Alla scoperta delle professioni sanitarie della Federazione nazionale degli Ordini TSRM e PSTRP
Il rischio di morte per una persona con diagnosi di anoressia è 5-10 volte maggiore delle persone sane della stessa età e sesso. È questo uno dei dati più eclatanti che emergono dalle rilevazioni del Ministero della Salute a proposito di disturbi alimentari (DNA – Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione o DCA – Disturbi del Comportamento Alimentare), patologie che rappresentano sempre di più una vera emergenza contemporanea confermata da molti dati epidemiologici.
Secondo le più recenti indagini, infatti, nel nostro Paese, sono più di 3 milioni le persone che ne soffrono e circa il 30% ha un’età inferiore ai 14 anni. Nonostante sia considerata una malattia “tipicamente femminile”, per l’anoressia si registra però un 20% di incidenza anche nella popolazione maschile.
Il CCM – Centro nazionale per la prevenzione e il Controllo delle Malattie riporta poi che, secondo l’OMS, dopo gli incidenti stradali, l’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN), tra i DNA più diffusi, rappresentano la seconda causa di morte in età giovanile. Anche le altre forme, però, sono in aumento, come il Binge Eating (Disturbo da alimentazione incontrollata) e l’ARFID (Disturbo su evitare/restringere l’assunzione di cibo).
A chi devono rivolgersi pazienti e famiglie? Quali sono le professioni sanitarie di riferimento e qual è il loro ruolo nella gestione della malattia? Risponde a TrendSanità Roberta Famulari, presidente Commissione di albo nazionale dei Tecnici di riabilitazione psichiatrica (TeRP).
Quali sono gli aspetti tipici dell’anoressia e dei disturbi dell’alimentazione?
Sono però appena 126 i centri specialistici sul territorio nazionale e la presenza dei TeRP, all’interno di questi, purtroppo, è ancora molto scarsa
«La caratteristica comune nei DNA è la presenza di un’alterazione delle abitudini e del comportamento alimentare. Chi ne soffre si preoccupa eccessivamente per il peso e per la forma del corpo e ha un atteggiamento fobico-restrittivo verso alcuni cibi o categorie di alimenti. Sono aspetti che incidono negativamente sul livello di funzionamento personale e sociale e che progressivamente incidono sullo svolgimento delle normali attività della vita quotidiana. Ma la disabilità non è la sola conseguenza dell’anoressia, ci sono diverse comorbidità che possono determinare complicanze anche molto gravi a livello organico e che mettono in serio pericolo la vita di molte assistite. È difficile riconoscere e trattare precocemente questi disturbi, molti casi restano sottosoglia o sommersi perché non diagnosticati e non curati. Capirne l’origine aiuta a comprendere la complessità della cura, che non è disgiunta dalla riabilitazione. Dal punto di vista medico-scientifico, l’ipotesi più accreditata è che vi sia un determinismo di tipo multifattoriale a matrice bio-psico-sociale. Quindi, fattori genetici, socioculturali, individuali e familiari sono considerati fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti il disturbo. Secondo questa ipotesi, nessuna delle variabili, da sole, è sufficiente per scatenare la malattia o influenzarne il decorso e l’esito».
Quanto conta l’approccio terapeutico interprofessionale e lavorare in equipe?
