Maria Teresa Bressi: «Regione che vai, cura che trovi (forse)», la cronicità raccontata dai pazienti

La cronicità raccontata dai pazienti attraverso il XVII Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità elaborato dal Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici (CnAMC) di Cittadinanzattiva.

Intervista a Maria Teresa Bressi, Coordinamento nazionale Associazioni Malati Cronici (CnAMC) di Cittadinanzattiva

È stato pubblicato anche quest’anno il Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità: come e da chi viene redatto il Rapporto e con quali obiettivi?

Come ogni anno, e questo è il diciassettesimo, il Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici (CnAMC) di Cittadinanzattiva ha interpellato tutte le associazioni di pazienti affetti da patologie croniche e rare che fanno parte del Coordinamento e ha proposto loro un questionario per la raccolta delle diverse esperienze. Attualmente le associazioni che fanno parte del CnAMC sono oltre 110 e quelle che hanno partecipato alla raccolta dati per il Rapporto di quest’anno sono state 47. L’adesione è libera, a titolo volontario, e ogni Associazione ci fornisce un punto di vista aggregato delle difficoltà dei pazienti rispetto alla loro patologia. Non tutte le Associazioni partecipano, anche perché la raccolta e l’analisi delle risposte sono complesse e necessitano di un’organizzazione piuttosto strutturata. Negli ultimi anni ci siano concentrati sul Piano Nazionale della Cronicità (PNC), con l’obiettivo di effettuare una mappatura dell’applicazione nelle diverse realtà dal punto di vista dei pazienti. Visto che non esiste una vera e propria valutazione del Piano fatta dagli enti preposti, noi cerchiamo di colmare questo gap con dati provenienti direttamente dai pazienti, anche per evidenziare le criticità maggiori che le persone con una patologia cronica devono affrontare, rispetto a quanto previsto dal PNC, affinché le Istituzioni possano, auspicabilmente, lavorare su quelle che sono le priorità dei pazienti.

Il titolo del Rapporto è piuttosto esplicito: “Regione che vai, cura che trovi (forse)”. Quali sono stati gli elementi di maggiore disuguaglianza?

Lo abbiamo intitolato così perché la differenza di accesso alle cure a livello regionale è il primo problema che incontrano le persone con una patologia cronica o rara, che sottende tutti gli altri. Ogni anno dedichiamo un focus speciale ad un argomento che sappiamo essere prioritario per le persone con patologie croniche, e quest’anno abbiamo scelto proprio le disuguaglianze regionali. Sicuramente il primo ambito riguarda l’invalidità e l’handicap, perché il riconoscimento di queste condizioni è completamente diverso non solo tra Regione e Regione, ma anche tra le ASL di una stessa Regione, con una discriminazione dei pazienti assolutamente ingiustificata. Il secondo aspetto è il sostegno psicologico perché, pur essendo previsto nel PNC, è garantito a macchia di leopardo, solo in alcuni casi, a volte solo per alcune patologie. Sugli aspetti più clinici, le differenze si riscontrano innanzitutto sui tempi di attesa per visite ed esami diagnostici, sulla presenza di percorsi (indicata da una Associazione su due), sull’accesso alla riabilitazione e sull’accesso ai farmaci (segnalati entrambi da circa la metà delle Associazioni).

Dalle vostre rilevazioni, si può identificare una categoria di soggetti maggiormente svantaggiati?

Esistono due tipi di svantaggio: il primo è legato alla residenza, perché purtroppo, ancora oggi, essere malati a Milano non è la stessa cosa che avere una patologia cronica in Calabria o in Basilicata o in Sardegna. La distanza tra il Nord e il Sud è abissale, e anziché colmarsi noi verifichiamo che si sta ulteriormente ampliando. Il secondo tipo di svantaggio è legato invece alla condizione della persona, in particolare per le persone con fragilità, di tipo clinico ma anche di tipo sociale ed economico. Ad esempio, se in una famiglia ci sono più persone affette da patologie croniche, l’impatto economico dell’assistenza e cura diventa molto pesante, a volte insostenibile, e genera una ulteriore condizione di svantaggio.

Nel vostro Rapporto vengono analizzati i risultati riportati dalle Associazioni del Coordinamento in relazione alle 5 fasi del macroprocesso di gestione della persona con cronicità previste dal PNC. Possiamo sintetizzare brevemente i risultati per ognuna di queste fasi?

I dati sono molteplici, ma possiamo cercare di sintetizzare alcuni contenuti principali. Partendo dalla fase I del Piano («Stratificazione e targeting della popolazione»), il primo problema riguarda i registri: più della metà delle Associazioni partecipanti ha segnalato che i registri esistono solo in alcune Regioni e, laddove sono presenti, comunque sono completamente diversi uno dall’altro e spesso non sono comunicanti. Oltre a rappresentare una grande fonte di disuguaglianza regionale, questo si ripercuote anche a livello amministrativo: in mancanza di registri, ad esempio, la programmazione sanitaria spesso viene fatta solo a partire da proiezioni che si rivelano a volte inadeguate. Con la conseguenza che, a fine anno, il budget delle aziende non è sufficiente e i pazienti corrono il rischio di veder interrotte le terapie.

Sulla fase II («Promozione della salute, prevenzione e diagnosi precoce») emerge la considerazione che la prevenzione non è vista come una priorità da Regioni e Istituzioni. Infatti, le Associazioni riportano che solo nel 4,3% dei casi i programmi di prevenzione vengono promossi dalle Regioni piuttosto che da Medici o Istituti universitari, mentre nella gran parte dei casi sono le Associazioni stesse che li promuovono. E questo che cosa produce? Che nell’82% dei casi le Associazioni segnalano ritardi nelle diagnosi, altro aspetto molto preoccupante.

Sulla fase III («Presa in carico e gestione del paziente»), la prima difficoltà riscontrata è la mancanza di integrazione tra medici di base e specialisti, segnalata dal 73% delle Associazioni. Il nuovo modello di governance che dovrebbe mettere il Paziente al centro, con i Servizi che gli ruotano intorno, oggi non esiste quasi da nessuna parte nel nostro Paese. Un altro problema relativo alla fase III riguarda l’assenza di continuità assistenziale, segnalata dal 60% delle Associazioni: una volta dimessi dall’ospedale, è molto difficile trovare l’assistenza adeguata sul territorio.

Per la fase IV («Erogazione di interventi personalizzati per la gestione del paziente»), la prima criticità riguarda il fatto che la personalizzazione delle cure, così come prevista dal PNC, viene effettuata solo in alcune Regioni. Rispetto alla gestione del paziente, i maggiori problemi si riscontrano innanzitutto sulle liste d’attesa, quindi sull’accessibilità a strutture di ricovero come le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) o le lungodegenze, e anche in relazione all’assistenza domiciliare, che continua a far registrare notevoli difficoltà per l’attivazione e l’accesso. Anche l’accesso all’ospedale risulta problematico, in quanto spesso si è costretti a ricoverarsi lontano dalla propria residenza, per liste d’attesa troppo lunghe e mancanza di strutture adeguate alla patologia, con un importante impatto anche sulla questione della mobilità sanitaria.

Sulla «Valutazione della qualità delle cure erogate», che costituisce la fase V, un aspetto previsto dal Piano ma che in realtà non viene mai valutato concretamente riguarda il sostegno psicologico. Il 64% delle Associazioni segnala che i pazienti vorrebbero una maggiore attenzione proprio su questo aspetto, seguito dalle difficoltà lavorative e dalle condizioni economiche. In generale, la valutazione della qualità dell’assistenza si concentra esclusivamente su elementi di tipo clinico, mentre gli aspetti e le difficoltà di natura economica, sociale o psicologica vengono totalmente trascurati: i pazienti ci dicono invece che questi aspetti sono prioritari nell’approccio alla cura di una patologia cronica, che farà parte della loro quotidianità per tutta la vita.

In particolare, sono emerse criticità in relazione all’assistenza farmaceutica?

La prima difficoltà riguarda i costi per la spesa farmaceutica, in particolare per i medicinali in fascia C, che sono a carico del paziente. Seguono le limitazioni delle Aziende ospedaliere o delle ASL che a volte, per motivi di budget, non sono in grado di erogare la terapia ai pazienti in modo continuativo, per tutto l’anno o il periodo necessario. Altre criticità importanti in questo ambito riguardano i tempi lunghi per l’immissione in commercio dei farmaci e la difficoltà ad accedere alle terapie innovative, due aspetti che fanno registrare inoltre differenze regionali enormi. Le Regioni si attivano con modalità diverse: ad esempio, in Lombardia un paziente accede ad un certo tipo di cure che possono non essere garantite invece in un’altra Regione, oppure sono garantite solo ad un numero selezionato di pazienti, sempre per questioni di budget.

Per quanto riguarda l’applicazione dei nuovi livelli essenziali di assistenza (LEA), ci sono state novità? Qual è la situazione, secondo il vostro rapporto?

Sull’applicazione dei nuovi LEA, in mancanza dell’approvazione delle norme sui tariffari, e dunque senza un’indicazione da parte del Ministero, tutto è lasciato alla volontà delle singole Regioni. E spesso questo si traduce nella mancata erogazione di servizi che sarebbero invece già previsti dalla legge. Oltre a ciò, c’è anche una mancanza di informazione su aspetti che dovrebbero essere già applicati, come l’esenzione per nuove patologie entrate nell’elenco: ad esempio, dalle Associazioni ci hanno segnalato questo problema in merito alla BPCO, per cui alcune ASL non hanno ancora riconosciuto l’esenzione ai pazienti.

Quali possono essere, a vostro parere, le azioni prioritarie per migliorare la gestione della cronicità nel nostro Paese?

Il Rapporto si chiude con la proposta di 6 di attività prioritarie per affrontare le difficoltà messe in luce dalle Associazioni. Innanzitutto, la prima cosa è l’applicazione delle norme che già esistono. L’Italia è un Paese molto avanzato dal punto di vista normativo e per la produzione di norme, che troppo spesso però rimangono solo sulla carta e non vengono applicate. Un caso eclatante sono i LEA, così come il piano di governo delle liste d’attesa o il riordino dell’assistenza territoriale.

Quindi, anche lo stesso Piano Nazionale Cronicità dovrebbe essere applicato realmente dalle Regioni e non solo recepito dal punto di vista formale, come sta capitando in alcune Regioni. È tempo di ripensare la gestione dei percorsi: l’applicazione sostanziale del PNC nelle diverse realtà dovrebbe comprendere un vero disegno di riorganizzazione dei servizi per rispondere ai bisogni delle persone in maniera strutturale e non episodica.

Un altro aspetto sul quale si potrebbe lavorare già da subito, ma che purtroppo non è prioritario per le nostre Istituzioni, è la riduzione della burocrazia, che complica inutilmente la vita di tante persone. Un esempio fra tutti riguarda il riconoscimento dell’invalidità e dell’handicap che, come abbiamo visto, rappresenta la prima fonte di disuguaglianza a livello regionale, ma esistono numerosi altri casi, come il rilascio delle protesi e degli ausili, delle esenzioni, i piani terapeutici.

La quarta priorità riguarda la maggiore attenzione alle condizioni di fragilità: la persona deve essere valutata non solo da un punto di vista clinico ma anche considerando le sue necessità di natura economica, sociale e psicologica, per metterla effettivamente nelle condizioni di potersi curare.

La quinta priorità è dedicata al riordino del settore farmaceutico perché, come ampiamente discusso in precedenza, le difficoltà di accesso alle terapie farmacologiche e le differenze a livello regionale sono tante e ingiustificate.

Ultimo punto da migliorare è il coinvolgimento dei cittadini e dei pazienti, a cominciare dal piano individuale, con la singola persona che deve essere protagonista del proprio percorso di cura, fino a raggiungere il coinvolgimento sistematico delle Associazioni nella governance della cronicità con l’applicazione del PNC a livello regionale e nazionale.

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