Degenze ridotte del 25%, minori accessi negli ospedali, monitoraggio efficiente dei pazienti cronici e assistenza ottimale di pazienti tradizionali. Non solo. Triage virtuali che avrebbero potuto evitare i contagi dei medici e degli operatori sanitari di questi giorni, monitoraggio in tempo reale dei pazienti colpiti da Covid-19 e in isolamento domiciliare. Meno morti. Una sola parola per realizzare tutto questo: telemedicina.
Se prima del 20 febbraio 2020, data in cui si ipotizza sia iniziata l’epidemia di Covid-19 in Italia, parlare di telemedicina nel nostro Paese era più un esercizio di stile che un argomento di discussione operativa, da poco più di un mese sta diventando il mantra, sussurrato, tra le corsie di ospedali, negli ambulatori di medicina generale, nelle stanze del Ministero della Salute e sul tavolo degli assessori al Welfare delle varie Regioni italiane. È un sussurro, perché a dirlo bene e a chiara voce fa male: come sarebbero andate le cose nel nostro Paese se la telemedicina fosse stata già una realtà pienamente operativa, invece che essere applicata in modo frammentario e poco coerente tra tutte le Regioni? E, applicata in tempi normali, non in emergenza, quanto potrebbe far risparmiare al Servizio Sanitario Nazionale?
Al momento nessuno ha voglia di rispondere. Ci proviamo noi, facendo un quadro della situazione italiana con l’aiuto degli esperti della materia.
Nel nostro Paese la telemedicina, vale a dire l’insieme delle tecniche mediche e informatiche che consentono la cura e l’assistenza del paziente a distanza, ha visto un primo tentativo di regolazione con le Linee di indirizzo Nazionali in Telemedicina sancite in Conferenza Stato Regioni il 20 febbraio 2014. Esattamente sei anni prima dell’inizio dell’epidemia che, forse, la renderà davvero operativa.
Queste linee guida sono state poi recepite dalle varie Regioni, ma a livello applicativo si è fatto ben poco.
La telemedicina può fare la differenza soprattutto se è usata in tutte le Regioni
A parte qualche esempio virtuoso in Lombardia e in Veneto dove si applica la telemedicina per la gestione dei pazienti cronici e alcuni casi sparsi in altre Regioni in italiane, manca un progetto nazionale unitario, che sia coerente e interoperativo. Perché la telemedicina può fare la differenza soprattutto se è usata in tutte le Regioni, perché a livello ideale il consulto può avvenire da qualsiasi parte del Paese per qualsiasi paziente: un aspetto da non sottovalutare dell’assistenza a distanza e che in questi giorni di emergenza, in cui medici dei focolai principali sono sovraccarichi, avrebbe fatto la differenza.
Che cos’è la telemedicina?
Gli ambiti più diffusi di applicazione della telemedicina sono la continuità delle cure domiciliari dei pazienti fragili e cronici, ma anche la gestione dell’assistenza di pazienti tradizionali e la possibilità di effettuare diagnostica di laboratorio e per immagini senza dover andare in ospedale. È un mondo dal potenziale enorme, che prevede la possibilità di connettere alla persona dispositivi indossabili in grado di trasmettere parametri vitali al medico, di fare triage virtuali senza dover andare al pronto soccorso, di misurare la saturazione del sangue o fare un’ecografia toracica senza muoversi da casa.
Il potenziale è enorme: dai dispositivi indossabili al triage virtuale, dal monitoraggio dei parametri vitali agli esami a distanza
Quando parliamo di telemedicina parliamo soprattutto di:
- televisita: la visita virtuale che il medico fa al paziente tramite connessione del pc o del telefonino, con programmi come Skype o Zoom. È un atto sanitario a tutti gli effetti, dal quale può risultare una diagnosi e una prescrizione di farmaci, se necessari
- teleconsulto: è un’indicazione di diagnosi e/o di scelta di una terapia senza la presenza fisica del paziente, è un consulto online tra medici in merito a un paziente specifico
- telecooperazione: è un atto in cui un medico aiuta un altro medico o professionista sanitario impegnato in un’attività specifica. Si parla di telecooperazione ad esempio quando si assiste un operatore o un medico da remoto, in caso di emergenze
- telemonitoraggio: è usato soprattutto per gestire i pazienti cronici e consiste nel monitorare i parametri del paziente attraverso specifici device che rilevano informazioni come glicemia, peso corporeo, pressione del sangue, saturazione. La registrazione e trasmissione dei dati può essere automatizzata o realizzata da parte del paziente stesso o di un operatore sanitario. I dati solitamente sono trasmessi a una centrale che li analizza ed eventualmente contatta il medico per accertamenti.
