Intervista a Salvatore Torrisi, presidente FARE (Federazione delle Associazioni Regionali Economi e Provveditori della Sanità)
La gestione dell’epidemia da Covid-19 sta facendo emergere criticità non indifferenti su vari aspetti, tra i quali vi è l’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale come le mascherine o ventilatori polmonari. Tutti articoli la cui produzione è stata demandata nel corso degli anni ad aziende estere, spesso per mere ragioni di prezzo. Oggi molte di quelle aziende non esportano più in Italia, bloccate dai rispettivi paesi per far fronte alle emergenze interne dovute all’epidemia. L’Italia si scopre essere quindi un sistema dove le produzioni strategiche nel settore medicale sono carenti.
Ma con competenza, determinazione, esperienza si può uscire da questa crisi. Ad affermarlo è Salvatore Torrisi, Presidente della FARE, Federazione Delle Associazioni Regionali degli Economi e Provveditori della Sanità e direttore del Provveditorato dell’Azienda ospedaliera per l’emergenza Cannizzaro di Catania, con il quale abbiamo parlato dello scenario degli approvvigionamenti in sanità in questa emergenza coronavirus.
Quali sono le maggiori criticità che state affrontando in questi giorni?
Di sicuro la criticità più evidente è la mancanza di mascherine Fpp2 e Fpp3 ma anche di quelle chirurgiche: in questo momento è il problema più urgente e il più diffuso perché riguarda sia gli operatori in prima linea sia la popolazione. Presumo però che tra poco avremo carenza anche di altri prodotti elementari quali le garze o i circuiti per i ventilatori, per non dire dei ventilatori stessi.
Da anni ormai gli acquisti di tutti questi dispositivi sono fatti all’estero e i produttori locali altro non sono che meri rivenditori di dispositivi prodotti e comprati su altri mercati. La protezione civile fino ad oggi è riuscita a recuperare, con enormi sforzi, 5 milioni di mascherine, ma solo per la Lombardia ne servirebbero 300.000 al giorno.
Noi qualche settimana fa eravamo riusciti a reperire un carico di mascherine Fpp2 fabbricate in Tunisia, anche se a un prezzo superiore ai prezzi ordinari. Ma la Tunisia ha improvvisamente chiuso le proprie frontiere e quel carico di mascherine, di fatto, non è mai arrivato.
Il Politecnico di Milano ha coinvolto una dozzina di aziende specializzate in abbigliamento e tessuti tecnici per realizzare mascherine in poco tempo. Ma non c’è nessuno oggi in Italia che sia in grado di fare mascherine?
Sentivo giusto in questi giorni che un grosso produttore di mascherine professionali, come quelle che si usano in fabbrica o per certe lavorazioni industriali, si è riconvertito nella produzione di mascherine.
Ho saputo inoltre che si potrebbero coinvolgere i produttori di capi di abbigliamento intimo, come i reggiseni, che avendo i macchinari già pronti per realizzare la forma delle coppe, come quelle delle mascherine, potrebbero essere riconvertiti in modo veloce alla produzione di questi dispositivi. Ma non credo che si possa fare in pochi giorni, non si trasforma una catena produttiva in poche ore, anche se me lo auguro.
Anche per i ventilatori non siamo messi bene: al momento c’è solo un’azienda in Italia che li produce e ha dovuto bloccare le esportazioni all’estero per girare tutta la produzione in Italia.
Pochi giorni fa a nome della FARE ho mandato una lettera di ringraziamento a questa azienda emiliana, la SIARE Engineering, ringraziandoli non solo per quello che stanno facendo in questo momento, ma soprattutto per aver continuato a produrre in Italia in questi anni, in un paese che si è follemente innamorato della produzione estera disdegnando la propria, per poter comprare al prezzo più basso. Di tutte queste aziende domani, quando tutto sarà finito, sarà bene che il legislatore se ne ricordi, creando le condizioni affinché venga tutelata realmente la produzione nazionale anche a dispetto del prezzo, riconoscendo la sua specificità.
Un sistema che non sa garantire produzioni strategiche è un sistema debole
Spesso in questi giorni lei ha affermato che “un sistema che non sa garantire produzioni strategiche è un sistema debole”. Un’espressione forte. L’Italia è debole?
L’Italia negli ultimi quindici anni ha scelto di investire su ambiti capaci di mobilitare più consenso politico che altro, ha additato la nostra categoria come co-responsabile dello spreco di denaro pubblico, ha imposto una razionalizzazione dei costi fondata sulla concentrazione della domanda che, nei fatti, si è tradotta nella ricerca spasmodica del prezzo più basso.
