Nel calderone della sanità perduta durante la pandemia sono finiti anche gli screening. Sospesi durante le fasi più critiche, ripartiti non dappertutto a pieno regime. Comunque ritardati o addirittura saltati. Mai come adesso però potrebbero rivelarsi un alleato fondamentale per gestire il rischio dell’imminente “tsunami oncologico” preannunciato con estrema preoccupazione da più fronti.
Screening: la storia e il futuro nella personalizzazione
La memoria storica della nascita dei programmi di screening nel nostro Paese è Marco Zappa, primo direttore dell’Osservatorio Nazionale Screening: nell’arco di un ventennio le precedenti esperienze locali si sono trasformate in un percorso organizzato e coordinato.
“Definiamo screening un intervento di sanità pubblica che parte dall’identificazione di una popolazione bersaglio da investire dall’offerta sanitaria, alla quale si fa recapitare un invito – che, almeno fino a oggi, nella maggior parte dei casi è una lettera – a sottoporsi a un esame di prevenzione”.
Attualmente sono attivi tre programmi di screening: mammografico, cervicale e colorettale. “A che caratterizzarli è l’intervento organico e attivo di offerta – afferma Zappa -. Non si tratta di un semplice invito a effettuare esami di prevenzione, che ciascuno può fare dove crede e con la frequenza che crede: qui, se accetta, la persona viene presa in carico secondo gli interventi stabiliti dalle linee guida. Ad esempio, ogni due anni alle donne dai 50 ai 69 anni viene offerta la mammografia”.
Interventi di questo tipo sono iniziati fra la fine degli anni ’80 l’inizio degli anni ’90 in alcune città e zone, poi, a partire dagli anni ’90 alcune regioni, come Toscana, Emilia-Romagna e Veneto hanno intrapreso programmi regionali. “È un progetto che si è sviluppato nel tempo: a un certo punto da un’esperienza spontanea è nato l’Osservatorio Nazionale Screening, un organismo che intende non solo promuovere ma anche monitorare costantemente la qualità dell’intervento offerto e, dal 2004, è riconosciuto come l’organo cui spetta il controllo sull’andamento degli screening in Italia”.
Dal 2001 i programmi di screening sono anche entrati a far parte dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea): l’iniziativa spontanea avviata in alcune zone e regioni, dall’inizio degli anni Duemila è stata assunta dal Servizio Sanitario Nazionale come qualcosa che deve essere garantito ai cittadini di tutte le regioni. Zappa, che è in pensione da un anno e mezzo, traccia un bilancio di luci ed ombre. I pro: “Il sistema di monitoraggio e valutazione degli screening è eccellente e non ha molti eguali nella sanità pubblica italiana: non si monitora solo la fase dell’invito, ma ogni passaggio successivo che la persona può eventualmente seguire a seconda del risultato. Credo che probabilmente siamo stati i primi a pensare alla sanità come percorso e a monitorarne la qualità: oggi si parla molto in ambito oncologico di percorsi, ma sono nati nell’ambito degli screening, con una logica molto chiara sin dall’inizio. Un vero cambiamento culturale”.
Lati negativi? “Il SSN si porta dietro come ben noto un gradiente di copertura e qualità fra nord e sud abbastanza evidente e i programmi di screening solo in parte sono riusciti a superarlo”.
Gli screening si sono diffusi e sono cambiati nel tempo, ma c’è spazio per ulteriori miglioramenti in un’ottica di personalizzazione
Infine, uno sguardo al futuro: gli screening si sono diffusi e sono cambiati nel tempo, ma c’è spazio per ulteriori miglioramenti in un’ottica di personalizzazione. “Ad esempio per lo screening cervicale si è passati dal Pap test al test Hpv. Si apre la prospettiva, visto che si arriva all’età in cui ci sono ragazze vaccinate, di proporre percorsi differenziati a seconda se siano vaccinate o meno – spiega Zappa -. Un’evoluzione che fa parte del processo di personalizzazione dei programmi di screening, che sono partiti con lo stesso esame offerto a tutta la popolazione selezionata solo per età, mentre oggi sia per lo screening cervicale che per la mammella si ipotizza un’offerta differenziata a seconda del livello di rischio”.
