“Stiamo perdendo il governo clinico delle strutture”. Non usa mezzi termini, Fabio De Iaco, presidente della Simeu, la Società italiana di Medicina di emergenza-urgenza e direttore del Pronto soccorso e della Medicina di emergenza-urgenza dell’ospedale Maria Vittoria di Torino.
Si stima che nei Pronto soccorso italiani manchino circa 5.000 medici, cioè 3 su 10. In media, perché la situazione varia molto tra le Regioni e all’interno delle singole strutture. Al Maria Vittoria, per esempio gli strutturati sono 13, a fronte di un fabbisogno di 25 persone.
Quindi? Per non chiudere i servizi da alcuni anni i direttori generali appaltano un pezzo di sanità a cooperative private che inviano medici “a gettone”: assunti per un solo turno, mettono una toppa a un buco che è la conseguenza di anni di tagli orizzontali alla sanità. Trattandosi di personale a partita iva, i compensi elargiti dagli ospedali sono molto più alti rispetto a quelli che percepiscono gli strutturati: un gettonista può guadagnare fino a 1.200 euro lordi a turno. Un dipendente ne percepisce 120.
“Il problema è che siamo di fronte a uno smantellamento del Ssn, non a una privatizzazione – precisa De Iaco – In quest’ultimo caso, infatti, ci sarebbero regole precise cui il privato dovrebbe attenersi. Allo stato attuale, invece, le norme mancano del tutto”.
Dal 2010 c’è un tetto di spesa per il personale che impedisce alle strutture sanitarie di assumere e di pagare meglio i dipendenti
Le cause del caos cui assistiamo oggi affondano le radici lontano nel tempo: dal 2010 esiste un tetto di spesa per il personale che impedisce alle strutture sanitarie di assumere e di pagare meglio i dipendenti. Da quell’anno, nello specifico, gli ospedali non devono superare – per i loro dipendenti – la spesa sostenuta nel 2014 decurtata dell’1,4%.
Dal 2008 si è aggiunto il blocco del turnover: negli ultimi anni, cioè, chi è andato in pensione non è stato sostituito in maniera proporzionale. Oggi, quindi, gli ospedali si trovano a fronteggiare un carico di lavoro molto superiore alla loro capacità, perdipiù con il personale ridotto. “Tutto questo senza considerare il Covid, che è stato un moltiplicatore”, osserva De Iaco.
La qualità di vita dei medici
A farne le spese sono prima di tutto gli stessi professionisti: costretti a turni massacranti e spesso nell’impossibilità di programmare la propria vita personale. “Le nuove generazioni hanno ben chiare le loro priorità: il lavoro è importante, ma il resto della propria vita non va sacrificato. Probabilmente hanno ragione loro – sospira De Iaco – Sono molte le persone che si iscrivono a una seconda specializzazione e lavorano qualche ora fuori dall’ospedale: in questo modo guadagnano più di un dirigente medico avendo meno responsabilità e un carico orario inferiore. Oppure, ci sono medici che accettano solo contratti part-time: in questo modo si blindano, poiché non possono svolgere prestazioni aggiuntive né effettuare straordinari”.
Chi lavora a partita iva per una cooperativa riesce, con una manciata di turni al mese, a guadagnare quanto un dipendente che passa in ospedale 48 ore a settimana
E poi c’è il fenomeno delle cooperative, appunto: chi lavora a partita iva per queste strutture riesce, con una manciata di turni al mese, a guadagnare quanto un dipendente che passa in ospedale 48 ore a settimana.
Recentemente la Federazione Cimo-Fesmed ha lanciato un sondaggio: su 1.000 medici ospedalieri, il 37,5% ha dichiarato di essere pronto a dimettersi dal Ssn per lavorare per una cooperativa. La percentuale cresce allo scendere dell’età: un under35 su due farebbe il passaggio, così come il 45% di chi ha tra i 36 e i 45 anni (tra gli over55 siamo al 28%).
