«Non bastano 200 euro per risolvere la crisi della sanità»

A TrendSanità il presidente FNOMCeO, Filippo Anelli, commenta il difficile momento dei professionisti sanitari tra aggressioni, denunce e fughe dal SSN: «I due miliardi in arrivo sul Fondo? Non è solo questione di soldi...»

Non sono due miliardi in più a far tornare il sorriso a Filippo Anelli. Sono giornate difficili per i medici italiani e per il loro “capo”, presidente FNOMCeO – Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri – che commenta con TrendSanità quelle che, al momento, sono ancora solo previsioni sull’incremento al Fondo Sanitario Nazionale. Continue aggressioni, medici sfiduciati che lasciano il SSN, specializzazioni che non attraggono i giovani e per chi ogni giorno apre lo studio o varca l’ingresso di un ospedale un carico di lavoro insostenibile.

Filippo Anelli

«Siamo lontani dalle soluzioni vere. Ci vorrebbe un provvedimento organico, perché il problema non è solo e soltanto economico, ma è legato alla natura della nostra professione che è stata spinta verso una burocratizzazione che ci ha tolto stimoli. La curiosità, la voglia di cercare soluzioni ai bisogni delle persone, di provare a superare i limiti della malattia, elementi che hanno sempre caratterizzato la vita di un medico e che si stanno perdendo».

Quindi non bastano i 2 miliardi di euro in più che chiede il Ministro della Salute, Orazio Schillaci?

«La curiosità, la voglia di cercare soluzioni ai bisogni delle persone, di provare a superare i limiti della malattia, elementi che hanno sempre caratterizzato la vita di un medico e che si stanno perdendo»

«Da quello che apprendo i fondi aggiuntivi sarebbero impegnati soprattutto per defiscalizzare l’indennità di specificità medica che porterebbe ad un risparmio, e quindi ad un aumento, di circa 200 euro al mese mediamente. Non sono 200 euro a risollevare un sistema in crisi, sottoposto a continui attacchi fisici e verbali, a denunce pretestuose, con un’autonomia che è fortemente compromessa e con un mercato del lavoro che fa fuggire molti verso situazioni ben remunerate e più tutelate».

Cosa ci vorrebbe allora?

«Ci vorrebbe una riforma complessiva, che cambi il sistema della governance, dando maggior peso alle decisioni del medico e non mettendolo in un angolo come se fosse meramente un tecnico».

Citava le denunce pretestuose che spesso ricadono sui medici e che, nel 95% dei casi vengono archiviate, lasciando però pesanti strascichi. In molti chiedono la depenalizzazione dell’atto medico, ma la Commissione d’Ippolito ha escluso questa possibilità.

«La Commissione ministeriale ha fatto un buon lavoro approfondendo tanti aspetti delicati. Ora non sappiamo gli effetti pratici di questo lavoro, come verranno declinati, non sappiamo se ci sarà un Disegno di Legge. È tutto da vedere…».

Questa crisi è di sistema perché non riguarda solo i medici.

«Abbiamo visto che i Governi hanno puntato sulle strutture, sui macchinari, finanziandoli con 15 miliardi di euro del PNRR, e non su noi professionisti»

«Anche il ruolo delle altre professioni va rilanciato con un provvedimento organico. La sfida è questa. Si può fare la sanità senza gli infermieri? Assolutamente no, sono un pezzo fondamentale del sistema. Nessun medico può lavorare senza avere accanto a sé infermieri e tecnici. Alle professioni bisognerebbe dare un peso maggiore. Noi abbiamo assistito a decenni di deresponsabilizzazione e di abbattimento dell’autorevolezza di queste figure. Abbiamo visto che i Governi hanno puntato sulle strutture, sui macchinari, finanziandoli con 15 miliardi di euro del PNRR, e non su noi professionisti. Non ci sono medici di medicina generale, non ci sono infermieri sul territorio, non ci sono tecnici di riabilitazione, non ci sono psicologi. Negli ospedali gli stipendi non corrispondono più a quello che è il mercato là fuori. Tutto questo non fa altro che delegittimare le promesse che spesso ci vengono fatte».

Da cosa si può ripartire per risalire la china?

«Se non rimettiamo in moto un processo che ridia credito alla scienza e alle professioni non andiamo da nessuna parte. Ci vuole un modo diverso di fare sanità che non sia basato esclusivamente su obiettivi di carattere economico e che metta i medici nelle condizioni di poter dare un contributo decisionale, fattivo ed essenziale. Servirebbe una ridefinizione anche legislativa del ruolo e dell’attività del medico. Bisognerebbe, poi, rimettere in moto la partecipazione dei cittadini che è fondamentale ed è nelle sue caratteristiche d’origine. La sanità è un pezzo della nostra democrazia, così come è stata concepita nel 1978».

Si parla molto di sanità digitale, fascicolo sanitario elettronico e intelligenza artificiale come elementi che possono aiutare il sistema ad uscire dalla crisi. Ma parlando, per esempio, con i medici di medicina generale, l’ambito da cui arriva anche lei, queste innovazioni vengono spesso viste come nuove incombenze burocratiche che consumano tempo da dedicare ai pazienti. Come la pensa?

«Tutte le innovazioni tecnologiche hanno grandissime potenzialità e possono migliorare le performance. Il problema è avere il tempo. Se tu fai un aumento dell’ottimale e i medici di famiglia oggi hanno 1500, 1600, 1800 pazienti, è chiaro che il fascicolo sanitario elettronico diventa un carico burocratico. L’intelligenza artificiale rappresenta oggi uno strumento potentissimo per migliorare l’efficienza del sistema. Può dare la possibilità ai medici di essere ancora più precisi, ancora più veloci, ma ci vuole il tempo di impostare bene la domanda, di studiarti tutta la letteratura che ti viene data dall’AI. Se siamo pochi non possiamo fare tutto».

E se non si recupera quel ruolo che dicevamo si continuerà ad essere pochi, perché pochi si presentano alle università e alle specializzazioni…

«Sì, ma non è solo un problema di reclutamento. Anche nella pianificazione, nell’organizzazione delle piante organiche che vengono decise siamo sempre pochi. Voglio chiudere con un esempio. Noi abbiamo scritto una bella Legge, quella sul consenso informato, e nella Legge c’è scritto che la comunicazione è tempo di cura. In realtà la Legge è completamente disattesa e moltissime situazioni, anche di violenza, si risolverebbero se il medico si mettesse lì, accanto al paziente e avesse il tempo di comunicare la situazione, le scelte che si fanno, aiutasse il malato ad affrontare il dramma della malattia. Non avere il tempo di instaurare questa comunicazione è una mancanza grave, lede un diritto dei cittadini ad essere informati per poter scegliere con consapevolezza sulla propria salute. Scriviamo delle belle norme, eppure, siamo ben lontani dall’applicarle».

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Cesare Buquicchio
Giornalista professionista. Condirettore TrendSanità. Capo Ufficio Stampa Ministero della Salute dal 2019 al 2022. Direttore scientifico del corso di perfezionamento CreSP, Università di Pisa