Sono stati poco meno di mille i casi confermati nell’uomo di H5N1, l’influenza aviaria, dal 1997 a oggi in tutto il mondo: 997, di cui 471 morti (a partire da quando sono disponibili i dati sui decessi, cioè dal 2003).
Secondo l’ultimo report dell’ECDC, dall’8 marzo al 6 giugno di quest’anno i casi di H5N1 sono stati 8 (20 quelli di tutti i ceppi) e le morti 4, tutte avvenute in bambini. Le sei nazioni in cui si sono riscontrati sono Bangladesh, Cambogia, Cina, India, Messico e Vietnam. Negli Stati Uniti non si sono più registrati casi da febbraio.
Questi numeri mostrano uno dei dati più preoccupanti del virus dell’aviaria: la sua letalità, che supera il 50% (per avere un confronto, quella di SARS-CoV2 era di 0,6%). Tuttavia, quasi tutte le persone infettate negli Stati Uniti attraverso i bovini hanno avuto sintomi lievi come congiuntivite e raffreddore. Questo potrebbe significare che la mutazione del virus che passa attraverso i mammiferi sia meno aggressiva, oppure che in passato sono stati tracciati solo i casi più gravi.
Nonostante l’ampia circolazione dei virus dell’influenza aviaria nelle popolazioni animali, le infezioni umane restano rare
Sulla base delle informazioni attualmente disponibili, la FAO, l’OMS e il WOAH (l’Organizzazione mondiale della salute animale) hanno classificato il rischio di infezione da H5N1 come basso per la popolazione generale e da basso a moderato per gli individui esposti per motivi professionali.
Nonostante l’ampia circolazione dei virus dell’influenza aviaria nelle popolazioni animali, le infezioni umane restano rare. Durante il periodo di riferimento, inoltre, non è stata documentata nessuna trasmissione da uomo a uomo.
I mammiferi come serbatoio
«Tra gli elementi che destano preoccupazione, c’è la trasmissione del virus tra i mammiferi e la sua permanenza nelle specie domestiche», ha ricordato Calogero Terregino, veterinario e direttore del Laboratorio di referenza UE per l’influenza aviaria dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), durante l’evento “Un virus in attesa: l’influenza aviaria e il rischio che non vogliamo vedere” organizzato dal Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino.
Da qualche tempo, infatti, i mammiferi non sono più ospiti senza via d’uscita, ma fanno da “ponte” per la trasmissione del virus. Questo comporta la creazione di nuove nicchie ecologiche per l’evoluzione del virus e potenziali cambiamenti nel profilo di rischio anche per l’uomo.
Il nostro Paese sta lavorando a una sorveglianza dei bovini da latte a partire da settembre
Sebbene la presenza del virus nei bovini non interessi l’Italia o l’Europa, ma sia al momento confinata negli Stati Uniti, il nostro Paese sta lavorando a una sorveglianza dei bovini da latte a partire da settembre: «Si tratta di un intervento apripista, poiché a livello europeo non c’è alcuna direttiva che imponga la sorveglianza nei mammiferi, in particolare quelli da latte – afferma Terregino a TrendSanità -. Sebbene al momento non ci siano segnali, anche da studi retrospettivi, che il virus circoli in questi mammiferi nel nostro continente, è utile porre l’attenzione anche su queste categorie, per poter rispondere con dati a chi chiede come facciamo a sapere che il virus non sta circolando senza una sorveglianza sistematica. Dal punto di vista pratico, si sta ragionando sull’impatto di certe misure sul sistema di sorveglianza e sulle attività produttive».
L’approccio One Health e l’importanza del dato
Durante la giornata, è stata più volte sottolineata l’importanza dell’approccio One Health, che permetta a veterinari, allevatori, medici e agli esperti ambientali di parlarsi e confrontare i dati.

«In questo momento ci sono delle difficoltà nella circolazione delle informazioni, perché i sistemi di raccolta dei dati sono diversi – ammette Terregino -. Per quanto riguarda la caratterizzazione dei virus dell’influenza animale, però, sono in corso molti progetti con l’Istituto Superiore di Sanità che dovrebbero portare nel giro di qualche mese a una piattaforma unica di sorveglianza che aggiunga al monitoraggio delle malattie umane respiratorie anche i casi di infezione umana da influenza animale».
E poi c’è il nodo dell’informazione degli operatori: «C’è poi la volontà di fornire a chi è in prima linea, come i medici del Pronto soccorso o i MMG tutte le notizie utili per essere aggiornati sulla situazione epidemiologica. Queste informazioni saranno rilasciate sotto forma di bollettino periodico».
Anche per quanto riguarda la salute animale, in Italia si patisce la frammentarietà regionale: «Esistono Regioni che da tempo convivono con l’influenza e che hanno sistemi ben strutturati di sorveglianza e monitoraggio, dove veterinari, SISP, Regione e Ministero si parlano – ricorda Terregino -. In altre aree questi sistemi non sono ben strutturati perché non hanno avuto casi di influenza aviaria, ma stanno cercando di capire come costruire un sistema simile se dovessero averne. In ogni caso, i progetti con l’ISS sono tesi proprio a uniformare i sistemi nelle varie Regioni».
Il Piano strategico operativo di preparazione e risposta a una pandemia da patogeni di trasmissione respiratoria a maggiore potenziale pandemico 2025-2029 è in bozza da febbraio e, sebbene non sia cambiato molto rispetto alla versione precedente per quanto riguarda la sorveglianza veterinaria, è stata sottolineata l’importanza di intercettare nel serbatoio animale virus che potrebbero poi mutare, a conferma di quanto l’approccio One Health sia cruciale.
La sfida dei virus emergenti
Il Covid ha reso chiaro come sia fondamentale arrivare preparati a un’epidemia, senza minimizzare i segnali. In questo momento H5N1 è un osservato speciale: proprio perché è sotto ai riflettori, le potenziali mutazioni pericolose per l’uomo dovrebbero essere intercettate.
È importante incentivare a livello internazionale le attività di sorveglianza e la trasparenza dei dati
Che cosa dire invece degli altri virus emergenti? «È un problema che non interessa direttamente l’Italia, ma Paesi nei quali serbatoi di virus prima confinati in ambienti naturali ora si stanno avvicinando. Penso per esempio ai mercati con animali selvatici, oppure alla deforestazione, che avvicina questi ultimi alle zone coltivate – spiega Terregino -. In queste aree ci sono condizioni che si fa fatica a monitorare perché non esistono sistemi di sorveglianza, nonostante sappiamo che si tratta di luoghi in cui circolano virus pericolosi, per esempio progenitori di virus che possono adattarsi all’uomo».
Che cosa fare, quindi? «Credo che l’unica risposta sia incentivare a livello internazionale le attività di sorveglianza e la trasparenza dei dati: più si conosce quello che c’è sul territorio e le interazioni e prima si può intervenire», conclude l’esperto.