A furia di criminalizzare chi comprava mascherine a dieci centesimi in più, le singole stazioni appaltanti e le centrali di acquisto hanno continuato a cercare solo il prezzo più basso, con il risultato di aver depauperato il nostro paese del tessuto produttivo del settore, spingendolo a dirottare le produzioni di dispositivi basici in paesi dove i diritti dei lavoratori non sono certo tutelati come qui da noi e che dunque possono abbattere fortemente i costi finali.
Il nostro sistema produttivo avrebbe dovuto essere maggiormente tutelato proprio perché non poteva permettersi di produrre a costi così bassi. La conseguenza ormai è sotto gli occhi di tutti: in Italia adesso non ci sono produttori di mascherine e, all’estero, i paesi che le producono, e dai quali normalmente importavamo, stanno chiudendo le esportazioni per garantirsene una adeguata disponibilità.
Questo è il rovescio della medaglia della globalizzazione e noi in Italia ci siamo trovati scoperti perché negli ultimi 15 anni non abbiamo fatto altro che inseguire il prezzo più basso, impoverendo il nostro territorio e soprattutto le piccole e medie imprese.
Inseguendo il prezzo più basso, abbiamo impoverito il nostro territorio e le piccole e medie imprese
A ottobre ci sarà il X convegno MePAIE Sanità. Il tema è ottimizzare la spesa sanitaria. Parlerete anche di questa emergenza che sta travolgendo gli approvvigionamenti?
Sarà un momento in cui affronteremo diverse tematiche non più solo dal punto di vista scientifico perché vorremmo che la politica ci ascoltasse. Quello che oggi è sotto gli occhi di tutti, noi della FARE lo stiamo dicendo da anni. Avevamo previsto tutto.
Quello che vediamo oggi è frutto di decisioni politiche che non dico allora fossero sbagliate, ma che non sono state per niente lungimiranti.
La politica deve guardare nel medio e lungo periodo e soprattutto valutare gli impatti delle proprie decisioni.
Il fatto che le Regioni possano muoversi in maniera autonoma sulla gestione sanitaria, e quindi sugli approvvigionamenti, può aver peggiorato la situazione?
In periodi di pace tutte le logiche vanno bene. Questo momento di emergenza, invece, segna il passo verso una svolta, perché ci si rende conto che c’è bisogno di un livello di coordinamento più alto, soprattutto per evitare che ognuno proceda autonomamente.
L’Europa è un esempio negativo: in questo momento di grande confusione, non esiste una cabina di regia a livello europeo e ogni Stato fa quello che vuole. Questa è la dimostrazione che chi in questi anni ha sempre ribadito che l’Europa altro non era se non un’unione basata su logiche monetarie e finanziaria forse non si sbagliava.
Purtroppo, l’Europa non si è dimostrata essere una comunione di intenti e di destini. In questo scenario occorre che le scelte politiche siano più accorte, che adottino una logica non dico di autosufficienza, ma che almeno ci consentano di rispondere ai bisogni del paese in modo adeguato, senza dipendere dalle produzioni di altri paesi.
Con competenza, determinazione, esperienza si può uscire da questa crisi
Come giudica la Lombardia che sta andando per i fatti suoi, soprattutto sugli approvvigionamenti?
Voglio essere assolutamente sincero: il virus ha scelto di iniziare la sua azione in Lombardia, ma se fosse partito in altre regioni del Centro Sud sarebbe stato un disastro. La Lombardia sta dando l’esempio a tutti noi, sta fissando i protocolli per gestire al meglio la situazione. E, soprattutto, sta dando tempo al Sud per organizzarsi.
I colleghi lombardi, piemontesi, veneti ed emiliani sono il nostro orgoglio così come tutti gli operatori sanitari di quelle regioni.
Se la curva di contagi, come ci auguriamo, dovesse decrescere al Nord e aumentare al Sud, gli approvvigionamenti extra che non dovessero più servire nelle regioni del Nord potrebbero essere dirottati nelle altre regioni. Un po’ come sta facendo la Cina: adesso che l’epidemia è sotto controllo stanno cercando di smistare la sovra produzione di dispositivi medici dove c’è bisogno.
Il ruolo dei provveditori, e di chi in generale si occupa degli acquisti nelle strutture pubbliche, in queste ore è quanto mai centrale.
La nostra posizione si è rivelata strategica in questa situazione. In momenti come questi, ci vuole competenza, consapevolezza e preparazione. Per questo ancora oggi non capisco l’enfasi su concetti come la “rotazione degli incarichi “all’interno del SSn voluta qualche tempo fa (in vigore dal 2009 con il decreto legislativo 150/2009, voluto per contrastare fenomeni di corruzione, ndr).