L’impatto della pandemia e le prospettive di comunicazione
Con Paola Mantellini, direttrice dell’Osservatorio, facciamo il punto sull’impatto della pandemia sugli screening. E su cosa succederà adesso: è possibile pensare che la sanità riparta proprio dagli screening per tornare all’operatività pre-Covid (e forse migliorare)? Spoiler: sì. Ma è fondamentale lavorare sulla comunicazione. Ecco come.
Cosa è successo agli screening durante la pandemia?
La risposta alla pandemia ha comportato di fatto un’improvvisa interruzione di molte attività assistenziali di routine, tra le quali sono state ricomprese anche le prestazioni di screening di primo livello (erogazione dei test di screening), per definizione rivolte a una popolazione clinicamente asintomatica. Le prestazioni di secondo livello (approfondimenti diagnostici in caso di test di screening dubbio o sospetto) sono state invece oggetto di una nota di chiarimento da parte del Ministero che ne ha puntualizzato l’indifferibilità.
È noto che per i tumori oggetto di attività di prevenzione secondaria organizzata per colon-retto, cervice uterina e mammella vi sono evidenze che la diagnosi precoce si associ a una riduzione della mortalità (e in alcuni casi anche dell’incidenza) e che i risultati clinici sono largamente dipendenti da una tempestiva gestione multiprofessionale del caso e che quindi la sospensione e i rallentamenti nelle erogazione delle attività potrebbero avere un impatto importante sulla popolazione.
A questo proposito è opportuno ricordare che gli screening a cui ci si riferisce sono quelli organizzati, meglio conosciuti come Livelli Essenziali di Assistenza (Lea). Essi sono percorsi complessi di assistenza e si caratterizzano per l’applicazione di protocolli e procedure standardizzate rivolte alla popolazione sana in specifiche fasce di età. In particolare lo screening mammografico e colorettale coprono la fascia di età dai 50 ai 69 anni (per lo screening colorettale sia uomini che donne) e quello del collo dell’utero coinvolge le donne dai 25 ai 64 anni di età. La sospensione delle prestazioni di screening di primo livello in Italia si è verificata nei mesi di marzo e aprile 2020, ancorché in modo non omogeneo su tutto il territorio nazionale.
A partire da maggio i programmi di screening sono stati riattivati, ma di nuovo con tempistiche, intensità e modalità diverse fra le varie Regioni e all’interno della stessa Regione.
L’Osservatorio Nazionale Screening ha avuto un ruolo nella ripartenza?
L’Osservatorio, che è un network di centri regionali ed è l’organo tecnico di riferimento a supporto di Regioni e Ministero per il monitoraggio dei programmi di screening, per il miglioramento continuo della qualità e per la formazione specifica, ha seguito e accompagnato questo processo da vicino intensificando le riunioni del proprio consiglio direttivo a cui partecipano tutti i 21 coordinamenti regionali degli screening, censendo le disposizioni che ciascuna Regione si era data in ambito di screening durante il lock down di marzo-aprile 2020, definendo le linee di indirizzo per la ripresa a maggio 2020 e monitorando la velocità della ripartenza attraverso apposite e periodiche indagini quali-quantitative.
A maggio 2020 la sfida che si presentava alle Regioni era prima di tutto recuperare quei cittadini che avevano subito una sospensione dell’invito programmato nel periodo marzo aprile 2020 e al contempo organizzare l’attività tenendo conto che per garantire le misure di sicurezza e di sanificazione i ritmi di invito e di erogazione degli esami di primo e secondo livello erano inevitabilmente rallentati. Fronteggiare questa sfida non era per niente scontato anche perché le risorse su cui poteva contare lo screening erano depauperate rispetto al periodo pre-Covid.