“È sicuramente un problema economico, ma c’entra anche la qualità della vita – evidenzia Guido Quici, presidente del sindacato dei medici –: un giovane medico che entra in un pronto soccorso oggi ha scarse possibilità di far carriera. Negli ultimi 10-12 anni, infatti, è stato tagliato il 48% degli incarichi di primario e vice-primario. Per contro, ha moltissime responsabilità ed è esposto alle aggressioni, che sono sempre più all’ordine del giorno. Infine, non è valorizzato né dal punto di vista professionale, né da quello economico: chi glielo fa fare, di rimanere nel Ssn?”
Il problema è più profondo di quanto appaia: nel 2021, ben 1.300 borse di specializzazione non sono state assegnate o sono state rifiutate. “Di fronte a questa situazione, capisco anche i direttori generali che scelgono di affidarsi alle cooperative: è l’unico modo per riuscire a garantire alcuni servizi”, commenta Quici.
Le conseguenze sui pazienti
E poi ci sono i pazienti, coloro che subiscono, loro malgrado, questa organizzazione. “Non ne facciamo una questione di professionalità del singolo – evidenzia De Iaco –: tra chi lavora per le cooperative ci sono colleghi competenti e preparati. Il problema risiede nell’assenza di regole che fa sì che non esistano davvero controlli su chi entra in ospedale e in che condizioni”.
La legge prevede che i medici non possano lavorare più di 13 ore consecutive, per un massimo di 48 a settimana. Se un camice bianco però non è un dipendente, può coprire più turni di seguito in strutture diverse senza dover rispondere a nessuno. Inoltre, sebbene le cooperative inviino preventivamente i curricula dei professionisti all’azienda sanitaria, succede spesso che a finire in corsia siano neolaureati senza specializzazione né esperienza.
Esiste una legge, la 502 del 1992, che pone come requisito per i medici che partecipano a un concorso pubblico l’essere dotati di specializzazione. In Italia, chi consegue la laurea in medicina può lavorare sul territorio, per esempio come guardia medica, oppure svolgere azioni di supporto, come il pre-triage o i tamponi. Non può lavorare all’interno di un ospedale.
Una recente indagine dei Nas ha mostrato come, attraverso le cooperative, siano stati impiegati medici generici in reparti come ostetricia e ginecologia, mentre camici bianchi senza specializzazione ed esperienza in medicina d’urgenza siano finiti in pronto soccorso.
Esiste un problema di sicurezza, prima di tutto, ma anche di continuità assistenziale
“Esiste un problema di sicurezza, prima di tutto – ammette De Iaco – ma anche di continuità assistenziale: un gettonista che passa una notte in pronto soccorso non chiamerà mai a casa i pazienti nei giorni successivi. Per noi è importante lavorare per obiettivi, ma come si fa a fornire linee d’indirizzo a persone che dopo 12 ore se ne vanno?”.
Il problema dell’équipe è evidenziato anche da Antonio D’Amore, direttore Generale del Cardarelli di Napoli e vicepresidente Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere): “Prestazioni esterne una tantum costituiscono un destabilizzatore di un gruppo che, a livello di pronto soccorso, è fondamentale – afferma – Lì infatti il carico di lavoro è più pesante ed elementi che non conoscono per esempio i Pdta possono determinare situazioni rischiose che si vanno a ripercuotere sui pazienti”.
La risposta delle istituzioni
Recentemente, grazie anche alle proteste dei camici bianchi, qualcosa si è mosso a livello istituzionale: il presidente dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, ha sollecitato l’intervento dei ministeri della Salute e dell’Economia e Finanze per chiarire il nodo della retribuzione oraria dei gettonisti.
