Turni di lavoro massacranti, carenza sistematica di personale, carichi burocratici duplicati e stipendi fra i più bassi in Europa. Sono queste le premesse alla base di un vero proprio esodo dei medici italiani dal Servizio Sanitario Nazionale. La maggior parte va verso il sistema privato e, mentre gli anziani puntano al prepensionamento, chi ha appena finito gli studi e deve ancora costruirsi una carriera ambisce ad ottenere incarichi all’estero.
L’emergenza provocata dalla pandemia da SARS-CoV-2 ha solo amplificato un problema che di fatto era già sistemico nella sanità pubblica italiana, aggravando ulteriormente la situazione nel comparto dell’emergenza.
A lanciare l’allarme sul futuro dell’assistenza medico-sanitaria è Giovanni Leoni, vicepresidente della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), nonché medico impegnato da più di 20 anni nel CIMO, il sindacato dei medici.
I numeri dell’esodo
I dati sono quelli resi noti da FESMED, la Federazione sindacale medici dirigenti, dal SMI, il Sindacato Medici Italiani e della FIMMG, la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale.
Dal conto annuale del Tesoro del 2019 (quindi prima della pandemia), risulta che il 2,9% dei medici ospedalieri ha deciso di dare le dimissioni, con picchi in alcuni settori come quello dell’emergenza, dove il problema dei turni troppo pesanti a fronte di straordinari non pagati perché ritenuti non sicuri a tutela dei medici stessi, ha un peso ancora più rilevante.
Turni di lavoro massacranti, carenza sistematica di personale, carichi burocratici duplicati e stipendi fra i più bassi in Europa: sono queste le premesse dell’esodo dei camici bianchi dal SSN
Un altro dato significativo è quello relativo al pronto soccorso: a fronte dei 21 milioni di interventi registrati ogni anno (il dato si è leggermente ridotto nel 2020 per la pandemia), in Italia lavorano nell’emergenza urgenza 12 mila medici, ossia 4 mila in meno rispetto a quelli in realtà sufficienti. Ciò significa che viene normalmente erogato un servizio con un quarto dell’organico necessario in meno. In questo caso, oltretutto, si parla di una media, perché in alcuni casi la carenza di personale tocca addirittura il 50 o 60% dell’organico totale. Si tratta di un numero che desta ancora più preoccupazione, se si osserva che i medici di urgenza nell’ultimo biennio si sono ridotti di 2 mila unità.
Se si considera il numero di specializzandi che concluderanno il percorso di formazione da qui al 2025 (rientrando quindi tra i potenziali candidati all’assunzione) e, contestualmente, lo si mette in relazione al numero di addetti che, nello stesso arco temporale, andranno in pensione, si scopre che in realtà l’organico subirà una riduzione ulteriore pari a 4 mila unità.
Il medico ospedaliero, una professione che ha perso appeal
L’intervento dei ministeri alla Salute e all’Università nell’ultimo biennio ha decretato l’aumento del numero dei posti nelle specialità di tutte le discipline. In particolare, quelli per l’emergenza urgenza nel 2021 erano 1.100.
Tuttavia, chi si attendeva una risposta positiva è stato presto smentito: i giovani non sono motivati a lavorare nel pronto soccorso, forse anche sull’onda del grande malcontento che circola tra il personale ospedaliero.
Ben 520 posti disponibili in specializzazione sono rimasti scoperti.
I posti disponibili nel 2021 per la specializzazione in emergenza-urgenza erano 1.100 ma ben 520 sono rimasti scoperti
Ma quali sono le ragioni di una tale crisi di sfiducia? Perché il SSN sta perdendo il suo potere attrattivo? Cosa sta spingendo sempre più medici a dirigersi verso il privato?
“In estrema sintesi – ha spiegato il dottor Leoni – lavorare in ospedale non è più attraente come prima per i nuovi medici. La carenza sistemica di personale ha fatto sì che si lavori spesso su doppi turni non retribuiti, accumulando ferie che non si riescono a fare per non lasciare i reparti scoperti e gli ambulatori inattivi. Il tutto sotto pressioni, e grosse, che non sono assolutamente commisurate al compenso che si percepisce e che è molto meno di quello che prendono i colleghi degli altri paesi europei”.
Il nodo centrale del malcontento riguarderebbe quindi un eccessivo carico lavorativo che ricade sul personale, riducendo drasticamente l’appeal della professione. Tra le motivazioni alla base di un tale malcontento ce ne sono certamente alcune di carattere organizzativo-strutturale.
