Corrao: «Ognuno di noi è proprietario dei propri dati sanitari, ma chi può utilizzarli è ben altra cosa»

A TrendSanità Giovanni Corrao (Professore Emerito di Statistica Medica, Università di Milano Bicocca) illustra i vantaggi della rivoluzione dei dati sanitari tramite EHDS e EDS: migliore accesso ai dati, tutela della privacy, supporto alla ricerca, programmazione sanitaria personalizzata e standardizzazione europea

La rivoluzione digitale sta trasformando la sanità, aprendo nuove opportunità per l’analisi e l’utilizzo dei dati sanitari. Tuttavia, questa evoluzione porta con sé interrogativi fondamentali: chi ha il diritto di analizzare i dati? Come garantire la privacy e, al tempo stesso, utilizzare le informazioni disponibili per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria?

L’introduzione di regolamenti come l’EDHS e l’Ecosistema dei Dati Sanitari potrebbe favorire una maggiore standardizzazione e interoperabilità dei dati a livello nazionale ed europeo, con l’obiettivo di migliorare l’accesso alle cure e personalizzare i percorsi di assistenza. Ma per realizzare pienamente questa rivoluzione, sarà necessario un adeguato supporto normativo che permetta alle regioni di utilizzare efficacemente i propri dati per la ricerca e la pianificazione sanitaria.

Ne abbiamo parlato con Giovanni Corrao, Professore Emerito di Statistica Medica, Università di Milano Bicocca e collaboratore dello staff Assessorato alla Sanità di Regione Lombardia.

Giovanni Corrao

Professor Corrao, quali vantaggi offre l’analisi dei dati digitali nella sanità?

«La gestione clinica del paziente attraverso la digitalizzazione delle informazioni sanitarie che lo riguardano e l’opportunità che tali informazioni siano disponibili al paziente e al suo medico curante, in altri termini, la costruzione del cosiddetto Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) produrrà un’importante fonte di dati, che si aggiungerà a quelle già esistenti e immediatamente utilizzabili. A fianco dell’FSE, progetto complesso e quindi dal lento avvio, vi è da considerare la promozione e il supporto dell’uso rigoroso e sistematico dei cosiddetti dati sanitari correnti, già immediatamente disponibili e che riguardano gli assistiti del SSN. Si pensi, per esempio, ai flussi del SSN direttamente gestiti dalle Regioni per la gestione del sistema quali l’anagrafe assistiti, il flusso delle prestazioni farmaceutiche in regime convenzionato e in distribuzione diretta e per conto, i flussi delle schede di dimissione ospedaliera, dell’assistenza in emergenza-urgenza, dell’assistenza ambulatoriale e dell’assistenza al parto. Tuttavia, quando si prospetta la possibilità di utilizzare dati sanitari per la programmazione o ancora per fini di ricerca, ovvero con finalità non direttamente legate all’immediata gestione clinica dei pazienti, si entra in un ambito di più complessa gestione.

Ognuno di noi è proprietario dei propri dati sanitari, ma chi può utilizzarli è ben altra cosa

Il vero nodo della questione riguarda l’analisi di questi dati: chi è autorizzato a farlo? Chi ne è proprietario? Per quali fini vengono utilizzati? Il vero proprietario di questi dati, come stabilito dalle normative, è il paziente: ognuno di noi è proprietario dei propri dati sanitari, ma chi può utilizzarli è ben altra cosa. Possono farlo, ad esempio, chi si occupa di programmazione sanitaria e chi può trarre dai dati informazioni sui bisogni di salute dei cittadini».

Come, per esempio?

«Ogni Regione, ma anche il Ministero della Salute ha bisogno di stratificare la popolazione (i beneficiari del SSN) in funzione dei bisogni assistenziali (per esempio quanti sono i pazienti affetti da malattie croniche e in quali aree si concentrano?), monitorare l’assistenza per verificare se e come le raccomandazioni basate sulle evidenze siano trasferite nella pratica clinica corrente (per esempio, stiamo curando i pazienti affetti da diabete secondo quanto raccomandato dalle linee guida?) e valutare le componenti della qualità dell’assistenza (causalmente) associate all’impatto clinico per il paziente e alla sostenibilità del sistema. Ma per soddisfare questi bisogni conoscitivi abbiamo bisogno di dati di ottima qualità e di analizzarli/trattarli in modo appropriato».

Con quali vantaggi e quali eventuali criticità?

«I vantaggi di questo modo di procedere consistono nel prendere decisioni riducendo i margini di incertezza. La principale criticità è l’assenza di una base normativa solida che ponga confini chiari su ciò che possiamo fare e ciò che non possiamo fare.