Il Ministero della Salute, da parte sua, a metà novembre ha inviato i Carabinieri del Nas a controllare quasi 2.000 strutture sanitarie in tutta Italia, monitorando 637 imprese e cooperative private che forniscono personale sanitario agli ospedali. Le irregolarità riscontrate sono molte: da medici troppo anziani (con oltre 70 anni), all’impiego di figure sanitarie senza l’adeguata formazione sulla tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro, fino a casi di esercizio abusivo della professione e all’impiego di risorse umane non adatte alle esigenze di specifici reparti ospedalieri.
In tutto, sono state segnalate alle autorità 205 persone e riscontrate irregolarità in 165 profili professionali.
In questo quadro, non è chiaro come sia possibile, dal punto di vista legislativo, il ricorso massiccio alle cooperative private per sopperire la carenza strutturale di medici. L’articolo 97 della Costituzione impone che, nella Pubblica amministrazione, si acceda soltanto tramite concorso. Il tetto sul personale impedisce di far crescere quella voce di spesa: i bandi con le cooperative non sono dunque gestiti dalle Risorse umane delle strutture ospedaliere, ma dal Provveditorato e le spese inserite non tra quelle del personale, ma in beni e servizi. “Si tratta di una voce utilizzata per le consulenze, per esempio”, rende noto Quici. Che però sono per loro natura estemporanee e non strutturali.
Quella dei medici a gettone è ormai una prassi radicata soprattutto nel Nord Italia
Un’indagine Simeu condotta nella primavera del 2022 ha evidenziato come quella dei medici a gettone sia ormai una prassi radicata, soprattutto nel Nord Italia: all’epoca dell’analisi in Veneto vi faceva ricorso il 70% degli ospedali, il 60% in Liguria, il 50% in Piemonte. In Friuli Venezia Giulia e nelle Marche tutte le strutture sanitarie si sono affidate ai medici a gettone. “E oggi la situazione è peggiorata ulteriormente”, sospira De Iaco.
Antonio D’Amore – la cui struttura al momento non è interessata dal fenomeno – sottolinea un aspetto non secondario: “Sebbene non cresca la voce del personale, in queste situazioni esplode quella relativa ai beni e servizi. Significa che, per far quadrare il bilancio, occorrerà tagliare da qualche altra parte. Dove? Dipende da caso a caso, ma tutto è importante. Prendiamo per esempio la manutenzione dei giardini. Sulla carta sembrerebbe sacrificabile. In realtà, un taglio di quella spesa implica una minore igiene al di fuori di un ospedale. Non è un problema banale”.
Quali soluzioni
Posto che la situazione è grave, è l’esito di anni di tagli e non potrà migliorare velocemente, quali sono le strade percorribili per invertire la rotta?
Per De Iaco alcune misure da attuarsi immediatamente sarebbero: “Assumere specializzandi dal terzo anno in poi inquadrandoli come dirigenti medici in formazione; riconoscere come attività usurante l’emergenza-urgenza; rifondare l’intero sistema di emergenza-urgenza, istituendo la figura del medico unico di emergenza e urgenza che opera sia nel sistema preospedaliero (118), sia nei servizi di pronto soccorso e nella Medicina di emergenza-urgenza; valorizzare l’aspetto economico e trovare una soluzione almeno parziale al problema del boarding. Infine, il territorio dovrebbe essere dotato di medici che si occupino dei pazienti senza inviarli in ospedale. Questo mi sembra difficilmente attuabile dalle Case di Comunità, che prevedono la presenza di un medico per appena quattro ore al giorno…”.
Il presidente Simeu evidenzia: “L’epidemiologia è cambiata negli ultimi 15 anni: oggi abbiamo un numero di posti letto inferiore alle necessità. Occorre mettere mano all’intero sistema. La politica dovrebbe proporre una visione di quello che sarà il Ssn del futuro, rivolgendosi ai tecnici per la ricerca degli strumenti migliori per attuarla. Negli ultimi anni, tuttavia, questa visione è mancata e oggi navighiamo a vista”.