Mettere in una posizione di estrema responsabilità come la nostra una persona non competente per quel ruolo (magari bravissima in altro) può essere catastrofico. Lei si immagini se, in un frangente di questo, la nostra funzione fosse stata svolta da colleghi che non hanno esperienza in questo campo.
Non si può ragionare in modo astratto, dobbiamo avere un’organizzazione preparata a rispondere in caso di emergenza: anche se per trent’anni non succede niente occorre che, quando succede qualcosa di straordinario, le persone giuste e competenti siano al posto giusto.
Esperienza, nel nostro lavoro di provveditori, non significa solo conoscere e applicare le leggi, ma conoscere gli interlocutori più efficienti e sapere come muoversi. La competenza è una delle ragioni per cui un sistema funziona e aver sposato logiche, come quelle della rotazione, basandosi su motivazioni astratte, non va bene. Il vero problema è che noi che facciamo questo lavoro abbiamo imparato a farlo da soli. Non esiste un percorso formativo e professionale nazionale, la nostra Federazione è l’unica in Italia che da 70 anni fa formazione al personale che si occupa di approvvigionamenti.
Che cosa si sente di dire a chi lavora nelle centrali di acquisti e che fa il provveditore come lei?
Li vorrei tranquillizzare, ma so che non ne hanno bisogno. Grazie alla nostra esperienza siamo in condizioni di gestire al meglio questa situazione.
Non ho sentito da nessuna parte colleghi disperati perché non riescono a gestire le modalità per affrontare l’emergenza, semmai sono disperati perché non riescono a reperire il materiale necessario.
Noi sappiamo esattamente cosa fare e che strumenti utilizzare. Io, ad esempio, adesso mi sto occupando di reperire ventilatori per la Sicilia. So come muovermi, so che riesco in tre o quattro giorni a far partire le procedure necessarie per assicurare gli approvvigionamenti. Il mio problema semmai consiste nel trovare gli interlocutori in grado di garantirmi la fornitura, per le ragioni di cui abbiamo già parlato.
In questo momento non cerchiamo grandi quantitativi, stiamo piuttosto reperendo quello che troviamo a stock, nella speranza di trovare qualcosa effettivamente.
Facciamo finta di essere già nell’epoca post virus: quale sarebbe la prima cosa che chiedereste al Ministero della Salute?
Bisogna cambiare l’assetto normativo, premiare la professionalità, mettere persone decise e competenti nei ruoli di comando e trovare modi per privilegiare la filiera produttiva nazionale in grado di produrre i dispositivi medici. Perché non possiamo sapere quello che ci riserva il futuro: un’epidemia come questa potrebbe non capitare più.
O capitare di nuovo, a breve.
Dobbiamo essere pronti e poter agire velocemente, senza norme restrittive, controlli inutili e adempimenti burocratici snervanti.
Nel nostro settore, e parlo soprattutto del mio ruolo di provveditore, abbiamo più controllori che gente che deve essere controllata!
Credo che abbia più senso lasciar la vorare le persone che lavorano bene, guardando soprattutto i risultati, piuttosto che subissarli di continui controlli.
Il modello di gestione della crisi in Italia ultimamente è il “Modello Genova”, dove è stato nominato un commissario per gestire la ricostruzione del Ponte Morandi (crollato ad agosto del 2018, ndr) dandogli pieni poteri di deroga alle leggi. Quindi significa che è noto, anche a livello governativo, che il problema dell’incapacità nazionale di portare a compimento investimenti pubblici sia la pletora di leggi, regolamenti, sentenze, linee guida che impediscono di lavorare bene.
Che cosa ne pensa della nomina di Domenico Arcuri come commissario per l’emergenza coronavirus?
È una notizia straordinaria: ben vengano figure come queste, competenti e determinate, perché non possiamo più permetterci di avere uomini non adeguati nei ruoli operativi. Quando parlo di comando non mi riferisco alla politica, perché posso comprendere che un politico non abbia specifiche conoscenze tecniche, ma chi gestisce l’apparato amministrativo che gli sta intorno deve essere assolutamente competente e determinato.
La logica della concorrenza a tutti i costi, così desiderata anche a livello europeo, dovrà cambiare per forza di cose. Non si può criminalizzare un produttore locale perché non riesce a offrire sconti più bassi di un paese extracomunitario, ad esempio nella produzione di mascherine, perché poi ci ritroviamo in una situazione come questa. Ogni paese dovrà attrezzarsi per produrre internamente e in modo protetto i dispositivi medici e le strumentazioni utili per il proprio sistema sanitario. Perché abbiamo visto che in un’emergenza come questa, il libero mercato, la globalizzazione e la concorrenza non ci hanno aiutato a prestare il necessario supporto ai ricoverati per il Covid-19. Credo che dopo questa pandemia, anche nel nostro settore, niente sarà più come prima.