“È arrivato il momento di pensare alla salute mentale e non solo dal punto di vista clinico. Non possiamo non tener conto che spesso questa si origina nel tessuto sociale. Ancora troppo spesso pensiamo che un investimento in un certo settore possa garantire risultati solo lì. Non è così e sono tanti gli esempi che lo dimostrano”. Francesca Cornaglia insegna alla Queen Mary University di Londra ed è co-direttrice del MSc Mental Health Economics, il primo master di Economia della Salute mentale che partirà a settembre.
Cornaglia ricorda l’esempio islandese: in vent’anni il Paese è riuscito a abbassare drasticamente le percentuali di dipendenza da alcol e droghe negli adolescenti promuovendo politiche di inclusione sociale legate soprattutto allo sport. “In questo modo sono riusciti a risolvere indirettamente il problema, laddove i numerosi investimenti sul sistema sanitario avevano fallito”, rileva Cornaglia.
Per l’esperta occorrerebbe un’operazione analoga per la salute mentale: “L’aspetto positivo è che negli ultimi dieci anni è un tema sempre più al centro, sia del dibattito pubblico, sia degli studi scientifici. Il problema è che si procede in modo frammentato e manca la visione d’insieme”.
La funzionalità sociale
Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM, è considerato la “Bibbia” degli psichiatri e degli psicologi. Redatto e aggiornato periodicamente dall’American Psychiatric Association, contiene un elenco di tutti i problemi di salute mentale riconosciuti. “Credo che, invece di attribuire etichette che contribuiscono ad aumentare lo stigma sociale, sarebbe più utile andare a misurare la funzionalità sociale del singolo”, osserva Cornaglia, per la quale la salute mentale non è una dicotomia sano-malato, ma un continuum con da una parte i disturbi più lievi, come ansia e stress, e dall’altra quelli più, impattanti come la schizofrenia o il disturbo bipolare.
“Mi interessa capire se una persona può funzionare in un tessuto sociale. Può essere integrata? Riesce a mantenere un lavoro? Può avere una rete di amici che la sostengano se ha dei problemi? Esistono misure di questo tipo che si chiamano di ‘social function’”
“Quello che a me interessa è capire se questa persona può funzionare in un tessuto sociale. Può essere integrata? Riesce a mantenere un lavoro? Può avere un network di amici che la sostengano se ha dei problemi? Esistono misure di questo tipo che si chiamano di ‘social function’. Se non riusciamo a stabilire tutto questo rischiamo che queste persone si isolino sempre di più e che la loro salute mentale continui a peggiorare”.
Nel Regno Unito si sta sperimentando il social prescribing: il medico di medicina generale prescrive attività sociali o di comunità, permettendo una presa in carico che va oltre l’aspetto strettamente sanitario. Spesso il paziente viene affidato a una figura non sanitaria di riferimento che ha il compito di accompagnare la persona durante l’inserimento. “Purtroppo anche in questo caso si tratta di un’iniziativa frammentata: non sempre ci sono fondi a sufficienza e un paziente può ritrovarsi da un anno all’altro privato di un servizio che lo aveva fatto stare bene – commenta l’esperta – In Italia, da questo punto di vista, credo si sia più indietro. Se svolto con continuità, il social prescribing è un esempio di come si potrebbero davvero, nel piccolo, cambiare le cose”.
L’importanza dei dati
Il problema di iniziative frammentate come il social prescribing è che è difficile misurarne l’impatto, poiché non ci sono dati a sufficienza. Questo, secondo Cornaglia, è un problema che tocca tutto il settore della salute mentale: “In Europa sono pochissimi i Paesi che hanno dati sul follow-up dei pazienti dopo il ricovero, e Italia e Regno Unito sono due tra questi. Se non sappiamo cosa succede al paziente dopo che viene dimesso, ma abbiamo soltanto i dati di quando è in ospedale, non avremo mai un’evidenza consistente di cosa sta funzionando”.
Servono dati migliori su cosa succede al paziente dopo il ricovero, e uniformi, per rendere possibili confronti tra Paesi
Per l’esperta, per raccogliere dati migliori è fondamentale individuare quali sono le misure di output su cui vogliamo concentrarci. “È poi importante cercare di raccogliere sempre dati sulla salute fisica e su quella mentale, perché le due cose vanno sempre assieme: se mi presento in ospedale con un pugno nell’occhio, dobbiamo sapere perché è successo”. Infine, effettuare le visite di follow-up nei tempi previsti, per sapere che cosa succede ai pazienti una volta dimessi. “I dati, poi, devono essere uniformi, in modo da rendere possibili confronti con altri Paesi. Ci vorrà del tempo, ma sono convinta che tutto questo si possa fare”.
Una volta raccolti dati di qualità, è importante il lavoro interdisciplinare e tra strutture diverse: “Anche qui nel Regno Unito abbiamo un problema simile a quello che esiste in Italia: gli ospedali che appartengono a trust diversi non comunicano e se un paziente si rivolge a una struttura differente è costretto a ripetere l’esame. Per una presa in carico complessiva è necessario che questo non accada”.
