Neuroriabilitazione, Rete Aging, Associazione Rete Cardiologica, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Una sindrome post virale confermata da OMS e ISS

Si tratterebbe di una sindrome post-virale in grado di debilitare una persona sotto molti aspetti anche per diverse settimane o mesi dopo l’eliminazione del virus dall’organismo. In certi ambienti la preoccupazione è tale da far preludere a una specie di nuova mini-pandemia, proprio all’indomani della più grande emergenza sanitaria, ma anche economica e civile, mai affrontata dal dopoguerra a oggi.

Nell’ottica di incrementare le conoscenze sulla Long Covid, il 9 febbraio 2022 l’Istituto Superiore di Sanità ha dato il via al progetto CCM: “L’iniziativa, lanciata dal Ministero, mira a dimensionare, riconoscere e affrontare questa condizione, attraverso l’istituzione di una rete nazionale di sorveglianza, una mappa di centri clinici collegati tra loro e capaci di condividere buone pratiche – ha detto Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità –. L’iniziativa ha dato il segnale di partenza a qualcosa che ormai si attendeva da tempo: una definizione ufficiale di questa sindrome sperimentata da molti “guariti” dall’infezione provocata dal Coronavirus”.

L’ufficialità era stata già fornita dall’OMS nell’agosto 2021, quando l’organismo internazionale aveva annunciato che “la condizione post Covid-19 si verifica in individui con una storia di probabile o confermata infezione da SARS-CoV-2, di solito a 3 mesi di distanza dall’inizio del Covid-19, con sintomi che durano per almeno 2 mesi e non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa”.

Tra i disturbi più comuni stanchezza, dispnea, perdita di gusto e olfatto e la cosiddetta “nebbia mentale”

Il disturbo più comune sembrerebbe essere la stanchezza (fatigue o astenia), seguito dalla dispnea e dalla perdita di gusto e olfatto che in alcuni casi non vengono recuperati completamente. Un altro sintomo riscontrato frequentemente è la così detta “nebbia mentale”, riassumibile in problemi di memoria e concentrazione, in aggiunta al costante senso di spossatezza.

Sotto il profilo scientifico, questa condizione è già nota come “sindrome da stanchezza cronica” e può verificarsi dopo infezioni batteriche o virali con cause che non sono del tutto chiare.

Alcuni disturbi permangono per anni dalla fine dell’infezione e, a volte, sono accompagnati da segni clinici che non sono provocati da una specifica patologia organica, come per esempio l’affaticamento cronico denominato sindrome somatoforme.

Complessivamente oltre 200, secondo uno studio pubblicato su Lancet EClinMedicine, le manifestazioni cliniche del Long Covid che possono essere di nuova insorgenza, dopo il recupero iniziale da un episodio acuto di Covid-19, o perdurare dalla malattia iniziale. Possono inoltre presentare un andamento non lineare, con alti e bassi, e provocare anche ricadute.

E se a lungo si è creduto che a una maggiore gravità della malattia acuta corrispondesse una più rilevante entità dei sintomi nel tempo, alcune recenti evidenze riportano che chi soffre di Long Covid ha spesso contratto l’infezione in forma lieve o asintomatica.

Le finalità del progetto CCM dell’ISS

Graziano Onder“Tra i vari obiettivi del progetto CCM figurano il miglioramento delle conoscenze mediche di questa sindrome, la mappatura della rete nazionale della cinquantina di centri nati in Italia e la definizione di alcune linee guida terapeutiche che possano uniformare i protocolli di cura e modalità di accesso che ad oggi sono affidati all’autonomia delle singole strutture”, ha spiegato il referente del progetto dell’ISS, il professor Graziano Onder.

D’altro canto, il progetto si rivolge anche alla cittadinanza e vuole migliorare la conoscenza di questa sindrome per far emergere i casi non ancora diagnosticati.

“Dalle prime analisi è emerso che le persone ospedalizzate che hanno avuto una forma severa di Covid, una volta guarite accedono agli ospedali in misura 2/3 volte superiore ai cittadini che non si sono ammalati gravemente di Covid – ha proseguito Onder -: per questo è ancora più importante definire le buone pratiche cliniche che verranno presto rese pubbliche su un sito dedicato”.

Fra i vari obiettivi figurano il miglioramento delle conoscenze mediche, la mappatura della rete nazionale dei centri italiani e la definizione di alcune linee guida terapeutiche

Il 6 aprile 2022 presso l’ISS si è tenuto un webinar informativo per fare il punto della situazione e dare conto delle ultime ricerche. La sfida del team dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha il mandato di lavorare sul tema per i prossimi due anni, sarà poi quella di capire quanto e se questa nuova patologia andrà avanti e che impatto avrà sulla spesa sanitaria nazionale.

I Long Haulers

Esisterebbe poi un particolare sottogruppo di malati Long Covid, ancora perlopiù sconosciuto, portato recentemente alla luce da uno studio condotto da Alessandro Santin, responsabile del team di ricerca dello Smilow Cancer Center e direttore del dipartimento di oncologia di Yale School of Medicine.

Nello specifico si definiscono “Long-Haulers” (dal verbo inglese to hauler, che significa trascinare per un lungo tragitto) i soggetti che presentano sintomi per oltre sei mesi dalla fine della fase acuta della malattia o dalla negativizzazione del tampone.

Fra il 10% e il 30% degli infettati in forma lieve o moderata in Italia e nel mondo potrebbe appartenere a questa categoria. Se si pensa che il numero di casi confermati è già elevatissimo sia in Italia sia nel mondo e che l’OMS stima che il numero di soggetti che hanno già incontrato il Covid sia in realtà circa 8-10 volte superiore al numero di casi confermati con tamponi, si deduce come il numero di long-haulers presenti sia già di proporzioni enormi.

