Piano Nazionale Cronicità: ancora un libro dei sogni?

Tonino Aceti (Salutequità): «Senza risorse, cronoprogramma e controllo, il documento rischia di essere l’ennesima occasione persa»

Sono passati quasi nove anni dall’approvazione del Piano Nazionale Cronicità (PNC), datata settembre 2016. Eppure, il bilancio della sua attuazione è fortemente deludente. A denunciarlo con chiarezza è Tonino Aceti, presidente di Salutequità, che evidenzia limiti strutturali e culturali nella gestione di una delle principali priorità sanitarie italiane: la presa in carico delle persone con patologie croniche.

«Il Piano era – ed è – un documento di valore teorico notevole, ma la sua applicazione pratica è stata disomogenea e tardiva – afferma a TrendSanità Aceti -. Alcune Regioni, come la Sardegna per esempio, lo hanno recepito con ritardi anche di cinque anni».

A febbraio è stata diffusa una bozza di aggiornamento che, tra le altre cose, aggiungeva tre patologie all’elenco: obesità, epilessia ed endometriosi. Tuttavia, da allora, il documento non è stato né approvato né modificato in base alle criticità che secondo gli stakeholder continua ad avere.

Un Piano senza tempo (e senza fondi)

Tonino Aceti
Tonino Aceti

Tra i principali nodi critici, Aceti denuncia l’assenza di un arco temporale definito, con obiettivi e tappe chiare. Ma soprattutto, la mancanza di finanziamenti dedicati: «Ogni riforma o trasformazione organizzativa richiede risorse. Qualcuno dice che il PNRR ha già coperto la riforma del territorio, ma i dati dicono che a fine 2024 erano stati spesi appena 2,8 miliardi dei 15 disponibili. Come può il Piano Cronicità innestarsi in un contesto già in difficoltà?».

Secondo il presidente di Salutequità, senza uno stanziamento autonomo e vincolato, il PNC rischia di restare un esercizio accademico, senza impatto reale. «Gli altri piani approvati negli ultimi anni – oncologico, malattie rare – hanno ricevuto fondi dedicati. Non farlo per la cronicità significa, di fatto, declassarne l’importanza».

Disuguaglianze e pazienti di serie B

Anche sul fronte del monitoraggio, le lacune sono profonde. L’unico vero strumento esistente è il sistema LEA, recentemente aggiornato con 25 indicatori core, ma ancora troppo debole per guidare un cambiamento reale. «Il sistema LEA negli ultimi 2 anni è stato scarsamente strategicizzato e utilizzato in un’ottica di superamento delle disuguaglianze – afferma il Presidente di Salutequità -. Serve poi una capacità di valutazione continua e intervento tempestivo, come previsto nel Patto per la Salute 2019-2021».

E poi manca un meccanismo flessibile di aggiornamento rapido dell’elenco delle patologie croniche: «Nella bozza di aggiornamento se ne sono aggiunte tre, ma che cosa dire di tutto quello che rimane fuori? Così si rischia di creare dei pazienti di serie A e di serie B.  Serve un elenco aggiornabile in modo flessibile e continuo, capace di includere le nuove cronicità che emergono nel tempo». 

L’altro aspetto che non piace al presidente di Salutequità è il riferimento al costo che producono i pazienti: «Questo ci riporta a una visione della salute e della sanità come spesa e non come investimento: non aiuta a pensare il servizio sanitario nazionale come una grande area di crescita sociale e del paese, ma piuttosto come una zavorra, che pesa sulle casse del dello Stato».

Le leve del cambiamento

Per invertire la rotta, secondo Aceti sono tre le leve fondamentali: «Intanto un finanziamento virtuoso, con risorse vincolate e obiettivi misurabili. Poi una programmazione sanitaria basata su un Piano Sanitario Nazionale (l’ultimo risale al 2006-2008). Infine, la capacità di rafforzare l’uso strategico dei dati, passando dall’informazione alla valutazione reale delle performance regionali».

Finanziamento, programmazione e uso strategico dei dati sono le sfide del futuro

E poi c’è l’aspetto della governance: «Credo che a un certo punto sia necessario che il livello centrale abbia il coraggio, per gli aspetti che ritiene cruciali, di andare avanti in autonomia dopo aver tentato la mediazione con le Regioni». Che il rapporto Stato-Regioni abbia un problema è evidente: «Ad oggi tra queste due entità non c’è un lavoro sinergico come dovrebbe esserci e questo crea dei problemi, tra cui la lentezza nell’approvazione dei Piani. Si tratta di un elemento che non appartiene soltanto a questo governo: pensiamo al fatto che una riforma epocale del territorio che è il DM77 non ha avuto l’intesa… Credo che le modalità di collaborazione vadano fortemente migliorate».

Tornando al Piano Nazionale Cronicità, il rischio è che si licenzi un testo incompleto: «Preferirei ci si prendesse altro tempo per migliorarlo, piuttosto che approvarlo così com’è. Un Piano deve portare un reale miglioramento dell’assistenza, altrimenti è meglio fermarsi e ripensare tutto».

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista