H5N1: il virus si sta adattando. Non c’è trasmissione interumana, ma serve prepararsi

Vaccini a RNA autoamplificante, sorveglianza genetica e nuove priorità internazionali: Daniele Focosi, relatore all’incontro OMS sull’H5N1, illustra a TrendSanità le strategie per fronteggiare l’influenza aviaria

Il 19 marzo scorso oltre 1.200 esperti da tutto il mondo si sono riuniti, su invito dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), per discutere le priorità di ricerca e sviluppo in risposta a una potenziale minaccia globale: l’influenza aviaria H5N1. L’incontro, intitolato What research is important to prepare and respond to H5N1 influenza outbreaks?, ha riacceso i riflettori su un virus che negli ultimi mesi ha mostrato segnali preoccupanti di diffusione tra diverse specie animali, compresi i bovini da latte.

Tra i relatori dell’evento, anche l’ematologo e virologo Daniele Focosi, dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, che da anni collabora con l’Istituto Nazionale Malattie Infettive (INMI) Spallanzani e con la Johns Hopkins University, invitato a presentare una relazione sull’evoluzione dei prodotti in sperimentazione, tra cui vaccini a protezione ampia.

Lo abbiamo intervistato per TrendSanità per capire quali sono i reali rischi all’orizzonte, lo stato della ricerca e le sfide produttive legate ai vaccini.

Quali sono i punti principali emersi durante la riunione con l’OMS, in particolare sul tema del virus H5N1?

Daniele Focosi

«Parliamo di un nuovo ceppo dell’influenza aviaria, appunto l’H5N1, il candidato principale tra i virus che possono causare nuove pandemie. In particolare, da circa 10 anni stiamo osservando un sottotipo chiamato 2.3.4.4b presente negli uccelli selvatici, che da sempre rappresentano il serbatoio naturale delle influenze aviarie, introducendosi anche in uccelli da allevamento e recentemente in diverse specie di mammiferi, in pressoché tutti i continenti.

Ci sono stati, infatti, focolai molto ampi in mammiferi sia selvatici (nelle Americhe) che allevati (come i visoni in Spagna e Finlandia). Poi, da circa un anno, negli Stati Uniti, il virus ha fatto un ulteriore salto, arrivando ai bovini da latte con 2 distinti sotto-sottotipi chiamati B3.13 e D1.1. Si tratta di animali con cui l’uomo ha contatti molto stretti e spesso non protetti.

Negli USA, ad esempio, accade spesso che i dipendenti di un allevamento siano immigrati irregolari per cui è molto difficile effettuare il contact tracing. Come tali, è probabile che scarseggino di dispositivi di protezione individuale e spesso non si fanno visitare quando stanno male. Sono tutti fattori che aumentano il rischio di un possibile salto di specie. Ed è proprio per questo che l’OMS ha convocato la riunione.

Non ci sono, ad oggi, segnali di trasmissione da persona a persona, ma non dobbiamo abbassare la guardia

Cosa intende per “adattamento”?

«Significa che il virus comincia a trasmettersi tra gli esseri umani. Può avvenire gradualmente, ma anche in modo improvviso. Un rischio specifico si presenta quando una persona o un mammifero si infetta contemporaneamente con un ceppo umano dell’influenza e con quello aviario. In questo caso si può verificare una “ricombinazione”, un processo che accelera l’adattamento del virus all’organismo umano, cioè può acquisire mutazioni che gli permettono di replicarsi in modo più efficiente nelle nostre cellule. A quel punto, può iniziare a trasmettersi da persona a persona. E questo, ovviamente, rappresenta una potenziale nuova pandemia».

Oggi però abbiamo strumenti diversi rispetto al passato.

«Possiamo monitorare quasi in tempo reale l’evoluzione del virus. Ciò non toglie che una pandemia resti un evento imprevedibile, ma siamo in grado di osservare il processo di adattamento del virus all’essere umano: stiamo già vedendo dei segnali, anche se probabilmente stiamo intercettando solo la punta dell’iceberg. Le manifestazioni cliniche nei casi umani sporadici diagnosticati finora sono state lievi: spesso si trattava di semplici congiuntiviti, in molti casi nemmeno accompagnate da febbre, quindi difficili da intercettare. In questi casi, il virus è entrato nell’organismo attraverso la mucosa nasale o oculare, non adeguatamente protette durante l’esposizione. È la porta d’ingresso più frequente per chi lavora a stretto contatto con animali infetti».

C’è anche il rischio di contagio da altri mammiferi?