«Vista la complessità della condizione, ne consegue che anche la cura deve centrarsi su un approccio multiprofessionale e interdisciplinare, in équipe. Qui più che mai il concetto di cura “medica”, in senso stretto, va superato. Non ci sono atti terapeutici separati, la cura di patologie complesse e multifattoriali presuppone una presa in carico a 360° da parte di un’équipe di professionisti che operano in sinergia come medici psichiatri, internisti, endocrinologi, infermieri, psicologi, TeRP, dietisti, educatori professionali e altri. Si lavora secondo i principi di integrazione, multidisciplinareità e interprofessionalità. Ognuno con il proprio ruolo e le proprie competenze, specifiche e trasversali, concorre sinergicamente all’atto di cura e alla presa in carico non solo delle persone assistite ma anche delle famiglie. Secondo le indicazioni del Ministero della Salute, alla base del trattamento dei DNA, è necessario garantire un approccio multiprofessionale integrato, con trattamenti evidence based e soprattutto con una formazione specifica e continua di tutti i professionisti dell’équipe. È importante la precocità degli interventi, per ridurre le ospedalizzazioni e la cronicità della malattia. Per questo, è necessario fare prevenzione e garantire, su tutto il territorio nazionale, i vari livelli di assistenza: ambulatoriale, semiresidenziale, residenziale e il ricovero ordinario. Sono però appena 126 i centri specialistici sul territorio nazionale e la presenza dei TeRP, all’interno di questi, purtroppo, è ancora molto scarsa».
Qual è il ruolo dei professionisti sanitari nella riabilitazione?
«Per quanto riguarda il trattamento terapeutico-riabilitativo, l’aspetto nutrizionale è cruciale e deve garantire diversi tipi di setting: ambulatoriale, semiresidenziale e residenziale e il ricovero, puntando sull’intervento precoce e sulla continuità terapeutica. Parte proprio dall’esigenza di un approccio tempestivo a queste patologie la nascita del Codice Lilla nei Pronto Soccorso. Non è raro che qui i familiari, preoccupati per la salute di una persona cara, entrino in relazione con personale sanitario focalizzato più sulla cura dei sintomi fisici, sottovalutando la presenza di una patologia ben più complessa e profonda che non sempre è immediatamente intercettata. Per questo dal 2018, il Ministero della Salute ha diffuso delle linee di riferimento per gli interventi, l’accoglienza, il triage, la valutazione e il trattamento delle persone con DNA rivolte ai professionisti del PS, con tutte le indicazioni utili al trattamento più appropriato e all’eventuale segnalazione ai centri specifici, proprio per evitare cure inadeguate e frammentate a favore di un approccio integrato. Il ruolo e la funzione del TeRP all’interno del team sono essenziali, proprio per la sua specificità clinico-riabilitativa, oltre che socio-riabilitativa. Già dalla prima visita, insieme al medico psichiatra, può svolgere la funzione di accoglienza, sia dell’assistito, sia dei familiari.
Stabilire l’alleanza terapeutica è un obiettivo prioritario e uno strumento indispensabile per realizzare il programma riabilitativo
L’indagine riabilitativa del TeRP parte dalla valutazione del funzionamento globale della persona che comprende diverse dimensioni (cognitivo, personale e sociale), fino alla valutazione delle criticità e delle risorse della famiglia e del contesto ambientale. Consiste in colloqui e osservazione e nell’uso di strumenti standardizzati. Si passa poi all’identificazione degli obiettivi formativo-terapeutici e di riabilitazione psichiatrica del programma riabilitativo, condivisi in équipe e con la persona assistita. Quello della partecipazione è un passaggio importante del processo riabilitativo. Nel nostro lavoro spesso ci troviamo a intervenire con persone che rifiutano il trattamento, perché manca la consapevolezza del disturbo.
Quindi stabilire l’alleanza terapeutica è un obiettivo prioritario e uno strumento indispensabile per espletare il programma riabilitativo. Il TeRP analizzai bisogni della persona e attua un programma di intervento per raggiungere uno stato di recovery dalla malattia e il massimo livello di funzionamento psicosociale. Poi mette in campo interventi di abilitazione/riabilitazione in diverse aree che vanno dalla cura di sé, alle relazioni interpersonali, allo svolgimento delle attività di vita quotidiana, nonché a un’attività di studio e/o lavorativa, ove possibile. Infine, realizza vari interventi, sia individuali che di gruppo, attraverso tecniche specifiche quali, ad esempio: social skills training, interventi psicoeducativi, di tipo cognitivo-comportamentali, mindfulness, di rimedio cognitivo e attività che si avvalgono di tecniche espressive utilizzando il “non verbale” come canale comunicativo».