I medici di medicina generale sempre più oberati dalla burocrazia
In Italia storicamente l’assistenza territoriale è stata affidata ai medici di medicina generale: “I MMG vengono scelti dai pazienti e dovrebbero basare il proprio rapporto terapeutico sulla fiducia – ha detto il dottor Leoni –. Peccato che il carico di lavoro burocratico a loro richiesto è stato valutato ormai tale da risultare pari o superiore al tempo dedicato ai pazienti: siamo passati dal 40 all’80% del lavoro dedicato solo alla parte amministrativa. Mi sembra quindi scontato che sempre meno giovani medici decidano di fare il medico di medicina generale perché il lavoro amministrativo richiesto è diventato troppo preponderante”.
Il carico di lavoro burocratico richiesto agli MMG è pari o superiore a quello dedicato ai pazienti
In una logica simile, nella quale il medico di base spesso opera da solo, senza aiuti amministrativi e in un ristretto orario ambulatoriale non sufficiente a soddisfare i bisogni quotidiani dei pazienti, il pronto soccorso finisce per trasformarsi in una sorta d’imbuto. Ciò che negli ospedali sarebbe dedicato all’emergenza diviene così la destinazione di qualsiasi tipo di patologia che non può essere presa in carico o semplicemente filtrata dai medici di medicina generale. Secondo alcune stime circa l’85% degli accessi è inadeguato, quasi nove persone su dieci potrebbero evitare l’ingresso in pronto soccorso se ci fosse un adeguato sistema di filtro.
I professionisti del settore emergenza, non riconosciuti e oberati di lavoro, sono la chiara spia di un malessere generalizzato che riguarda il comparto ospedaliero.
L’appello di FESMED e il sondaggio del sindacato
E sul tema della grande fuga dalle strutture sanitarie pubbliche FESMED, a conclusione del congresso annuale 2021, ha richiamato ufficialmente l’attenzione del Ministro Speranza e del Premier Draghi.
In una nota dell’associazione, tra le altre viene sollevata l’annosa questione del contratto di lavoro: “Atteso da 10 anni, fortemente contestato e in contrapposizione con altre OO.SS., siglato dopo la naturale scadenza del triennio 2016 – 2018, ancora oggi, in oltre il 90% delle aziende sanitarie risulta inapplicato, segno chiaro che i medici non rappresentano per le Regioni una priorità del sistema sanitario pubblico.
Ciò fa emergere con chiarezza l’incuria amministrativa nell’assicurare i diritti del personale, la scarsa sensibilità nel valorizzare i professionisti, che all’improvviso vengono dichiarati eroi. Alla straordinaria capacità di resistenza e resilienza di chi lavora nel SSN c’è un limite.”
Secondo un sondaggio CIMO-FESMED, il 72% dei medici che hanno risposto confermerebbe la scelta della professione, ma solo il 28% continuerebbe a lavorare in una struttura pubblica
FESMED, inoltre, ha denunciato anche il dimezzamento dei posti di primario e la crescente copertura da parte di personale universitario, in virtù di convenzioni “ad hoc” e non per concorso pubblico, che ha avuto l’effetto di demotivare tanti medici a proseguire una carriera oramai senza più sbocchi.
A fotografare in modo dettagliato il malcontento che serpeggia in corsia ci ha pensato il sondaggio della Federazione CIMO-FESMED, sindacato che rappresenta oltre 18mila camici bianchi.
“Stanco, rassegnato e pronto alla fuga”: questo sarebbe l’identikit del medico ospedaliero emerso da un’indagine, promossa dal Presidente Guido Quici, e condotta su 4.258 medici italiani.
In particolare, il 72% vorrebbe lasciare l’ospedale pubblico; il 73% è costretto agli straordinari e il 42% ha accumulato oltre 50 giorni di ferie; per il 30% la qualità̀ della vita è insufficiente. Male anche per quanto riguarda le esperienze dei giovani medici: in meno di 5 anni di lavoro, a picco le aspettative di carriera e retribuzione.
Il risultato sembra essere in linea con le stime della Società Italiana di medicina di emergenza-urgenza secondo cui, nel biennio 2020-2021, il 18% degli studenti ha abbandonato il percorso di studi.
Un dato su tutti dovrebbe però destare un particolare allarme: se da una parte il 72% dei medici partecipanti, potendo tornare ai tempi della fine del liceo, risceglierebbe la stessa professione, solo il 28% continuerebbe a lavorare in una struttura pubblica. Gli altri preferirebbero trasferirsi all’estero (26%), anticipare il pensionamento (19%), lavorare in una struttura privata (14%) o dedicarsi alla libera professione (13%).
Per quanto riguarda l’incidenza del Covid-19 sulla professione, in linea con quanto ci si sarebbe potuti aspettare, emerge che per il 69% dei medici la pandemia ha avuto un impatto importante sul proprio stress psicofisico e per il 55% ha messo a repentaglio la sicurezza della propria famiglia.