Sintomi e incidenza

Per quanto riguarda la tipologia di manifestazioni da Long Covid, secondo quanto riportato dall’ISS, si possono individuare due classi principali: sintomi generali e sintomi organo-specifici. “Tra i primi si riscontrano fatigue/astenia, febbre, debolezza muscolare, dolori diffusi, mialgie, artralgie, peggioramento dello stato di salute percepito, anoressia, riduzione dell’appetito, perdita di massa muscolare – ha spiegato il professor Onder –. Tra i secondi: problemi polmonari come dispnea, affanno e tosse persistente”.

Altri segni clinici possono essere disturbi cardiovascolari, come miocardite, ma anche neurologici, psichiatrici, gastrointestinali.

In riferimento a questi ultimi, esiste uno studio, risalente allo scorso giugno, della Gastroenterologia ed Endoscopia del Policlinico di Milano, pubblicato sulla rivista “Neurogastroenterology and Motility”. La ricerca – che ha coinvolto oltre 340 partecipanti sprovvisti di una precedente diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile, malattia infiammatoria intestinale o malattia celiaca – ha rilevato la presenza di sintomi gastrointestinali e somatici anche a distanza di mesi dall’infezione da SARS-CoV-2.

Dal punto di vista eziologico, i sintomi da Long Covid possono essere generati da diversi fattori: un danno diretto agli organi provocato dal virus o dalla malattia, la compromissione del sistema nervoso, una risposta anomala del sistema immunitario che, nel tentativo di eliminare il virus, innesca un processo autoimmune per cui aggredisce erroneamente anche organi e tessuti del proprio organismo.

Dal punto di vista eziologico, i sintomi da Long Covid possono essere generati da diversi fattori: un danno diretto agli organi provocato dal virus o dalla malattia, la compromissione del sistema nervoso, una risposta anomala del sistema immunitario

I soggetti colpiti sono indistintamente soggetti di sesso maschile e femminile di qualsiasi età, ma sono soprattutto le donne tra i 40 e 60 anni. Si è osservato anche qualche caso in età pediatrica. Se ad agosto del 2020 solo circa il 10% dei pazienti guariti dal Covid-19 era affetto da Long Covid, stime più recenti riportano che la percentuale di persone guarite dall’infezione da SARS-CoV-2 che necessita di assistenza sanitaria, anche dopo settimane o mesi dalla negatività al test, si aggirerebbe intorno al 50%.

Ma come sapere se si è più predisposti di altri allo sviluppo della sindrome Long Covid? Un gruppo di studiosi dell’Institute for Systems Biology – istituto di ricerca senza scopo di lucro con sede a Seattle – ha provato a rispondere a questo quesito, attraverso l’identificazione di quattro principali fattori di rischi. Secondo un primo studio, pubblicato sulla rivista Cell e divulgato anche dal New York Times, essi sono riconducibili a:

  • la presenza di auto-anticorpi nel sangue; si tratta particolari anticorpi diretti contro l’organismo stesso, come quelli presenti nelle malattie autoimmuni (ad esempio il lupus). All’aumentare di questi componenti, spiegano i ricercatori, diminuisce l’effetto protettivo di quelli specifici contro Sars-Cov-2, e questa dinamica potrebbe giocare un ruolo
  • il diabete di tipo 2 preesistente
  • un’alta carica virale
  • la presenza del virus Epstein-Barr (responsabile della mononucleosi), riattivato con l’infezione da coronavirus.

Le terapie disponibili e il ruolo della vaccinazione

Attualmente, purtroppo, non esiste ancora una cura specifica per il Long Covid. L’unica via praticabile è attendere la regressione dei sintomi, puntando semplicemente ad attenuarli, ricercandone le cause e adottando terapie personalizzate. Queste possono includere esercizi di riabilitazione fisica, diete alimentari per riprendere peso o massa muscolare o, al contrario, per ridurre il peso, supporto psicologico per quanti risultano affetti da stress post-traumatico.

Un lavoro pubblicato su Nature a novembre 2021 afferma che il Long Covid potrebbe essere causato da particelle virali che si nascondono in diversi tessuti, e che continuano a causare danni. In alternativa, potrebbe essere causato da una forte risposta immunitaria che si innesca dopo l’infezione iniziale, generando anticorpi e altre reazioni immunologiche contro i tessuti dell’organismo. Questa sarebbe la spiegazione del prolungarsi di complicanze anche dopo il termine dell’infezione.

La vaccinazione, però, riveste un ruolo importante nella riduzione di fenomeni come quello appena descritto, come confermato anche dal professor Graziano Onder.

A tal proposito, un recente studio condotto dall’epidemiologo Michael Edelstein, dell’israeliana Bar-Ilan University, riporta che la vaccinazione contro Sars-CoV-2 rende meno probabile il Long Covid in chi si infetta, mentre ci sono segnalazioni di persone che lo hanno superato dopo essersi sottoposte a vaccinazione. Ciò significa che il vaccino è in grado di prevenire o riparare la disfunzione immunitaria alla base del Long Covid.

Il progetto CCM approfondirà anche questo dato che dimostra, ancora una volta, – come ha concluso il professor Onder – che l’importanza della vaccinazione non riguarda solo la sopravvivenza alla malattia ma anche tutte le conseguenze mediche collaterali ad essa associate.

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Sofia Rossi
Giornalista specializzata in politiche sanitarie, salute e medicina