Fino a qualche tempo fa la telemedicina era pensata soprattutto per gestire i pazienti cronici, che nel nostro Paese rappresentano il 40% della popolazione e sono destinati ad aumentare. In Lombardia alcune migliaia di pazienti sono seguiti con il telemonitoraggio, ma il resto della popolazione fino ad oggi della telemedicina sapeva ben poco. E in questi giorni di emergenza, dove a essere a casa sono anche persone con sintomi lievi, la mancanza di una telemedicina efficace si sta facendo sentire.
La telemedicina di questi giorni consiste soprattutto nell’utilizzare WhatsApp, email e Skype per parlare con il proprio medico di medicina generale. Il quale, in caso di sospetto Covid-19, fa alcune domande, sempre da remoto, al paziente, seguendo le linee guida in materia di triage telefonico predisposte ad hoc dal Ministero della Salute e verifica le informazioni con la cartella del paziente che ha già in possesso. In altri termini, il medico incrocia le risposte al questionario con quelle della cartella clinica per avere una completa valutazione del paziente. Se dal quadro clinico dovesse emergere una grave sintomatologia, il medico potrà indirizzare il paziente verso l’ospedale, altrimenti il paziente rimane a casa. Questo è il massimo della telemedicina al momento. Non poco, per chi volesse vedere il bicchiere mezzo pieno, ma con la telemedicina (vera) non avrebbe dovuto neanche essere necessario fare il questionario al paziente: si sarebbe visto tutto dai parametri rilevati dai device indossabili.
Quanto è usata la telemedicina in Italia?
Ma che rapporto c’è tra i medici di medicina generale e chi si occupa di procurement negli ospedali con la telemedicina? Perché le televisite non sono argomenti che riguardano solo i medici di famiglia, ma tutto il sistema sanitario nazionale che deve esser costantemente connesso e conoscere il contenuto delle cartelle dei pazienti curati dai medici di medicina generale. Cosa che al momento non avviene.
Secondo il rapporto 2018-2019 dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano, l’email è lo strumento più utilizzato dai medici specialisti (81%) e di famiglia (85%). Il 57% e il 64% usano WhatsApp per fissare/spostare appuntamenti, ma anche per scambiare dati e informazioni di tipo clinico. La spesa per la sanità digitale nel 2019 è cresciuta del 7%, toccando 1,39 miliardi, concentrati soprattutto su cartelle cliniche elettroniche, sistemi dipartimentali e intelligenza artificiale. Ma il capitolo telemedicina non è confortante: sempre secondo questo rapporto, nel 2019 la diffusione della telemedicina è stata stabile.
Interessante è capire come i medici e le aziende sanitarie considerano la telemedicina
Gli operatori delle strutture sanitarie hanno dichiarato di utilizzare principalmente soluzioni in fase di sperimentazione. Tra i medici di medicina generale, solo il 4% del campione del rapporto utilizza soluzioni di teleassistenza e il 3% di televisita e telesalute. Più alta, invece, la diffusione di servizi di telerefertazione, in particolare in alcune attività diagnostiche di primo livello quali ad esempio la spirometria (21%) e l’elettrocardiografia (19%). Per quello che riguarda il procurement, sempre secondo il rapporto del Politecnico di Milano, l’ente pubblico sanitario vede spesso gli strumenti di procurement come un ostacolo alla digitalizzazione, invece che un volano per l’innovazione. Attraverso l’analisi di un database fornito da Telemat, contenente le procedure d’appalto per acquisti di innovazione digitale della sanità italiana dal 2014 al 2018, è emerso che l’importo netto delle gare aggiudicate dopo il 2016, a fronte di una sostanziale stabilità del numero di gare, è aumentato, a causa di una crescente aggregazione degli acquisti a livello regionale, e che il 72% delle gare ha avuto una durata maggiore di 150 giorni.