Qual è la vostra funzione nella riabilitazione psiconutrizionale?
Qui più che mai il concetto di cura “medica”, in senso stretto, va superato per lavorare in équipe multiprofessionali
«La riabilitazione psiconutrizionale si svolge insieme ai dietisti, figure fondamentali per questo aspetto. Il pasto, infatti, è uno dei momenti di maggiore criticità. Ad esempio, nei casi di anoressia, l’intervento ha come finalità principale ripristinare un peso sano attraverso l’adesione a un percorso nutrizionale personalizzato, progressivo e soprattutto concordato, modificando lentamente i vari comportamenti disfunzionali e intervenendo sui diversi aspetti fobici rispetto al cibo. L’azione prosegue anche fuori dai setting strutturati, si estende quindi “nel territorio”, con varie attività che riguardano il normale svolgimento della vita quotidiana. L’alleanza terapeutica e la relazione vanno instaurate anche con i familiari, con l’attuazione di interventi di tipo psicoeducativo alle famiglie. L’impatto di una malattia come l’anoressia è molto forte, i familiari si sentono, molte volte responsabili, impotenti, colpevoli, sono alla costante ricerca di spiegazioni, quindi intervenire anche qui facilita il percorso riabilitativo della persona».
Quanto contano le nuove tecnologie per un approccio integrato all’anoressia?
«Un uso appropriato della tecnologia può comportare diversi vantaggi nel trattamento dell’anoressia. Si tratta spesso di persone molto giovani, che utilizzano agevolmente PC, tablet e applicativi web, social, smartphone, ecc. Possono diventare degli “ausili” per noi TeRP poiché ci consentono di esplorare le interazioni sociali, osservare le relazioni e gli agiti comportamentali, studiare le percezioni e le reazioni sensoriali ed emotive. Ma non solo, sono opportunità in più per i trattamenti terapeutico-riabilitativi, soprattutto per l’immediatezza e l’accessibilità degli interventi e per l’aspetto “ludico” dei dispositivi che ha un certo “appeal” tra i più giovani. Ci sono poi degli specifici strumenti come la realtà virtuale, la cui applicazione in ambiente riabilitativo sta avendo uno sviluppo importante, perché consente, in un ambiente protetto, di esporre l’assistito a situazioni che riproducono contesti reali e stimoli che sono per loro fonte di forte stress.
La realtà virtuale può essere utile per affrontare in un setting protetto situazioni di criticità
Nel caso dell’anoressia, gli stimoli sensoriali relativi all’immagine corporea sono mediati dai visori, dai guanti e dalle tute che permettono di stimolare la percezione del corpo durante le esperienze virtuali. Tutto ciò consente di lavorare sul senso di “presenza”, di consapevolezza del corpo. La persona reagisce quindi come se si trovasse realmente in quel dato ambiente, supportato e coadiuvato dal TeRP. La realtà virtuale è utile per affrontare, assieme ai terapeuti in un setting protetto, l’esposizione ai cibi fobici o per sperimentare situazioni sociali che scatenano stati ansiosi (come nei momenti di convivialità, nei ristoranti o nell’esposizione del proprio corpo). Questo campo è ancora tutto da sviluppare ma molto promettente.
La parola chiave resta però la prevenzione primaria. Prevenire è meglio che curare, per questo incontrare i giovani nelle scuole, divulgare informazioni con un approccio dialogico e non didattico, stimolare l’interesse e le capacità comunicative più efficaci, fare rete con gli insegnanti è il primo passo per costruire l’intervento preventivo e di promozione della salute, fisica e mentale. In realtà questa suddivisione è meramente “didattica”. Non c’è salute senza salute mentale, perché la salute è una…».