La maggior parte delle Regioni ha dovuto modificare i propri modelli organizzativi e per un periodo più o meno lungo in molte realtà si è ricorsi al contatto telefonico o a un invito con lettera senza appuntamento prefissato, modalità che ha una sua specifica evidenza di efficacia, per evitare che rimanesse vuoto anche un solo posto di quelli messi a disposizione
Infatti, molti dei professionisti che operavano nelle varie fasi del percorso di screening sono stati destinati a molteplici attività a supporto della emergenza pandemica dal tracciamento dei contagi all’assistenza nei reparti Covid. E non si è trattato solo di un problema di personale: in alcune realtà, ad esempio, i laboratori impegnati nell’analisi dei test di screening sono stati convertiti e totalmente impegnati alla processazione dei tamponi.
Ancora, in alcuni frangenti sono proprio venuti meno gli spazi fisici in cui si operava perché tutta una serie di presidi ospedalieri sono stati convertiti a presidi Covid. In tutti i casi l’impegno a supporto del Covid si è protratto ben oltre il periodo di lockdown stretto e in alcune realtà è ancora presente. Dalle analisi qualitative condotte a maggio 2020 è emerso che la maggior parte delle Regioni ha dovuto necessariamente modificare i propri modelli organizzativi e per un periodo più o meno lungo in molte realtà si è ricorsi prevalentemente al contatto telefonico o a un invito con lettera senza appuntamento prefissato, modalità quest’ultima che ha una sua specifica evidenza di efficacia, per evitare che rimanesse vuoto anche un solo posto di quelli messi a disposizione.
In alcune Regioni si è cercato di recuperare ricorrendo a istituti specifici come la produttività aggiuntiva (cioè a fronte di un corrispettivo economico, il personale presente ha fatto turni di lavoro aggiuntivi e/o più lunghi), ad acquisizione di nuovo personale (più raramente perché è difficile trovare personale già formato che sia in grado fin da subito di farsi carico della erogazione di test di screening), a prestazioni in outsourcing o a privato accreditato sulla base di convenzioni.
E i numeri?
A fronte di queste iniziative, peraltro agite con ritmi e intensità diverse tra una Regione e l’altra anche in funzione dello stato di emergenza nei singoli territori, l’indagine quantitativa condotta aggiornata al 31 maggio 2021 ha confermato lo stesso andamento. Rispetto all’analogo periodo standard di riferimento stimato relativo al 2019, nel periodo gennaio 2020-maggio 2021 (quindi un totale di 17 mesi) sono stati effettuati complessivamente oltre 4.480.000 inviti e 2.790.000 test di screening in meno.
Seppure quindi anche all’inizio del 2021 si osservassero ritardi è importante sottolineare che, dal confronto tra i vari periodi analizzati nelle indagini dell’Osservatorio, tali ritardi registravano un andamento decrescente. Anche se con sensibili differenze tra una Regione e l’altra, lo screening che sembra aver espresso una maggiore resilienza è quello mammografico che specie in alcune realtà ha dimostrato una capacità di ripresa pressoché completa con invece criticità più rilevanti per lo screening del collo dell’utero e quello del colon-retto.
Rispetto all’analogo periodo standard di riferimento stimato relativo al 2019, nel periodo gennaio 2020-maggio 2021 sono stati effettuati complessivamente oltre 4.480.000 inviti e 2.790.000 test di screening in meno
Traducendo in numeri queste argomentazioni, nel periodo gennaio 2020-maggio 2021, rispetto a quello preso a riferimento, il numero di inviti e test erogati in meno è stato del 20,3% e 28,5% per lo screening mammografico, del 28,4% e del 35,6% per lo screening cervicale, del 24,4% e del 34,3% nello screening colorettale. Espresso in termini di mesi standard di ritardo (un indicatore sintetico che esprime il numero di mesi di attività che sarebbero necessari per recuperare il ritardo accumulato se il programma andasse alla stessa velocità del periodo pre-pandemia) i tre programmi si attestano, rispettivamente, su 4.8, 6.0 e 5.8 mesi di ritardo nella erogazione del test.
