Nel 2020 si stima che saranno prodotti a livello mondiale oltre 2.300 exabyte di dati sanitari, con una crescita annua del 48%. Un exabyte è composto da un miliardo di gigabyte, per intenderci. Tutto il materiale stampabile invece (libri, enciclopedia, giornali, etc..) sempre nel 2020 produrrà circa 5 exabyte. Di questi 2.300 exabyte il 16% proviene dai dispositivi medici, vale a dire, oltre alla strumentazione (RX, TAC, ecografi e tutte le apparecchiature mediche negli ospedali) tutti quei device che ci portiamo dietro o indossiamo per rilevare determinati parametri vitali (pressione del sangue, saturazione, battito cardiaco, glicemia, etc..).
E dove vanno a finire tutti questi dati? Nel nostro Paese, la risposta è: in centinaia di posti diversi. E come sono raccolti questi dati? Nel nostro Paese, la risposta è: sono raccolti da fornitori esterni che molto spesso hanno database su cloud specifici e inaccessibili ai proprietari dei dati stessi.
Come si potrebbe risolvere la situazione? Con il Clinical Data Repository, un data base dei dati clinici che permetterebbe di integrarli, estrarli e analizzarli in modo autonomo e controllato. Cosa che adesso non è possibile fare.
Quello che succede con i nostri dati sanitari raccolti dalle strutture pubbliche è questo: quando andiamo a fare una visita in uno studio medico privato, oppure in reparti diversi dello stesso ospedale o ancora dal nostro medico di base, i dati si fermano a quel database collegato al reparto o studio dove siamo andati. I dati sanitari, nel nostro Paese, non parlano tra di loro. Sono archiviati in isole, compartimenti stagni, silos, chiamateli come vi viene più comodo, ma il risultato è sempre lo stesso.
Asl, ospedali, studi medici, raccolgono dati gestiti poi da fornitori esterni e su cui non hanno un pieno controllo. Questo significa dover sostenere certi costi per estrarli e fare analisi, perché i database, pur essendo dell’azienda sanitaria, non sono facilmente accessibili perché l’azienda non sa come sono fatti.
I dati sanitari, nel nostro Paese, non parlano tra di loro
In Italia questo paradosso si vive anche all’interno dello stesso ospedale, dove i singoli reparti non parlano tra di loro: e così un paziente diabetico avrà una cartella diversa per il diabete e, se ha anche problemi cardiaci, ne avrà un’altra per la cardiologia. Le due cartelle non parlano tra di loro, così non è possibile conoscere la storia clinica longitudinale del paziente, ma solo un pezzo per volta.
Ecco, questa è la fotografia della gestione dei dati sanitari in Italia. Dove, se la sanità digitale fosse un settore strategico, dovrebbe bastare un click per sapere in un attimo tutta la storia del paziente. Ma a guardare gli investimenti degli ultimi anni in questo settore, si capisce perché la sanità digitale in Italia prosegua a rilento e mostri tutta la sua debolezza in un momento in cui, in piena pandemia, avrebbe dovuto mostrare la sua forza.
La sanità digitale non è strategica
Secondo una ricerca svolta dall’Osservatorio per la Salute Digitale del Politecnico di Milano, nel 2018 (non esistono dati più aggiornati) la spesa complessiva per la sanità digitale in Italia ammontava a 1,3 miliardi di euro, segnando un timido +7% rispetto al 2017, ma l’entusiasmo finisce qui. Parliamo di 22 euro circa a cittadino. In altri Paesi europei la spesa è più alta: in Danimarca siamo sui 70 euro pro capite, in Francia sui 40 euro, nel Regno Unito 60 euro. L’Italia è l’ultima o tra le ultime della classe quando si tratta di digitalizzazione nei diversi ambiti della vita pubblica e la sanità non fa eccezione.