«Sì, ed è un altro elemento che preoccupa. Nei pressi degli allevamenti di bovini negli Stati Uniti, dove si sono verificati i focolai, si sono ammalati anche altri mammiferi, come i gatti a cui veniva dato da bere latte crudo, non pastorizzato. Le modalità di trasmissione negli allevamenti sono ancora poco chiare, ma l’intervento umano è probabilmente decisivo. Il virus è stato rinvenuto in grandi quantità nelle ghiandole mammarie dei bovini. E negli allevamenti si usano le stesse tettarelle per aspirare il latte da un animale all’altro, senza sterilizzarle adeguatamente. Aggiungiamo poi che negli Stati Uniti c’è un’enorme movimentazione di bovini tra gli stati, per motivi riproduttivi o commerciali».

Si sta già pensando a dei vaccini?

«Ci sono Paesi come la Finlandia che hanno già imposto la vaccinazione per gli operatori a stretto contatto con gli animali a rischio. Per quanto riguarda invece una vaccinazione estesa alla popolazione generale, in caso di pandemia, si entrerebbe in uno scenario completamente diverso. Esiste già da anni un modello collaudato: quello dell’aggiornamento annuale dei vaccini stagionali contro l’influenza. L’OMS, ogni anno, indica ai produttori i ceppi virali che con maggiore probabilità circoleranno nella stagione successiva. Ma tutto cambia in uno scenario pandemico, dove il tempo tra il riconoscimento del virus e la disponibilità sul mercato di dosi vaccinali sufficienti si deve restringere drasticamente.

Nel caso dell’influenza aviaria, c’è anche un altro problema. I vaccini influenzali sono prodotti ancora in larga parte usando uova embrionate di gallina. In piena emergenza pandemica da un virus aviario, quindi, potrebbe non esserci disponibilità sufficiente di uova per produrre le dosi necessarie.

L’attuale dipendenza dai vaccini prodotti su uova di gallina rischia di diventare un limite critico in caso di pandemia da virus aviario

È su questa matrice biologica che viene fatto crescere il virus influenzale, per poi estrarne gli antigeni utili a produrre il vaccino. Negli Stati Uniti, proprio a causa dei focolai di influenza aviaria negli allevamenti avicoli, si sta verificando una carenza di uova che, su larga scala, diventerebbe un problema sistemico per i produttori di vaccini».

L’Europa sarebbe in grado di far fronte a una simile emergenza?

«Ad oggi, no. Anche l’Europa sta affrontando da anni focolai di aviaria e la capacità di autosufficienza di uova in alcuni Paesi è già spesso al limite. Questo è il primo grande problema per produrre dosi vaccinali. Il secondo riguarda i tempi produttivi. Anche ammesso che le uova siano disponibili, prima di riuscire a produrre le prime dosi di vaccino, passerebbero comunque 5 o 6 mesi. E parliamo delle prime dosi, non certo di quantità sufficienti per coprire tutta la popolazione mondiale».

Ci sono alternative alle uova?

«Sì, già oggi circa il 16% dei vaccini è prodotto su colture cellulari. Questo sistema ha un vantaggio importante: è indipendente dalla disponibilità di uova. Ma ha anche un limite: i tempi produttivi sono praticamente gli stessi. In più, questa tecnologia è in mano a pochi produttori nel mondo, quindi non sarebbe comunque sufficiente a garantire una distribuzione capillare e tempestiva in caso di pandemia.

Serve un cambio di paradigma. È necessario concentrarsi su tecnologie che siano indipendenti sia dalle colture su uova, sia da quelle su cellule. Tecnologie che permettano, cioè, di aumentare rapidamente il numero di dosi producibili e soddisfare la domanda vaccinale nel minor tempo possibile».

C’è già un’ipotesi concreta in questa direzione?

«Sì, qualcosa che in parte abbiamo già sperimentato durante la pandemia da Covid-19: i vaccini a RNA messaggero. In questi ultimi 3-4 anni, c’è stato un ulteriore passo avanti con lo sviluppo dei vaccini a RNA messaggero autoamplificante o self-amplifying mRNA.
Quando abbiamo fatto il vaccino contro il Covid, la quantità di antigene prodotta nel nostro organismo dopo l’iniezione dipendeva direttamente dalla quantità di RNA contenuta nel vaccino. Ma la quantità di RNA è il collo di bottiglia: più RNA serve per immunizzare una persona, meno dosi l’azienda riesce a produrre in tempi brevi.

Con i vaccini autoamplificanti, invece, cambia tutto. Occorre circa 30 volte meno RNA per ottenere la stessa risposta immunitaria. Questo perché il vaccino contiene non solo l’RNA che codifica l’antigene, ma anche l’enzima necessario per replicare quella molecola all’interno dell’organismo. Enzima che il nostro corpo non possiede».

In pratica, il vaccino si moltiplica da solo?

«Esattamente. Una piccola quantità di RNA, grazie all’enzima incluso, è replicata direttamente nell’organismo e produce una quantità molto maggiore di antigene. Così si riescono a immunizzare più persone partendo dalla stessa quantità di materia prima. Anche i costi si abbassano. Durante gli ultimi anni della pandemia da Covid, i costi dei vaccini sono aumentati in parte perché la domanda si era ridotta, meno richiami, meno interesse da parte della popolazione. Ma in uno scenario pandemico, con una domanda altissima e una tecnologia che consente di moltiplicare per trenta la produzione di dosi, questi vaccini diventano estremamente competitivi. I brevetti però sono ancora nelle mani di poche aziende. Ma dal punto di vista regolatorio si stanno facendo grandi passi avanti.

Con i vaccini a RNA messaggero autoamplificante si riescono a immunizzare più persone partendo dalla stessa quantità di materia prima

Lo scorso dicembre, l’EMA ha approvato il primo vaccino anti-Covid basato su RNA autoamplificante, sviluppato da una biotech statunitense. E se guardiamo alla pipeline, cioè alle previsioni autorizzative, dei vaccini a RNA contro l’influenza aviaria, ci sono già almeno sei produttori a livello mondiale che stanno conducendo studi clinici con questa tecnologia».

Ci sono rischi di mutagenesi o integrazione nel DNA?

«No. Parliamo sempre di un vaccino a RNA, che non si integra nel genoma. La sua attività resta confinata nel citoplasma della cellula, senza mai entrare nel nucleo. Il profilo di sicurezza è identico a quello dei vaccini RNA che abbiamo già conosciuto durante il Covid. Coi vaccini a RNA autoamplificante c’è un rischio teorico non di sicurezza, ma piuttosto di perdita di efficacia con dosi ripetute, dovute a risposte immunitaria contro l’enzima. Ma, a differenza del SARS-CoV-2, che muta rapidamente e richiede frequenti richiami, il virus dell’influenza muta più lentamente ed in un contesto pandemico la probabilità che emergano altri ceppi rimane molto bassa. La necessità di booster frequenti è, pertanto, molto più bassa. Il vaccino verrebbe somministrato principalmente una volta, o comunque in un arco temporale limitato, sufficiente a controllare l’onda pandemica».

Come cominciare a parlarne al pubblico, senza creare allarmismi?

«È una delle preoccupazioni più forti. Esiste un termine inglese molto usato in questo contesto, pandemic fatigue, che descrive l’assuefazione dell’opinione pubblica nel sentir parlare continuamente di nuove pandemie. Il rischio è che la gente non reagisca più con la necessaria prontezza quando davvero si presenterà una nuova emergenza sanitaria.

La pandemic fatigue (l’assuefazione dell’opinione pubblica) rischia di rallentare la risposta pubblica a future emergenze sanitarie

Durante il Covid, la mortalità si è concentrata soprattutto tra le persone anziane e fragili, e l’età media dei decessi è stata di circa 80 anni.
Con l’influenza pandemica il discorso si ribalta. I giovani sarebbero più a rischio, mentre gli anziani immunocompetenti, paradossalmente, potrebbero essere più protetti, perché nel corso della loro vita hanno incontrato ceppi influenzali più simili a quello pandemico emergente e questo fornisce una certa quota di immunità crociata».

La decisione di Trump di uscire dall’OMS potrebbe avere conseguenze?

«Non credo ci saranno grandi effetti operativi, almeno per quanto riguarda la produzione dei vaccini. Le aziende che sviluppano vaccini a mRNA continueranno a operare in autonomia, senza dipendere dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Sebbene l’OMS giochi un ruolo scientifico nel coordinamento e nella scelta dei ceppi virali, questo compito potrebbe essere facilmente assunto da enti regionali come l’ECDC in Europa o il CDC negli Stati Uniti.

L’OMS resta fondamentale nel sostenere economicamente la produzione di vaccini nei Paesi a basso reddito, dove la popolazione di giovani adulti è maggioritaria. In queste aree, le condizioni strutturali, come la mancanza di protezioni, scarsa prevenzione e alta densità abitativa, renderebbero l’impatto di una nuova epidemia potenzialmente più grave rispetto al Covid».

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Ivana Barberini
Giornalista specializzata in ambito medico-sanitario, alimentazione e salute