Tabella 1. Differenza in numero assoluto e percentuale di utenti invitati/contattati ed esaminati, numero di mesi standard di ritardo nella erogazione degli esami per le 3 campagne di screening e complessivo per l’Italia. Confronto del periodo gennaio 2020 Maggio 2021 con periodo standard di riferimento stimato relativo al 2019
ITALIA | |||
Utenti invitati in meno (%) | Utenti esaminati in meno (%) | Mesi standard di ritardo | |
Screening mammografico | 1.093.354 (20,3) | 816.966 (28,5) | 4,8 |
Screening cervicale | 1.575.164 (28,4) | 784.760 (35,6) | 6,0 |
Screening colo-rettale | 2.175.318 (24,4) | 1.195.987 (34,3) | 5,8 |
Nelle indagini dell’Osservatorio si è inoltre stimato il numero di lesioni che potrebbero aver subito un ritardo diagnostico e che sono risultate pari a 3.558 carcinomi mammari, 3.504 lesioni cervicali CIN2+, 1.376 adenocarcinomi colorettali e 7.763 adenomi avanzati del colon-retto. Le conoscenze della storia biologica della singola patologia e una serie di recenti analisi epidemiologico-statistiche indicano che le conseguenze cliniche cioè un possibile avanzamento dello stadio alla diagnosi potrebbero essere maggiori per lo screening mammografico e quello colorettale.
Altro elemento che si evince dai numeri, ma che è sempre opportuno sottolineare è che vi è stata da parte della popolazione una partecipazione ridotta rispetto al periodo pre-Covid. Tale riduzione è senz’altro dettata dalla paura di recarsi in presidi sanitari che si ritenevano, specie nella prima ondata, a rischio di contagio e quindi scarsamente sicuri, ma non si è ancora in grado di dire se in realtà questo timore è qualcosa che tuttora affligge i cittadini o se, come tutti i programmi si augurano, sia solo un atteggiamento passeggero.
Peraltro è possibile che le classi di popolazione meno deprivate (livelli di istruzione più elevati, in condizioni economiche più agiate e con alti livelli di health literacy) abbiano avuto la possibilità di ricorrere a prestazioni erogate nel privato e che il maggior impatto dei ritardi possa essersi riversato sui soggetti più deprivati di fatto accentuando dis-equità di accesso già conosciute in alcuni contesti.
Il nostro Servizio Sanitario è caratterizzato da forte disomogeneità tra le diverse regioni: come se la sono cavata?
Se si scende più in dettaglio e si analizzano i dati per area, le Regioni che esprimono maggiori criticità non sono solo quelle che sono state maggiormente colpite dalla pandemia: ci sono state infatti Regioni, specie al Sud, che sebbene non particolarmente toccate dalla pandemia durante la prima ondata, hanno registrato fin da subito le maggiori difficoltà nella ripresa. Tutto questo a fronte del fatto che la macro-area Sud nel periodo 2018-2019 aveva dimostrato un sensibile miglioramento, superiore a quello delle altre due macro-aree, della estensione dell’offerta dello screening rispetto agli anni precedenti facendo ben sperare in una progressione positiva e duratura.
I livelli del 2019 sono stati presi come metro di confronto: quella “normalità” era l’optimum? È quello il target a cui tendere?
Come sottolineato in tutti i rapporti pubblicati dall’Osservatorio, il 2019 è stato preso come periodo di “normalità” per misurare i ritardi, ma per la maggior parte delle Regioni non poteva essere considerato il gold standard di riferimento e nella quarta indagine dell’Osservatorio su screening e Covid si è quindi deciso di riportare anche l’indicatore Lea di copertura che esprime il numero dei test di screening erogati sul totale della popolazione avente diritto (come riferimento si prende quella Istat) per 2019 e 2020, per singolo programma di screening e per Regione.