In Italia la spesa per la sanità digitale è di circa 22€ a cittadino, contro i 40€ della Francia, i 60€ del Regno Unito e i 70€ della Danimarca
Sempre secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico, nel 2018 sono state le strutture sanitarie a sostenere la spesa maggiore in sanità digitale, con investimenti pari a 970 milioni di euro (+9% rispetto al 2017), seguite dalle Regioni con 330 milioni di euro (+3%), dai Medici di Medicina Generale con 75,5 milioni (+4%) e dal Ministero per la Salute con 16,9 milioni di euro (contro i 16,7 milioni nel 2017).
I sistemi dipartimentali e la Cartella Clinica Elettronica (CCE) sono gli ambiti di innovazione digitale che raccolgono i budget più elevati, rispettivamente 97 e 50 milioni di euro, e sono considerati prioritari dalle strutture sanitarie. La Cartella Clinica Elettronica, sebbene sia considerata prioritaria, non è ancora stata implementata in molti ospedali e dove esiste, non presenta parametri standard per la raccolta dei dati.
La CCE, se attivata in modo univoco in tutte le Regioni, potrebbe permettere una raccolta dati efficiente, coerente, condivisibile e utilizzabile per migliorare l’assistenza sanitaria e la cura dei pazienti. Come ci spiega in questa intervista Claudia Rocco, Senior Director per il comparto ospedaliero di IQVIA Italia, leader globale nell’analisi dei dati sanitari, se la cartella clinica fosse completamente aggiornabile lo studio epidemiologico potrebbe essere istantaneo.
Allo stesso modo il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), se posse interattivo e aggiornabile, permetterebbe al paziente di avere in tempo reale tutte le sue informazioni sanitarie, mentre ad oggi è solo un contenitore virtuale che raccoglie i pdf dei referti delle varie visite mediche, neanche sempre aggiornato da chi effettua queste visite. E i dati dell’Osservatorio confermano un basso utilizzo del fascicolo anche da parte della popolazione: su un campione di 1.000 cittadini intervistati, solo il 21% ne ha sentito parlare e solo il 7% ha dichiarato di averlo utilizzato.
La principale barriera è la difficoltà di accesso, indicata dal 40% degli utenti, e tra quelli che non hanno mai usato il FSE, il 47% ha dichiarato di non averne mai sentito parlare.
L’indagine ha coinvolto anche 1.768 medici specialisti, 274 dirigenti infermieristici e 602 medici di medicina generale che hanno confermato come la principale barriera alla diffusione del Fascicolo Sanitario Elettronico sia proprio la mancata o minima comunicazione della sua esistenza e dei suoi servizi.
Che cosa frena il salto digitale? Per l’Osservatorio del Politecnico di Milano, il 57% dei dirigenti delle aziende sanitarie ritiene che le principali barriere che frenano l’adozione di servizi innovativi siano i problemi derivanti dall’interoperabilità dei diversi sistemi applicativi e dalla coesistenza fra nuovi sistemi e quelli già in uso, oltre a quelle legate al rispetto della privacy e del GDPR.
Le App e i wearable device stanno ormai entrando nella quotidianità dei cittadini, con il 41% che utilizza una applicazione di coaching o un dispositivo indossabile per il monitoraggio dello stile di vita. Lo strumento più presente è lo smart watch, utilizzato da un cittadino su tre, con un vero e proprio boom rispetto all’8% registrato nel 2018. Tuttavia, ben il 75% dei cittadini che usa le App non invia né comunica al proprio medico i dati raccolti, che rimangono quindi spesso inutilizzati. E questo è un altro tema interessante: a cosa servono queste App e questi dispositivi indossabili se i dati forniti non sono analizzati da nessun operatore sanitario?
Il tema è come trasmettere questi dati in modo sicuro e protetto. Ci vorrebbe un sistema di blockchain per la trasmissione anche di queste informazioni, ma visto che al momento anche su questi aspetti in Italia è praticamente tutto fermo (ne abbiamo parlato in modo approfondito in questo articolo sulla Blockchain) i dati rimangono nella App e nei dispositivi.