Un Master in Economia della Salute Mentale
Proprio da questi nodi nasce la volontà, sei anni fa, di istituire un master che unisca professionisti diversi e che possa promuovere una visione a 360 gradi nella gestione della salute mentale. A settembre a Londra partirà il primo Master in Mental Health Economics al mondo.
“Non è stato semplicissimo ma ce l’abbiamo fatta – sorride la co-direttrice – Al momento abbiamo previsto due tipi di percorsi, a seconda del background: uno più tecnico, adatto a chi ha studi economici alle spalle e uno pensato per chi ha una formazione più clinica. Ci ha colpito molto avere iscritti dall’Asia e dall’Africa, ma non dall’Europa, come ci aspettavamo”.
Per Cornaglia la formazione non si esaurisce con gli specialisti: “Con loro dobbiamo puntare alla multidisciplinarietà, ma credo che sia importante, per prevenire la salute mentale, che esistano delle persone che, all’interno del tessuto sociale, possano intercettare dei malesseri. Non si tratta per forza di professionisti della salute, anche se farmacisti e medici di medicina generale giocano un ruolo fondamentale. Penso anche a insegnanti, assistenti sociali, educatori… Al momento per loro non è prevista alcuna formazione specifica e invece sarebbero preziosi per intercettare un bisogno e svolgere un lavoro di riduzione dello stigma e di facilitazione”.
Si stima che dal 50 all’80% di chi chiede aiuto non viene assistito
Si stima che dal 50 all’80% di chi chiede aiuto non viene assistito. “È una percentuale enorme, anche perché considera solo chi ha riconosciuto di avere un problema, superato lo stigma e si è rivolto a qualcuno. Oltre a loro c’è un sommerso difficilmente quantificabile”.
La situazione italiana
In vista dell’erogazione del bonus psicologo, la Fondazione Soleterre ha condotto un’indagine sulla popolazione adulta per appurare il livello di conoscenza dello strumento e la percezione della propria salute mentale.
I risultati, recentemente presentati alla Camera dei deputati, sono che:
- il 12% degli italiani considera la propria salute mentale cattiva o pessima;
- il 25% degli italiani afferma che la pandemia ha avuto ripercussioni negative sulla propria salute mentale;
- il 20% degli italiani ha avuto a che fare con la psicoterapia, per sé o per un familiare o per entrambi;
- il 67% di chi ha intrapreso un percorso di psicoterapia durante la pandemia ne faceva ricorso anche prima e il 93% di loro afferma che il percorso ha migliorato la propria salute mentale;
- il 60% di chi non ha fatto ricorso alla psicoterapia, invece, afferma di non averne bisogno o di stare bene così, il 23% crede di farcela da solo a superare ogni difficoltà, il 22% afferma di non usufruirne a causa dei costi proibitivi;
- il costo medio percepito di una seduta di psicoterapia è di 79 euro.
Per quanto riguarda il bonus psicologo,
- il 62% degli italiani dichiara di averne sentito parlare;
- il 28% di chi è a conoscenza del bonus psicologo afferma di conoscere anche il valore del contributo economico previsto dalla misura;
- il 75% degli italiani ritiene la misura molto o abbastanza utile;
- il 14% degli intervistati conosce la modalità di accesso al bonus;
- per il 44% degli italiani la procedura di accesso al bonus sarà semplice;
- il 24% degli italiani dichiara che ne usufruirà;
- tra coloro che ne usufruiranno, il 60% lo farà per sé e il 33% sia per sé che per un familiare.
“Misure come queste, seppure animate dalla buona volontà, sono poco utili – afferma Cornaglia – Un contributo una tantum che permette di accedere a pochissime sedute non risolve in modo strutturato il problema della salute mentale”.
Parallelamente all’erogazione del bonus psicologo, sono state approvate le linee programmatiche per il Bilancio di Salute, un tentativo per favorire l’integrazione tra il sistema di cura e quello di comunità nell’ambito della salute mentale. Questo modello già esiste in alcune Regioni: il tentativo adesso è quello di ampliarlo nel modo più uniforme possibile a tutto il territorio nazionale.
La direzione è quella dell’integrazione socio-sanitaria auspicata anche da Cornaglia, con tanto di indicazioni attuative come:
- la co-programmazione tra Aziende Sanitarie ed Enti Locali, con il coinvolgimento di tutti i soggetti potenzialmente interessati per identificare i bisogni, gli interventi, le modalità di realizzazione degli stessi e le risorse disponibili;
- la formulazione di elenchi di soggetti qualificati per la realizzazione di progetti Budget di Salute; questi saranno coinvolti in modo attivo nella definizione delle attività, dei percorsi e degli interventi socio-sanitari.
La strada sembra ancora lunga.