Anche prima della pandemia ci trovavamo di fronte a un paese a due velocità e chi probabilmente ha sofferto di più della emergenza pandemica è stata la maggior parte delle Regioni del Sud e qualche Regione del Centro-Nord
Questo indicatore, non solo è quello principale in base al quale il Ministero valuta le performance regionali, ma ha una sua rilevanza nel mettere in evidenza con chiarezza quale era la situazione regionale prima e dopo l’epidemia. Se per lo screening del collo dell’utero consideriamo come valore di copertura accettabile il 50%, nel 2019 erano 8 le Regioni al di sopra di tale valore, di queste 8 solo 5 sono riuscite a confermare questa performance nel 2020. In merito allo screening mammografico, se consideriamo accettabile un valore di copertura del 60%, nel 2019 le Regioni con valore superiore erano 8 e solo una riusciva a conservare tale valore nel 2020.
Infine, considerando che lo screening colorettale è un intervento più recente rispetto ai precedenti e in alcune Regioni non è ancora perfettamente consolidato, se valutiamo come accettabile un valore di copertura del 40%, le Regioni che soddisfacevano questa percentuale erano 9 nel 2019 e 4 nel 2020. In sintesi, anche prima della pandemia ci trovavamo di fronte ad un paese a due velocità e chi probabilmente ha sofferto di più della emergenza pandemica è stata la maggior parte delle Regioni del Sud e qualche Regione del Centro-Nord.
Quanto “costano” in termini economici e di risorse gli screening al SSN? E quanto questa attività di prevenzione consente di risparmiare?
La domanda sui costi è molto interessante perché pone il problema della valorizzazione del costo degli screening che non possiamo dare in alcun modo per scontato. Nella valutazione degli screening le dimensioni economiche di cui si è sempre tenuto conto, anche in ambito di studio e ricerca, sono quella sanitaria e quella sociale. Quest’ultima poi in un qualche modo correla con concetti etici e di equità.
Se però ci limitiamo alla sola valorizzazione economica di tipo sanitario, come ricordavo in precedenza, lo screening oncologico organizzato non è una prestazione, ma un percorso complesso di assistenza che interessa la popolazione sana e si estrinseca attraverso varie fasi e cioè dalla presa in carico del cittadino per l’invito fino alla conclusione dell’approfondimento diagnostico e l’eventuale indicazione al trattamento.
Finora solo alcune Regioni e alcune particolari esperienze hanno provato a quantizzare i costi a partire dalle attività che compongono ogni singolo processo di questo percorso, mentre a livello nazionale non sono state operate valutazioni in tal senso. Questo è particolarmente critico proprio adesso che dobbiamo recuperare e quindi prevedere investimenti ad hoc, ed è bene precisare che non è pensabile quantizzare i costi facendo una mera somma del costo delle prestazioni che compongono il percorso.
Tanto per fare un esempio, il costo della prestazione mammografia bilaterale che viene attualmente imputato ogni qualvolta una donna fa una mammografia ad accesso spontaneo non può corrispondere al costo della mammografia di screening in cui il protocollo prevede che la lettura sia effettuata da due o addirittura tre medici. Non solo, il programma di screening si caratterizza per una importante fase organizzativa e prevede controlli di qualità in ognuna delle fasi: la quantizzazione economica di questi specifici ambiti non può quindi essere trascurata se si vuole fare una seria valutazione dei costi.
Uno screening è economicamente competitivo se applica protocolli e procedure accurate, se utilizza in maniera appropriata le risorse sia quelle tecnologiche che quelle umane
Se è difficile parlare dei costi, non è nemmeno facile parlare dell’impiego di risorse. Uno screening è economicamente competitivo se applica protocolli e procedure accurate, se utilizza in maniera appropriata le risorse sia quelle tecnologiche che quelle umane. Utilizzare in maniera appropriata le risorse significa non solo averle a disposizione, ma anche allocarle in maniera adeguata.