Mentre, per tornare al tema principale, quelli raccolti dalle Asl e dalle pubbliche amministrazioni sanitarie rimangono comunque in silos e database diversi e separati. Il dato, tassello prezioso su cui andrebbe fondata tutta la sanità pubblica, rimane distaccato dagli altri dati e, quindi, è inutilizzabile.
Il ruolo dei fornitori esterni
Un altro punto importante è quello del vendor-lock nel settore sanitario, vale a dire la difficoltà di sostituire un fornitore senza dover sostenere rischi e costi elevati. Su questo tema si era espressa anche l’ANAC, l’Autorità Anti Corruzione che nella delibera n.950 del 2017 aveva sottolineato come alcune gare non siano state esperite perché non si può sostituire il fornitore precedente (la cosiddetta infungibilità). Nel campo sanitario e specialmente in quello relativo alla gestione dei dati, questo è un problema molto diffuso.
Il Repository Clinico Documentale è ritenuto uno degli ambiti più importanti di investimento dal 51% dei Direttori strategici delle strutture sanitarie
Secondo Fabrizio Massimo Ferrara, coordinatore scientifico del Laboratorio sui sistemi informativi sanitari di ALTEMS, Alta Scuola di Economia e Management Sanitario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, questo è un aspetto cruciale nella gestione delle informazioni dati: “ In questo modo diventa difficile consultare i dati, perché ogni volta che l’azienda vuole fare un’analisi per seguire un paziente cronico che, supponiamo, è sia diabetico sia cardiopatico, deve in qualche modo pagare il fornitore per estrarre queste informazioni”.
Una soluzione potrebbe arrivare dalla Clinical Data Repository, una sorta di data base dove far confluire le varie informazioni mediche che arrivano da apposite applicazioni. “Non si può pensare di creare un’unica soluzione che gestisce le decine di servizi offerti dalla medicina – prosegue Ferrara – questo è un errore di valutazione che abbiamo commesso noi come altri paesi all’estero. Il mondo sanitario è talmente vasto da non poter confluire in un’unica grande applicazione, ma quello che si può fare è creare datawarehouse sanitari in cui far confluire tutte le informazioni delle singole applicazioni dei vari settori clinici o reparti”.
Il Clinical Data Repository
Questo data base potrebbe realizzare l’integrazione nel sistema informativo di applicazioni diverse, senza bisogno di modificare le applicazioni già esistenti e utilizzando strumenti non proprietari (open source) per organizzare il patrimonio informativo aziendale secondo un modello standard, aperto e stabile nel tempo. Dalla ricerca 2019 dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano è emerso che il Repository Clinico Documentale è ritenuto uno degli ambiti più importanti di investimento dal 51% dei Direttori strategici delle strutture sanitarie italiane. In effetti nel 2018 sono stati allocati 56 milioni di euro al Repository Clinico Documentale, un importo maggiore di quello destinato alla Cartella Clinica Elettronica.
Realizzare questi repository non è difficile e non occorre ripensarli da zero. Queste piattaforme sono già utilizzate per il controllo di gestione anche nelle strutture sanitarie: quando occorre fare un’analisi su una certa spesa, si interroga il data base open source che, attingendo alle informazioni amministrative delle varie applicazioni collegate, restituisce il dato richiesto. Per realizzare le repository in ambito clinico si può seguire lo stesso disegno, applicando modelli standard che già esistono, come lo standard ISO “HISA – Health Informatics Service Architecture” (ISO 12967:2009) e lo standard “FHIR – Fast Health Interoperability Resource” di HL7, che si potrebbero già implementare (anche con eventuali personalizzazioni) senza dover ripartire da zero.
In mancanza di una strategia finalizzata al possesso e al governo dei dati, l’attuale frammentazione dei dati sanitari diventerà sempre più critica. E lo scenario sarà destinato a peggiorare con l’evoluzione dei modelli sanitari verso forme di collaborazione territoriale e con la diffusione di nuove tecnologie e di processi clinico-assistenziali basati anche sulla telemedicina e sull’Internet of Things.
Per questo ALTEMS, in collaborazione con il Ministero della Salute e diverse università italiane, ha avviato l’iniziativa di una “Community per il governo dei dati” (http://www.dati-sanita.it) con la missione di promuovere e supportare la definizione e la condivisione di strumenti open source per l’utilizzo dei dati tramite Clinical Data Repository.
La potenzialità del Clinical Data Repository
Mettendo in relazione l’analisi della spesa per un certo tipo di cure e l’outcome clinico, si può stimare con maggiore certezza il valore di quell’investimento
Se i dati fossero tutti inseriti in queste repository, in modo standard e univoco perlomeno all’interno delle Asl e della aziende sanitarie della stessa Regione, si potrebbero realizzare campagne di prevenzione ad hoc, personalizzare le cure, condurre studi epidemiologici coerenti e dettagliati e ottimizzare anche il controllo della spesa sanitaria: se accanto all’analisi della spesa per un certo tipo di cure riesco ad avere il dato sull’outcome clinico, posso sapere con un certo grado di certezza se quell’investimento ha funzionato. Adottando opportune procedure, infatti, queste analisi sono lecite e possibili, anche sotto il profilo della protezione dei dati personali. Non esistendo però una legge nazionale che imponga questo tipo di standardizzazione nella gestione dei dati, ogni Regione va avanti come vuole e come può, con il rischio di creare sistemi di gestione diversi che non permettono quindi un’analisi del dato nazionale. In ogni caso, avere sistemi gestionali univoci prima all’interno della stessa Azienda e poi magari anche della Regione sarebbe già un notevole passo avanti rispetto alla situazione odierna.
Il monitoraggio dei farmaci è un mondo a parte
Sul fronte dei farmaci, invece, la raccolta e il monitoraggio dei consumi e delle prescrizioni è ormai rodato e ben sviluppato. “Il farmaco è sempre stato un sorvegliato speciale – commenta Antonio Addis, farmacoepidemiologo della Regione Lazio – anche se il monitoraggio dei consumi non è uguale in tutte le Regioni. Ci sono luci e ombre e le analisi sono fatte a macchia di leopardo. Però negli ultimi tempi ho notato che le cose stanno migliorando e vedo positivamente gli ultimi rapporti OSMED dell’Agenzia Italiana del Farmaco che sta cercando di rendere sempre più accessibili questi dati per tutti”. AIFA da poco, infatti, ha lanciato OSMED Interattivo, un servizio che permette di interrogare la base dati di AIFA sui consumi del 2018 secondio diversi parametri.
Il sistema farmaco, da sempre sotto osservazione per i rilevanti volumi di spesa, registra buoni risultati anche in termini di analisi epidemiologiche
Chi si occupa di farmacoepidemiologia monitora il consumo dei farmaci e, su richiesta, porta avanti degli studi ad hoc in questo ambito che possono aiutare a ottimizzare la spesa sanitaria. Un esempio in questo senso è stato il monitoraggio sulla vitamina D lanciato da AIFA alla fine dello scorso anno con la famosa nota n.96, nella quale ha indicato per quali categorie di pazienti e indicazioni terapeutiche fosse corretto prescrivere la vitamina D. Per fare questo studio si sono serviti di farmacoepidemiologi e della banca dati OSMED. Gli esiti dei primi tre mesi di questo monitoraggio sono stati positivi: tra novembre 2019 e gennaio 2020, a livello nazionale si è registrata una contrazione dei consumi e della spesa dei farmaci a base di vitamina D di oltre il 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
I farmaci, quindi, hanno un loro canale di monitoraggio che sta dando i suoi frutti, anche in termini di epidemiologia e non solo per il controllo di gestione. Vedremo se in futuro potremo dire lo stesso dei dati sanitari.