Il processo di procurement è visto dalle aziende sanitarie come un processo critico soprattutto per la sua struttura rigida (barriera espressa dal 41% dei Direttori Amministrativi), legata a una complessa normativa di riferimento (24%). La barriera più sentita è però rappresentata dalla mancata conoscenza degli strumenti con cui comprare tecnologie digitali (47%) che impedisce, quindi, di accedere anche a forme innovative di procurement che potrebbero facilitare sia l’azienda sanitaria sia il fornitore nel portare avanti un progetto di innovazione.
Quanto si potrebbe risparmiare grazie alla telemedicina?
Lo abbiamo chiesto a Massimo Mangia, editore di salutedigitale.blog, specialista della salute digitale con oltre 30 anni di esperienza come consulente strategico di aziende sanitarie e imprese del settore e docente di e-health presso la LUISS Business School di Roma. «Diversi studi, internazionali e nazionali hanno provato a calcolare il risparmio – afferma – confrontando campioni di pazienti assistiti con telemedicina con soggetti assistiti in modo tradizionale, una sorta di trial a doppio campione. Quello che emerge da questi studi è che chi utilizza i servizi di telemedicina non solo accede meno alle strutture ospedaliere ma è soggetto anche a meno ricoveri, questo perché, essendo monitorato costantemente a distanza, il medico può intervenire prima dell’aggravarsi dell’eventuale patologia».
Questi studi hanno messo in evidenza riduzioni delle giornate di degenza anche del 25%. Per tradurre queste percentuali in risparmio economico di solito si somma il costo medio della degenza per il numero di giornate risparmiata. Ma, avverte Mangia, è un calcolo troppo semplice. «Questo criterio indica un risparmio figurato/potenziale, ma che diventa effettivo solo se si accompagna a una riorganizzazione della rete ospedaliera e assistenziale, ad esempio distribuendo gli infermieri sul territorio o diminuendo i posti letto. In realtà nel nostro sistema, che è molto rigido, questa ottimizzazione delle risorse spesso non avviene quindi quel risparmio figurato non si traduce in un risparmio effettivo: se anche riduco del 25% le degenze grazie alla telemedicina, ma poi non intervengo per ottimizzare le risorse, i costi fissi mi rimangono. Al momento, se parliamo di risparmio effettivamente generato, la telemedicina funziona bene in sistemi sanitari più flessibili come in USA o Israele».
Il monitoraggio continuo a distanza riduce gli accessi alle strutture ospedaliere e i ricoveri senza penalizzare l’assistenza sanitaria
In Italia, a fronte di una sanità pubblica che non riesce ad attivarsi efficacemente, gli operatori della sanità privata si stanno invece muovendo molto rapidamente, offrendo servizi di telemedicina privata. Servirebbe un grande progetto di riorganizzazione basato sulle tecnologie. In Spagna ci sono molti esempi virtuosi, come in Catalogna. «Bisogna però lavorare a un progetto che punti al cambiamento dei modelli sanitari – ribadisce Mangia – e a ridisegnare processi per cambiare il modo con cui si assistono i pazienti. In questo le tecnologie possono aiutare. Ad esempio, l’intelligenza artificiale ci può permettere di monitorare un numero elevato di pazienti, riducendo il numero di persone che servono per controllare i dati che arrivano, perché ci pensa l’intelligenza artificiale a elaborare e interpretare i dati. È lo Stato Centrale che dovrebbe obbligare le Regioni ad attivare progetti di questo tipo e fissando degli obbiettivi nel tempo».
E come potrebbe lo Stato “obbligare” le Regioni a impegnarsi in questo senso? «La spinta forte potrebbe essere quella economica – suggerisce Mangia – pensiamo alla ricetta dematerializzata: è partita da un’esigenza economica su spinta del Ministero dello Sviluppo Economico che ha obbligato le Regioni ad adeguarsi e digitalizzarsi. Questi Ministeri (Innovazione, Finanza) oltre a quello della Salute dovrebbero spingere in questa direzione. Il momento è propizio».
E infatti il ministero dell’innovazione sembra andare in questa direzione: il 27 marzo si è chiusa la call nazionale organizzata dal Ministero dell’Innovazione per individuare la tecnologia più adatta per monitorare in tempo reale gli spostamenti dei cittadini, attraverso un’App installata sui loro smartphone. Al Ministro sono arrivate dal mondo dell’impresa e della ricerca 319 possibili soluzioni per il monitoraggio attivo del rischio di contagio e 504 proposte per le App di telemedicina e assistenza domiciliare dei pazienti. Nei prossimi giorni una task force di esperti esaminerà le proposte e deciderà quali siano le più adatte allo scopo.
Ma questa è una “chiamata alle armi” nazionale e in un momento di estrema emergenza. Quando la pandemia sarà finita, per implementare un sistema di telemedicina efficace sarà necessaria una regia nazionale e competente, perché spesso molte Regioni non hanno queste competenza e c’è il serio rischio di frammentare o sprecare risorse in iniziative che rimangono fini a se stesse e non diventano sistemiche. Per la telemedicina serve un piano nazionale. La “provvida sventura” del momento, per citare Alessandro Manzoni, potrebbe indurre a una svolta nazionale in questa direzione.
Oggi più che mai è necessaria una regia nazionale e competente
Massimo Mangia poi fa una riflessione su questa epidemia e su come la telemedicina non solo avrebbe potuto aiutare a gestirla meglio, ma avrebbe potuto a prevederla.
«Se avessimo avuto un sistema di informazioni sanitarie digitalizzate – afferma l’esperto – ci saremmo accorti dell’epidemia molto prima: a dicembre 2019 c’è stato un aumento delle polmoniti inusuale e i medici di famiglia lo avevano rilevato, ma i loro software non sono connessi con il SSN se non per comunicare le prescrizioni. Se avessimo avuto accesso a queste informazioni (come accade nei paesi del Nord Europa) avremmo visto l’epidemia arrivare già a dicembre dello scorso anno. E con le televisite già implementate, la gestione dell’epidemia sarebbe stata completamente diversa».
Uno dei motivi per cui c’è tanta resistenza ad applicare la telemedicina dipende dalla rimborsabilità. Ma per Sergio Pillon, medico angiologo, tra gli autori delle linee guida nazionali sulla telemedicina, consulente esterno dell’Istituto Superiore di Sanità e componente della European Public Health Alliance, le cose non stanno proprio così: «Le linee guida non sono semplici indirizzi, perché sono state recepite dalla conferenza Stato Regioni e sono state inserite nella verifica dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Si tratta di un documento nazionale che definisce cosa si può fare e come si può essere rimborsati. La televisita, ad esempio, può essere rimborsata come una visita normale, è già prevista nel tariffario nazionale». Quindi, bando alle chiacchiere, la televisita e le telerefertazioni si potrebbero già fare oggi. Eppure, c’è una sorta di resistenza al cambiamento dura da combattere in Italia. Ma basterebbe guardare gli esempi virtuosi che abbiamo in casa per attingere da chi ha già esperienza e imparare a servirsi della telemedicina in modo efficace.
La televisita è già prevista nel tariffario nazionale e può essere rimborsata come una visita normale
Il CIRM, Centro Internazionale Radio Medico fondato nel 1934 e che fu presieduto da Guglielmo Marconi, fa telemedicina da 86 anni. Si occupa di dare assistenza sanitaria agli uomini che lavorano sulle navi. Sergio Pillon è il direttore medico. «Abbiamo in ricovero virtuale 6.000 pazienti all’anno e visitiamo virtualmente le persone sulle navi che si approcciano all’Italia. Dieci medici di guardia h24 che fanno telemedicina. Facciamo il triage virtuale, seguendo un protocollo ben definito, perché fare telemedicina senza un protocollo è inutile».