Si deve quindi disporre di personale dedicato e costantemente formato e si deve far riferimento a requisiti di tecnico-organizzativo-professionali ben definiti. Credo che la mancanza di risorse sia in termini numerici che in termini di corretta allocazione e una carente organizzazione siano il problema critico che affligge da sempre gli screening organizzati e che è forse più evidente nelle Regioni del Sud. Non si può pensare che in alcune aree per fare una mammografia o un Pap test bastino 15 minuti e in altre ce ne vogliano 30. Perché in alcune realtà le tecnologie disponibili (ad esempio i mammografi o gli apparecchi di laboratorio), a parità di personale, lavorano al di sotto delle proprie capacità e in altre invece a pieno ritmo?
Negli screening oncologici organizzati vi sono ancora elementi di arretratezza tecnologica non trascurabili: basti pensare che sono ormai disponibili da anni tecnologie che permettono l’invio massivo della posta senza che si debba ricorrere all’imbustamento manuale piuttosto che adottare sistemi informatizzati che permettono agli utenti di spostare il proprio appuntamento da soli collegandosi semplicemente a un portale.
Alla luce di questi ultimi due anni, possiamo pensare che la sanità italiana “riparta dagli screening”? Come fare?
Rispetto a queste ultime domande vorrei far osservare che prima della pandemia non si parlava così tanto dello screening oncologico organizzato. Il tema del rischio connesso al differimento delle diagnosi precoci di tumore a causa della Covid-19 e di tempestiva presa in carico dei soggetti con test positivo è divenuto recentemente oggetto di attenzione da parte del mondo scientifico e dei decisori compreso quelli politici.
I presupposti per “ripartire” dagli screening sembrerebbero esserci tutti, a partire dal Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 che cerca di potenziare le linee di indirizzo già tracciate da anni. In questa direzione vanno il rafforzamento dei coordinamenti regionali di screening e le già citate definizione e applicazione di requisiti tecnico-organizzativo-professionali omogenei su tutto il territorio.
Ci sono però anche incertezze che riguardano innanzitutto la volontà di ripartire a tutti i livelli, nazionale, regionale e aziendale. Volontà nel dare mandati chiari e trasparenti, volontà nell’allocare correttamente le risorse, volontà di riconoscere le competenze. E a proposito di competenza l’allocazione corretta delle risorse passa anche da lì: negli ultimi 20 anni sono andate mancando competenze organizzative e gestionali e senza di queste non si va da nessuna parte. Senza competenze gestionali e organizzative non saremo in grado di governare nemmeno le innovazioni tecnologiche alle quali, da tempo, aneliamo e che sembrano essere a portata di mano grazie al PNRR.
Infine, il monitoraggio e il controllo che non può essere, in alcun modo, fine a sé stesso. Ogni programma di screening deve essere in grado di controllarsi in autonomia perché questo permette di apportare azioni migliorative in continuità, ma il monitoraggio deve essere agito in maniera snella e puntuale anche a livello aziendale, regionale e nazionale con l’obiettivo ultimo, quando necessario, di operare “negoziazioni” efficaci ed efficienti.
Quanto è importante l’informazione sugli screening e quali modalità di comunicazione ritiene più efficaci oggi?
L’informazione sugli screening è essenziale ed è quindi necessario curare con estrema attenzione la comunicazione che ad essa si accompagna. La partecipazione allo screening non è obbligatoria e l’obiettivo della comunicazione non è convincere meramente i cittadini a partecipare bensì fornire loro le informazioni necessarie in maniera semplice e, al tempo stesso, trasparente.
Specialmente in questi ultimi decenni, la comunità scientifica ha compreso che una forte alleanza tra mondo sanitario e beneficiari (cittadini e pazienti) passa da una informazione corretta ed esaustiva e da una comunicazione chiara e onesta
Specialmente in questi ultimi decenni, la comunità scientifica ha compreso che una forte alleanza tra mondo sanitario e beneficiari (cittadini e pazienti) passa da una informazione corretta ed esaustiva e da una comunicazione chiara e onesta. In sanità l’obiettivo non dovrebbe essere “vendere un prodotto o servizio sanitario”, ma mettere pazienti e cittadini in condizione di capire il significato di ciò che gli si propone, di aiutarli a valutarne aspetti positivi e negativi e di permettere loro di scegliere se accettare o meno la proposta in funzione delle proprie attitudini e dei propri valori. Se il paziente/cittadino è in condizioni di fare una scelta informata e consapevole l’efficacia dell’atto sanitario ne beneficerà senz’altro.
