In miglioramento la connettività, ma arranchiamo per competenze. È questo il quadro delineato dal Digital Economy and Society Index (DESI) 2022 per il nostro Paese. L’Italia quest’anno si posiziona diciottesima su ventisette Stati per il grado di digitalizzazione, in crescita rispetto alla ventesima posizione del 2021 ma ancora al di sotto della media Ue. Cosa significa e quali prospettive si aprono? Ne parliamo con l’avvocato Ernesto Belisario, esperto di diritto delle tecnologie e innovazione nella Pubblica Amministrazione.
Quanto è “digitale” l’Italia? Cosa emerge dalla classifica di quest’anno?
Partiamo dal fatto che il nostro Paese non è certo tra i leader per digitalizzazione nell’ambito dell’Unione europea: ce lo dicono alcune esperienze della nostra vita quotidiana, oltre alle scorse edizioni del DESI.
Del resto, uno degli obiettivi del programma del governo appena terminato era proprio questo: quando si è insediato, il ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao ha dichiarato di voler rendere il nostro un Paese leader nel settore a livello europeo, cosa che evidentemente fino a qui non era.
Quali sono le principali criticità?
L’Italia sconta ritardi di vario tipo, a partire dall’infrastrutturazione e dalla lentezza della banda larga, fino al fatto che la trasformazione digitale del settore pubblico e privato non sia stata una priorità per la politica, tranne in alcune fasi. Se guardiamo al dibattito di queste prime schermaglie di campagna elettorale, il digitale si avverte come abbastanza lontano; non tanto in sé, ma anche come mezzo per migliorare la vita delle persone.
C’è un altro profilo tra i motivi di ritardo: il capitale umano. Tradizionalmente il nostro è tra i Paesi in cui le competenze, anche quelle di base, sono meno diffuse.
“Poiché l’Italia è la terza economia dell’UE per dimensioni, i progressi che essa compirà nei prossimi anni nella trasformazione digitale saranno cruciali per consentire all’intera UE di conseguire gli obiettivi del decennio digitale per il 2030”, si legge nel Report
Questo è il quadro da cui siamo partiti e il dato assoluto del Desi non è ancora soddisfacente: siamo lontani dall’obiettivo del ministro Colao. In questo contesto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si pone come un altro dei cambi di scenario che possono contribuire in modo significativo a colmare quei gap sulla digitalizzazione.
Il rapporto del DESI 2022 dice che l’Italia ha invertito la tendenza: è tra i Paesi che non solo sono andati avanti, ma anche a una velocità maggiore di altri, e questo è importante perché non è sufficiente innovare, serve farlo più velocemente di altri. E gli altri corrono.
Di cosa è figlio questo buon risultato?
Sono numeri che vengono da lontano, nel senso che, trattandosi di fenomeni molto complessi, non sono l’esito di azioni messe in campo solo nell’anno considerato. Trattandosi del 2021, sicuramente l’effetto della pandemia è stato importante per accelerare i processi di digitalizzazione, ma si raccolgono i frutti di un lavoro iniziato diversi anni fa. Credo che l’inversione di tendenza sia iniziata dal 2015, con la Legge di riforma della Pubblica Amministrazione e l’attività del Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale Diego Piacentini. Un momento di stacco che ha prodotto un cambio di passo legato almeno a due direttrici.
Dal Report: “L’Italia sta compiendo progressi nell’offerta di servizi pubblici digitali, riducendo così le distanze rispetto alla media UE. È necessario proseguire negli sforzi già intrapresi per consentire all’Italia di realizzare l’obiettivo del decennio digitale relativo alla disponibilità online del 100 % dei servizi pubblici principali per le imprese e i cittadini dell’Unione, e di rendere pienamente operativi i fascicoli sanitari elettronici“
La prima è relativa all’infrastrutturazione digitale del Paese: Spid, PagoPA, l’app Io. La scelta di puntare, anni fa, su infrastrutture immateriali, è evidentemente vincente. Si tratta di operazioni i cui benefici non si vedono subito ma, soprattutto grazie alla pandemia, ne abbiamo potuto apprezzare gli effetti.
Il secondo punto è la grandissima attenzione alla standardizzazione, nel senso di una centralizzazione. Dai territori era emersa una proliferazione di tanti standard, ad esempio sui fascicoli sanitari elettronici che tra loro non si parlavano. A un certo punto ci si è resi conto che le infrastrutture devono seguire regole condivise a livello nazionale e anche questa è una soluzione vincente.
Nel nostro futuro cosa c’è?
Il PNRR fa ben sperare, perché sembra dimostrare – con cospicui investimenti – che si intende dare continuità al lavoro degli ultimi anni. I numeri del DESI dimostrano che questa continuità è un fattore decisivo: se il governo successivo avesse messo in discussione tutte le scelte del precedente, oggi non saremmo a questo punto.
Il PNRR quindi potrebbe essere una svolta anche da questo punto di vista?
Il PNRR deve essere la svolta. Se non lo fosse sarebbe un problema: avremmo perso un’opportunità che non si ripeterà. Anche perché, alla fine, non serve fare chissà quale sforzo in tecnologie emergenti e futuribili, ma colmare i gap strutturali del nostro Paese. Per questo, servono tempo, fondi e idee chiare. Mi sembra ci siano e che l’inversione di tendenza evidenziata dal DESI sia preziosa per confermare che si sta andando nella direzione giusta.
Ci possono essere degli ostacoli all’arrivo dei fondi del PNRR?
Il rischio c’è solo se non facciamo quello che abbiamo scritto e questo potrebbe essere legato alla lentezza ad esempio nel procurement. Sappiamo che l’Italia è un Paese molto bizantino per quanto riguarda le procedure di affidamento, nonostante i tanti decreti semplificazioni. Il pericolo, quindi, è di non riuscire a fare le cose nei tempi e nei modi che abbiamo indicato e questa sarebbe una grave disdetta per tutto il Paese.
Come si colloca in questo contesto il tema della sanità digitale?
Innanzitutto, l’ambito sanitario incrocia il tema della standardizzazione: sarebbe stato ragionevole sin da prima che i fascicoli sanitari elettronici dovessero avere un’omogeneità e garantire un’interoperabilità che a tratti manca.
Una Missione dedicata alla Salute nel PNRR, con fondi ingenti, è segno che, anche a seguito della pandemia, si è compresa la centralità del settore
Allo stesso modo, aver voluto, in sede di PNRR, dedicare alla sanità digitale un’attenzione distinta dalla Missione 1, che riguarda la digitalizzazione dell’Amministrazione in generale, dando alla sanità, con la Missione 6, una dignità autonoma, è frutto, e ci sta tutto, anche della pandemia. Ma decidere di dedicare risorse assolutamente ingenti alla sanità significa aver compreso e voler intervenire dove si è deficitari, nonostante gli sforzi fatti e alcune lodevoli eccezioni: era il sistema nel suo complesso ad aver bisogno di una svolta. Speriamo di aver davvero imparato dagli errori del passato.
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