«Avevo 14 anni, mia nonna si era ammalata di Alzheimer e vedevo che i farmaci che prendeva avevano effetti limitati se non addirittura nulli. Ero a Taranto, non sapevo a chi fare domande di ingegneria biomedica, non c’erano centri di ricerca e quindi ho cominciato a studiare e a fare esperimenti da solo».
È una storia avvincente quella che racconta a TrendSanità Guido Putignano, che ora di anni ne ha 22 ed è considerato uno dei giovani ricercatori più brillanti del mondo in tema di biologia sintetica con collaborazioni e studi dal Politecnico di Milano, a Cambridge, da Harvard a Zurigo.
«Mi sono avvicinato all’ingegneria biomedica, per cercare di risolvere i problemi complessi di questo secolo, soprattutto quelli legati alla biologia – ci racconta Putignano –. Ho iniziato a capire che spesso i medicinali trattano più i sintomi che la causa delle malattie, specialmente quelle croniche come l’Alzheimer o i tumori, che sono molto complesse. I farmaci attuali rimangono nel corpo per poche ore, giorni al massimo. Le terapie più avanzate, come gli anticorpi o le terapie cellulari, possono durare settimane o anche anni, con la possibilità di cambiare radicalmente l’approccio, curando la malattia e non solo i sintomi».
Per studiare tutto questo, però, il giovane ricercatore ha dovuto lasciare la Puglia, anche se il legame con Taranto non si è mai interrotto tanto che dall’11 al 13 ottobre Putignano ha fatto in modo che la sua città sul mar Ionio diventi la capitale mondiale della biomedicina con decine di relatori in arrivo da ogni dove, persino dalla NASA, per i Taranto Biotech Days di cui TrendSanità è media partner.
Ma torniamo a qualche anno fa e alla storia di Putignano per capire cos’altro ha in mente per la sua città.
Che tipo di esperimenti faceva a 14 anni?
«Perlopiù per curiosità, cose semplici, come sensori per monitorare il corpo, o piccoli esperimenti meccanici. Non erano certo molecolari, ma servivano a capire il funzionamento di base. E lì ho capito che serviva un approccio ingegneristico per risolvere i problemi biologici. Alla fine, l’ingegnere per definizione risolve problemi, no? Mi ricordo che al quarto anno di liceo provavo a fare tutto da solo, ma non riuscivo a fare quasi nulla anche perché era come stare su un’isola deserta, non conoscevo nessuno che potesse guidarmi o darmi un riscontro».
Dove faceva questi esperimenti, in un laboratorio scolastico?
«No, a casa. Avevo messo insieme un piccolo laboratorio. Giravo per negozi, raccoglievo pezzi e costruivo quello che mi serviva. Facevo prove su prove, un po’ alla cieca. E questo spirito di curiosità è rimasto, anche se adesso, finalmente, ho trovato un ecosistema che mi supporta. Poi, verso la fine del liceo, ho iniziato a concentrarmi su attività ingegneristiche e di ricerca, soprattutto online. La cosa bella di Internet è che quello che prima potevi fare solo a Los Angeles o San Francisco, ora lo puoi fare ovunque, anche a Taranto. Ho iniziato a fare coding e ad approfondire le nuove tecnologie, come la realtà virtuale e sintetica. Cinque, sei anni fa erano quasi sconosciute, ora sono temi comuni».
E poi immagino che all’università tutto questo si sia incanalato verso la ricerca vera e propria, giusto?
«Esatto, dal gioco si è passati alla realtà. Al secondo anno di università ho vinto una borsa di studio molto competitiva per fare ricerca in laboratorio. Ho lavorato a Zurigo e ho presentato i miei risultati a Cambridge. Quello studio era sugli organoidi cerebrali, cioè cellule che si dispongono in 3D per simulare un organo. In futuro, potrebbero essere usati per testare farmaci specifici su misura del paziente. Poi ho lavorato su tecniche di ingegneria cellulare, in particolare sulle CAR-T cells, cellule ingegnerizzate con una proteina che le rende molto efficaci contro i tumori. Successivamente, ho fatto un progetto con Harvard sul cellular programming, cioè come trasformare un fibroblasto in una cellula staminale. È importante per capire come migliorare le terapie e ridurre i costi. Con approcci computazionali siamo riusciti a migliorare il tasso di successo della trasformazione cellulare di oltre il 40%, riducendo così i costi delle terapie di quasi 50 volte».
E così arriviamo all’evento di Taranto?
«L’evento non vuole esaurirsi in tre giorni. Nasce dal bisogno di creare un ecosistema di ricerca sostenibile. La città ha ricevuto dei fondi europei per fare un centro di ricerca, ma senza un contesto adeguato rischia di essere una “cattedrale nel deserto”. L’obiettivo è creare un luogo di incontro locale, nazionale e internazionale per discutere delle nuove frontiere tecnologiche e fare innovazione sul territorio. Abbiamo iniziato in pochi, ma ora siamo un team di 120 persone, tutte mosse dalla voglia di cambiare le cose».