Informare e comunicare sullo screening oncologico organizzato non è affatto semplice: a parte le campagne di comunicazione di tipo istituzionale (cartellonistica, passaggi informativi su radio e TV locali) che sono spesso “una tantum” e la cui efficacia è difficile da valutare, il primo contatto con l’utenza è, nella maggior parte dei casi, rappresentato dalla lettera di invito. Da numerosi studi condotti in passato sappiamo che il tempo dedicato alla lettura della lettera è molto limitato e quindi le informazioni in essa contenuta devono essere utili e brevi.
Sappiamo anche che se la lettera di invito è inviata a nome del Medico di Medicina Generale l’attenzione di chi la riceve è maggiore in considerazione del rapporto di fiducia instaurato con questo sanitario. Certo è che né la lettera di invito né altre modalità “veloci” di contatto, quali ad esempio la messaggistica sms, possono contenere informazioni molto dettagliate ed è quindi necessario che siano previsti altri strumenti di comunicazione.
In molte realtà regionali alla lettera si accompagna un dépliant esplicativo la cui efficacia dipende molto anche da come è scritto e, a questo proposito, molte indicazioni sono da tempo disponibili in letteratura. Senz’altro adesso possiamo disporre di strumenti più “smart” come ad esempio le App che possono aiutare i cittadini a comprendere in maniera più diretta le informazioni, ma al di là del mezzo che si può utilizzare per informare è importante il come.
La più recente ricerca qualitativa e l’evoluzione sociale, storica e culturale degli ultimi decenni ci hanno fatto capire che la relazione medico-paziente è una relazione di cura e rappresenta quindi uno degli strumenti con cui si affronta una determinata situazione clinica
Nei decenni passati l’approccio era molto paternalistico e unidirezionale con il medico che stabiliva cosa era giusto e il paziente che si doveva ciecamente affidare. La più recente ricerca qualitativa e l’evoluzione sociale, storica e culturale degli ultimi decenni ci hanno fatto capire che la relazione medico-paziente è una relazione di cura e rappresenta quindi uno degli strumenti con cui si affronta una determinata situazione clinica.
Nel caso degli screening ci si rivolge ad una popolazione “sana” invitandola in maniera proattiva a fare una scelta di salute ed è doveroso che tale scelta venga operata in condizioni di massima trasparenza ed in particolare è fondamentale che le persone siano messe a conoscenza dei pro e dei contro di una determinata proposta di salute. Sempre di più in tutte quelle che sono le raccomandazioni nazionali ed internazionali si fa riferimento al fatto che la decisione informata e consapevole deve essere garantita da strumenti di aiuto decisionale (meglio noti come strumenti di Decision Aid) che i programmi di screening devono mettere a supporto dei cittadini.
Sempre più si parla di medicina personalizzata è probabile che si debba cominciare a riflettere sull’importanza di operare sistematicamente con più linguaggi comunicativi, potremmo dire quindi maggiormente personalizzati
Mi preme infine sottolineare che probabilmente le necessità informative e le modalità comunicative non sono uguali per tutti e che i propri vissuti, la percezione del proprio stato di salute e la propria cultura influenzano senz’altro le modalità con cui si recepisce l’informazione che viene offerta. Sempre più si parla di medicina personalizzata sia in ambito diagnostico che di cura ed è probabile che accanto a questa si debba cominciare a riflettere sull’importanza di operare sistematicamente con più linguaggi comunicativi, potremmo dire quindi maggiormente personalizzati, in particolare in una realtà come quella dello screening organizzato che rivolgendosi alla popolazione ritenuta “sana” deve poter raggiungere tutti gli aventi diritto a prescindere dalla cultura ed etnia di appartenenza così come dal contesto sociale ed economico in cui vivono.