Come si sarebbe potuta gestire l’emergenza COVID-19 con la telemedicina?
Uno dei motivi alla base della poca diffusione della telemedicina in Italia è l’alfabetizzazione digitale, molto scarsa tra i medici e operatori sanitari del nostro paese. E Pillon non ci gira intorno: «Oggi i medici italiani stanno pagando con la vita la mancata applicazione della telemedicina. Ci voleva il Covid-19 per dare una “bastonata in testa” alla resistenza al cambiamento».
La televisita va proceduralizzata, non ci può basare su WhatsApp per mandare referti e quesiti medici. Ma al momento queste piattaforme sono l’unico mezzo di comunicazione efficace. «Io lavoro su un gruppo FB – ammette Pillon – si chiama “Ecografia toracica”. Stiamo salvando delle vite con questo gruppo, perché condividiamo video con ecografi e ci scambiamo opinioni con colleghi sull’ecografia toracica, l’esame al momento più sensibile per individuare lesioni polmonari precoci che segnalano un peggioramento dovuto al Covid-19». E l’ecografia toracica è un esame che si può fare anche a domicilio, con un apposito dispositivo da collegare via smartphone. Se la telemedicina fosse già operativa, un medico in centrale potrebbe collegarsi con i pazienti da monitorare a casa e controllare come stanno i polmoni attraverso queste semplice esame, che può fare il paziente da solo oppure con l’aiuto, sempre da remoto, di un operatore sanitario.
Ma oltre a monitorare i pazienti costretti a rimanere a casa, la telemedicina, se fosse stata implementata in tutte le Regioni, avrebbe potuto davvero fare la differenza: i focolai di Lodi e Bergamo si sarebbero potuti gestire monitorando i pazienti a domicilio anche con l’aiuto di altri medici, collegati da remoto da diverse parti di Italia, invece di gravare tutto il peso sui medici locali.
Il monitoraggio del paziente potrà avvenire anche tramite un selfie?
Venendo a quello che possiamo fare concretamente a partire da oggi, si prospettano soluzioni interessanti. In Israele è stata sviluppata una App chiamata Binah (www.binah.ai) che permette di monitorare i parametri dei pazienti solo facendo un selfie: dalla respirazione, alle pulsazioni fino alla saturazione dell’ossigeno del sangue. Tutto con una foto. Sembra fantascientifico, in realtà diversi governi stanno correndo per poter utilizzare questa App che ancora non è in commercio. Sergio Pillon ha colto la palla al volo e, tramite uno sponsor che si preoccuperà di connettere i dati di questa App con il software dei medici, ha deciso di partecipare alla call del Ministero dell’Innovazione. Pillon la sta testando da tre mesi ma si sta anche attivando per poterla dare ai pazienti domiciliati in questa emergenza, anche subito, senza aspettare la certificazione.
Oltre alla telemedicina a casa, la tecnologia potrebbe proteggere gli operatori sanitari negli ospedali, attraverso tecnologie di smart monitoring che evitano i continui contatti con i pazienti. Sempre una società israeliana ha inventato una sorta di “cerotto” chiamato Biobeat (www.bio-beat.com) che si fa indossare al paziente e rileva tutti i principali parametri per monitorarlo. In questo modo gli operatori sanitari non devono recarsi frequentemente nelle stanze per controllare i pazienti.
Da ultimo, in Italia si sta distribuendo il dispositivo Cnoga MTX, una sorta di pulsossimetro che rileva anche i parametri dell’emogasanalisi, un esame che si fa di solito prelevando il sangue arterioso per controllare la saturazione di ossigeno nel sangue.
Questa epidemia è ancora in corso, ma non è detto che per la prossima aspetteremo molto tempo. Dovremo farci trovare preparati e strutturati. E la telemedicina dovrà diventare la regola. Una stessa regola, si spera, applicata a tutte le Regioni, nello stesso modo.