Non basta avere dati di buona qualità, per generare conoscenza è fondamentale analizzarli con metodologie rigorose

Il problema centrale è quello di tutelare i cittadini e nell’analizzare questi dati bisogna fornire ai cittadini due tipi di cautele. Poiché la disponibilità dei dati sui percorsi assistenziali sperimentati dai cittadini comporta un oggettivo rischio che, in assenza di adeguate misure, o adottando insufficienti strumenti che tutelino ogni cittadino, informazioni sensibili sulla sua salute possano non essere coperte da anonimato. La prima cautela che le istituzioni devono garantire è dunque legata al diritto alla privacy. Bisognerebbe considerare tuttavia, che la disponibilità, l’accessibilità e l’interoperabilità dei dati generati dall’osservazione della pratica clinica non garantiscono “di per sé” il miglioramento della conoscenza (la generazione di prove credibili) anche se i dati sono di buona qualità. La seconda cautela che le istituzioni devono garantire ai cittadini è che i dati che lo riguardano servano a generare prove solide sul modo migliore di curare le persone. Questo secondo principio viene spesso trascurato. Non basta disporre di dati di buona qualità per generare informazioni su ciò che serve per curare meglio i cittadini. I dati devono essere analizzati secondo procedure e regole di buone pratiche. Queste due cautele devono essere contemporaneamente offerte ai cittadini senza gerarchie nelle tutele etiche».

Come possono i dati sanitari aiutare le istituzioni a prendere decisioni corrette nell’ambito della programmazione sanitaria e nella ricerca traslazionale?

«La recente e drammatica esperienza della pandemia ci ha insegnato molto a questo proposito, rendendo visibile a tutti l’utilità dei dati in situazioni di emergenza. Attraverso un’attenta analisi dei dati a disposizione abbiamo misurato l’andamento della pandemia, riconosciuto le più rilevanti modalità di trasmissione del virus, identificato i pazienti a maggior rischio di manifestazioni cliniche severe, monitorato l’andamento del piano vaccinale e molto altro ancora. Se questo è stato reso palese a tutti durante la pandemia, per gli addetti ai lavori lo era da sempre. Sappiamo che per pianificare correttamente gli interventi dobbiamo capire dove sono le criticità, dove si concentrano i pazienti più fragili e qual è l’andamento delle fragilità nel corso del tempo.

In Lombardia è stato sviluppato un modello multidimensionale per identificare le fragilità. Un paziente è fragile se ha una situazione clinica complessa e/o qualche forma di disabilità riconosciuta. Un anziano è fragile se è a forte rischio di essere ricoverato in una residenza protetta. Un individuo è fragile se, soffrendo di una malattia cronica, non è adeguatamente trattato oppure se non partecipa agli esami di screening o alle vaccinazioni offerte o ancora se vive in un contesto sociale particolarmente vulnerabile. Ognuno di questi fattori deve essere quantificato attraverso dati che permettano di valutare non solo quanti individui si trovano in queste condizioni, ma anche l’andamento di questi fenomeni nel tempo e le aree a maggior rischio. Tutto quello che misuriamo attentamente, pubblicando ogni anno un rapporto epidemiologico, è uno strumento di lavoro per chi si occupa della programmazione sanitaria».

Quali vantaggi potremmo vedere nel futuro prossimo grazie alla recente rivoluzione dei dati sanitari in Europa e Italia?

«Con la pubblicazione del regolamento dello Spazio Europeo dei Dati Sanitari (EDHS) e dell’Ecosistema dei Dati Sanitari (EDS) si aprono nuove opportunità. Abbiamo un drammatico bisogno di standardizzare gli ecosistemi locali perché la vera rivoluzione della sanità è quella della personalizzazione delle cure, cioè identificare i bisogni di ogni cittadino.  Abbiamo bisogno di dati sempre più puntuali che ci permettano di identificare i bisogni laddove emergono.

Un ecosistema europeo è altresì importante perché permette di standardizzare le metodologie di analisi a livello europeo. Analogamente, l’EDS nazionale, attraverso il Ministero della Salute, consente di monitorare l’equità nell’accesso alle cure da parte dei cittadini di tutte le regioni italiane.

È fondamentale potenziare le normative per consentire alle regioni di analizzare efficacemente i propri dati sanitari

Rimane però una criticità: quello che ancora non va e su cui dobbiamo lavorare molto è dare la possibilità alle singole regioni, anche attraverso specifiche normative, di poter analizzare i propri dati, cosa che attualmente non è molto agevole.

Il problema non riguarda solo i flussi che le regioni utilizzano per rimborsare gli erogatori di servizi, ma anche la necessità di integrare questi dati con altri non strutturati che, pur essendo digitalmente disponibili, faticano a essere utilizzati per produrre nuove conoscenze».

Può fare un esempio?

«Un esempio concreto riguarda le nuove terapie in campo oncologico. Abbiamo un drammatico e urgente bisogno di identificare il profilo biologico, patologico, anagrafico e sociale dei pazienti che possono ricevere maggiori benefici dalle terapie innovative, in modo da aumentarne l’impatto clinico e ridurre le spese a carico del SSN».

Quali passi verso il futuro?

«Stiamo parlando di un campo innovativo. Qualcuno ha detto che l’innovazione tecnologica non si può fermare, e concordo perfettamente, ma l’innovazione va governata, ovvero dobbiamo metterci nelle condizioni di saperla indirizzare».

 Con quali parole chiave?

«Le parole chiave in questo ambito sono “big data” e “intelligenza artificiale”. Questa innovazione deve essere governata per mettere a disposizione dei cittadini le cure migliori possibili, ma anche sostenibili per il servizio sanitario nazionale. E per andare in questa direzione non possiamo far altro che dotarci di una normativa che consenta di standardizzare le regole di buona pratica della ricerca in campo sanitario».

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Silvia Pogliaghi
Giornalista scientifica, esperta di ICT in Sanità, socia UNAMSI (Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione)