Fondi, scadenze, infrastrutture, tecnologia. E se per attuare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) si partisse dal management? Se ne è parlato nell’evento “Dalle Case della Salute alle Case della Comunità. La prospettiva del management”, organizzato in collaborazione con Federazione Italiana delle Aziende Sanitarie ed Ospedaliere (Fiaso), Federsanità Anci e Confederazione Associazioni Regionali di Distretto (Card).
L’incontro ha visto prima la presentazione di una pubblicazione dedicata al tema del community building e a seguire una tavola rotonda con la partecipazione degli attori coinvolti nel sistema: Ministero della Salute, Agenas, Asl, regioni e direttori di distretto.
“C’è veramente bisogno delle competenze di management, che sono sempre state nei fatti le skill “Cenerentola” nel nostro Servizio Sanitario Nazionale, dai livelli apicali fino ai quadri – ha affermato la rettrice della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa Sabina Nuti -. Abbiamo investito poco su di esse, pensando che fossero necessità marginali o residuali, mentre, come gli esperti sanno bene, il settore sanitario è in assoluto il più complesso dal punto di vista manageriale. La sfida è di orientare davvero il sistema sanitario al territorio rendendo le case della comunità il punto di riferimento per i cittadini: c’è bisogno di una rivoluzione organizzativa, di processo e di task shifting, di nuovo modo di collaborazione e condivisione tra professionisti e tutto questo può essere facilitato e supportato solo da adeguate competenze di marketing”.
Cosa si intende per community building?
Nella parte iniziale dell’evento sono stati presentati i contenuti della pubblicazione Community Building: logiche e strumenti di management a cura del Centre for Research on Health and Social Care Management (Cergas) SDA Bocconi e del Laboratorio di Laboratorio di Management e Sanità (MeS) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, frutto di un progetto di ricerca biennale che ha coinvolto trenta Aziende Sanitarie su tutto il territorio italiano.
La ricercatrice Sara Barsanti della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha spiegato innanzitutto cosa prevede il salto dal concetto di casa della salute a casa della comunità: “La prima è basata sull’integrazione: prevenzione e presa in carico, presenza di servizio sanitario e sociale, multiprofessionalità e collaborazione con il terzo settore. La seconda introduce l’idea di community building: coinvolgimento, proattività, promozione delle connessioni sociali e coprogettazione”.
L’autrice ha poi fornito alcuni spunti per focalizzare in che cosa consiste il community building. Il community building innanzitutto rispecchia l’orientamento per il quale i soggetti facenti parte di una comunità si impegnano a operare congiuntamente nel processo di evoluzione della comunità stessa (Blackwell and Colmenar, 2000; Walter, 2004).
Il concetto del community building si basa sul “coinvolgimento della comunità nelle decisioni che la riguardano, inclusa la pianificazione, lo sviluppo e la gestione dei servizi, nonché le attività che mirano a migliorare la salute o ridurre le disuguaglianze di salute (National Institute for Health and Care Excellence – Nice, 2008, del Regno Unito)
La logica propria del community building si propone di sperimentare forme di partecipazione attiva di attori di natura diversa (enti pubblici, privati, singoli cittadini) volte a innovare le politiche pubbliche e favorire processi collettivi, attraverso forme attive di partecipazione delle comunità locali (Ponzo, 2014).
Nel community building, a mischiarsi sono sia gli attori, sia i sistemi di regole e le logiche di azione (Razavi, 2007; Fischer e Tronto 1990; Brennan et al., 2012).
I fattori abilitanti del community building
L’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), ha spiegato Barsanti, elenca i fattori abilitanti quali fattori di maggior successo delle iniziative di community building, tra cui:
- Governance, in termini di ruoli e responsabilità. Individuare ruoli e responsabilità all’interno della comunità, basandosi sulle capacità esistenti, migliora la capacità di intervento e l’adesione della comunità
- Leadership, considerando che di solito la leadership che emerge dalla comunità è di natura più collaborativa e sfrutta il potere di una visione comune e delle relazioni, invece del “potere di posizione” di una leadership classica
- Processo decisionale, avendo come obiettivo il coinvolgimento comunitario durante tutto il percorso di un intervento / programma, facilitando quindi il passaggio di responsabilità e controllo decisionale
- Comunicazione e collaborazione, creando partnership, costruendo reti e stabilendo relazioni a lungo termine, le iniziative di coinvolgimento della comunità possono trarre vantaggio sia in termini di sostenibiltà che di efficacia
- Risorse. In particolare si fa riferimento a risorse in termini di capacità organizzativa che possono influenzare notevolmente il coinvolgimento delle reti di comunità, amplificando sia la capacità stessa della comunità sia l’impatto dell’intervento.
L’approccio collaborativo si può concretizzare in numerose, diverse modalità.
L’obiettivo di questo cambiamento è quello di creare, rafforzare e riconoscere reti di comunità. Queste a loro volta possono essere di tipi differenti: reti decisionali (le comunità nei processi decisionali), reti strumento (reti come strumento di azione), reti oggetto / target (le reti come oggetto di azione).
All’autrice Manila Bonciani, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è toccato illustrare le logiche, strumenti e processi per la definizione di priorità. È partita da una domanda: a quale target ci riferiamo? “I target prioritari dovrebbero essere le aree di bisogno percepite nei valori collettivi come rilevanti, con una importante incidenza quantitativa e con modesti tassi di copertura del bisogno”.
Quando adottare quindi logiche di community building?
- Insufficienza di risorse pubbliche di welfare disponibili per il target identificato
- Inefficacia parziale o totale dei servizi pubblici tradizionali sul target
- Presenza di rilevanti interdipendenze tra reti sociali e welfare pubblico
Il secondo passo è comprendere quali reti sono presenti nell’ambito territoriale d’interesse: è quindi necessario procedere a una mappatura con creazione di un data base dedicato.
Bonciani ha quindi affrontato il tema della governance delle reti di community building, che deve essere articolata su due livelli: locale (promozione della partecipazione attiva delle reti) e centrale (coordinamento e supporto). La componente pubblica della governance integra Asl ed enti locali.
Al fine di lanciare un progetto di community building bisogna predisporre un piano strategico: “Si tratta di un documento programmatico di medio periodo che mostra la vision e mission dell’Azienda/ente locale sul tema del community building – ha spiegato -. Rappresenta una sintesi strategica delle iniziative di community building che si vogliono attivare nei singoli territori. Si ispira alle buone pratiche presenti nel paese o industrializza esperienze pilota dell’Azienda stessa”.
Infine, ha sottolineato l’esperta, è necessario un sistema di valutazione complessivo delle iniziative, con oggetti di misurazione: variabili rilevanti per l’impatto sulle performance del sistema welfare, variabili rilevanti per l’aumento del capitale sociale locale e misure del tasso di integrazione raggiunto.
Angelica Zazzera, membro del Cergas, ha presentato il Catalogo di Good Practices che raccoglie 80 tra le principali iniziative di community building a tutela della salute, sviluppate sul territorio nazionale e internazionale e alcune buone pratiche che secondo i ricercatori potrebbero gravitare attorno alle case della comunità. Si tratta di Androna Giovani, un progetto di presa in carico di ragazzi under 25 con problematiche di consumo a rischio e di dipendenza da sostanze psicotrope, come esempio di intervento di service design per i target più fragili; del National Kidney Foundation Peers Landing Support, iniziativa statunitense, esempio di intervento di sostegno psicologico ai malati; e delle prescrizioni sociali: il modello di Shropshire, sviluppato nel Regno Unito, per diffondere la prevenzione. Per approfondire, le schede dedicate ai tre progetti sono presenti nel catalogo.
Community building per le case della comunità
Francesco Longo, ricercatore del Cergas, è intervenuto su come declinare il community building nel nuovo vettore organizzativo della casa della comunità, tenendo conto del fatto che in media ciascuna Asl ne avrà dieci: “Le vocazioni che possiamo assegnare a questo nuovo setting sono molteplici: si pone la questione di quale selezionare per ciascun territorio”.
Il primo passo è decidere quale vocazione dare alla struttura: è casa della salute, casa socio sanitaria o della comunità?
Ciascuna di queste versioni può essere interpretata in maniera diversa.
La casa della salute può essere incentrata su accesso e case management della cronicità stabile; oppure essere una casa della specialistica territoriale; o una casa della fragilità e long term care; o, ancora, una piattaforma dei servizi territoriali: psichiatria, igiene, materno-infantile.
Le diverse opportunità per la casa Socio-sanitaria: coprogrammazione interistituzionale; accesso e case management sociosanitario; erogazione dei servizi del Servizio sanitario nazionale e degli enti locali (quota parte); erogazione del portafoglio completo dei servizi SSN territoriali e degli enti locali, delega dei servizi socioassistenziali.
La casa della comunità può prevedere coproduzione di gruppo: educazione sanitaria per gruppi di pazienti; partecipazione democratica: codesign dei servizi e valutazione partecipata; valorizzazione e creazione di reti sociali: gruppi di cammino, gruppi di lettura, rete dei Neet. “Per un totale di almeno 11 vocazioni diverse possibili per la casa della comunità, tutte legittime e tutte sfidanti – ha detto Longo -. Il Pnrr ce le offre tutte e fisiologicamente dice sceglietene una e questa ampia autonomia dal mio punto di vista è una buona notizia, anche perché i territori hanno caratteristiche molto diverse”.
Ma le stime di spesa corrente legate al DM 71, ha sottolineato Longo, oltrepassano ampiamente gli investimenti del Pnrr.
Il docente ha proposto uno schema di bilanciamento tra le possibili soluzioni.
Infine ha suggerito una definizione di management pubblico, la funzione che dovrà farsi carico di queste scelte strategiche. “Si tratta della scienza o l’arte che cerca il confine tra ciò che bisogna sostenere come un vincolo e ciò che è modificabile, senza essere troppo cauti per paura dell’innovazione e senza essere vanamente ambiziosi, indicando un percorso che intercetta le persone e le comunità nel punto di maturazione in cui si trovano, offrendo nuovi orizzonti di significato e di speranza”.
Pnrr e community building: come passare dalla teoria alla pratica
Il dibattito sul modello e sulla realizzazione delle case della comunità è cominciato con l’intervento di Mariadonata Bellentani, che dirige l’Ufficio II Direzione programmazione sanitaria del Ministero della Salute, che ha ricordato come già il Decreto rilancio avesse previsto forme di sperimentazione di strutture di prossimità (progetto virtuosi lanciati in particolare in Toscana e raccontati da Barbara Trambusti, dirigente della Regione Toscana del Settore Integrazione Socio-Sanitaria) e ha posto l’accento sull’importanza della formazione, prevista dal Pnrr: “Con tutti i limiti, questo passaggio è entusiasmante e vorrei che lo fosse ancora di più per i professionisti della sanità e del sociale: è un salto atteso da trent’anni, su cui finalmente stiamo lavorando concretamente”.
È quindi intervenuta Alice Borghini dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas), ente che ha il compito di coadiuvare il Ministero della Salute nell’attuazione del Pnrr. “Non essendo ancora disponibile il decreto approvato, è difficile per le regioni andare a lavorare sulla programmazione. Noi stiamo lavorando a stretto contatto con il Ministero e le Regioni per attuare il Pnrr, che ci riporta a tempistiche estemamente stringenti. In questa fase stiamo chiedendo alle regioni di programmare gli interventi da inserire nella piattaforma predisposta col Ministero per farli diventare parte integrante del Contratto istituzionale di sviluppo: è una fase estemamente importante per le regioni, che necessitano di supporto sia in un’ottica di uniformità sul territorio nazionale che per la declinazione dei progetti delle case di comunità nell’ambito dei vari modelli organizzativi regionali”.
Antonio D’Urso, direttore generale dell’Asl Toscana Sud Est e vice presidente Fiaso, ha posto l’accento su alcune criticità del sistema. “La situazione è completamente diversificata nelle diverse regioni: in alcune, come quella dove lavoro, c’è già una rete abbastanza solida di case della salute, seppur diversamente organizzate, mentre altre non ne hanno una adeguata. Per questo temo che applicare un unico metodo a situazioni tanto diversificate potrebbe creare maggiori condizioni di iniquità nel sistema. A differenza di quanto affermato da Borghini, a me il modello proposto non pare molto largo ma abbastanza stretto: cosa sono le case della salute è stabilito dal DM 71 con contenuti abbastanza stabili e minimi margini di adeguamento nei territori”.
Tra gli altri dubbi sollevati da D’Urso, le tempistiche per la costruzione o per la ristrutturazione degli immobili, la carenza di personale tecnico, come ingegneri e informatici, necessario per seguire i lavori, e infine il basso numero di ore di presenza dei medici di medicina generale previsto nelle case della comunità, da un minimo di sei a un massimo di 18.
“Sono molto preoccupata, è un periodo di grandissime responsabilità – ha dichiarato la presidente di Federsanità Anci Tiziana Frittelli -. Si stanno susseguendo tanti interventi e noi siamo stati i primi a lanciare l’allarme su come la Missione 6 Salute si debba integrare con la Missione 5 – Sociale almeno su tre tematiche da cui non si può prescindere, cioè la non autosufficienza, la disabilità, le aree interne e le aree di deprivazione. L’impressione è che, ancora una volta, i comuni vadano da una parte, le regioni dall’altra e il livello nazionale ancora da un’altra”.
Pierangelo Spano, già direttore dei Servizi Socio-Sanitari dell’Ulss 7 Pedemontana, che dal 1° gennaio è direttore dei Servizi Sociali nell’ambito dell’Area Sanità e Sociale della Regione Veneto, ha detto: “A oggi l’esperienza del Pnrr rischia di essere una lettura quasi ribaltata dei fattori in gioco. Grande enfasi è stata posta sulle risorse e gira un virus pericoloso quasi quanto il Covid: intendere questi fondi come se fosse il bancomat del nonno ricco, mentre in realtà è un bancomat con soldi presi a prestito. Il Pnrr è scritto in maniera chiara e logica vorrebbe che le riforme guidassero gli investimenti, invece per ora è il contrario: è stata fatta un’operazione sui muri ma al buio, senza che sia ancora stato approvato il DM 71 e senza sapere come andrà a finire la trattativa con i medici di medicina generale”.
A concludere il dibattito è stato Gennaro Volpe, presidente Card: “Per la prima volta si investe sui distretti, che sono il luogo centrale della sanità territoriale, dove i cittadini possono portare problemi e bisogni e trovare risposte alle loro esigenze”. Al centro, la figura del direttore di distretto: “Per me lo è sempre stato ma in un contesto come quello attuale è ancora più importante che sia valorizzato e formato”.