Donne e sperimentazione farmaceutica, a che punto è la medicina di genere?

L’Italia è l’unico paese al mondo ad avere una legge che disciplina la medicina di genere, con un Piano per l’applicazione e la diffusione e un Osservatorio dedicato. Ne parliamo con Giovannella Baggio, prima docente a tenere una cattedra sulla materia in Italia, all’Università di Padova.

L’aspettativa di vita, la risposta immunitaria, i meccanismi ormonali. Fra donne e uomini, a livello biochimico, ci sono enormi differenze. Se dal punto di vista socio-economico la parità dei sessi è un traguardo tanto lontano quanto auspicabile, quando parliamo di sperimentazione in medicina la vera conquista bipartisan fa rima con diversificazione. La medicina di genere è infatti una conquista relativamente recente, su cui in molti paesi la strada da percorrere è ancora lunga, visto che le sperimentazioni dei farmaci avvengono soprattutto e prevalentemente su soggetti di sesso maschile. L’Italia è sorprendentemente l’unico paese al mondo ad avere una legge che disciplina la medicina di genere. La cosiddetta Legge Lorenzin, del 2018, fu la prima ad aver istituito anche un Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere sul territorio nazionale e un Osservatorio presso l’Istituto superiore di sanità. Ma a che punto siamo veramente su questo tema?

La nascita e il lavoro dell’osservatorio

“Molto spesso la medicina di genere è male interpretata – ci tiene a precisare Giovannella Baggio, prima docente a tenere una cattedra sulla materia in Italia, all’Università di Padova, nonché presidente del Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di genere. “Si cade nella “bikini sindrome”, ovvero quella deformazione per la quale si tende a pensare che sia la medicina che si occupa delle specificità femminili del corpo quali seno, utero e ovaie. Invece è una dimensione trasversale, che interessa storicamente molto di più le donne ma anche gli uomini, e che cerca di individuare le influenze del genere nelle ricerche mediche e nello studio delle terapie”.

Giovannella BaggioDalla scorsa primavera, un po’ frenato dalle priorità poste dalla pandemia, ha preso il via presso l’Istituto Superiore di Sanità un Osservatorio per la Medicina di Genere.  Nominato ai sensi del Comma 5 dell’art.3 della Legge 3/2018, questo organo – presieduto dal professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss – è composto da 36 componenti, di cui 31 esterni, che hanno la funzione di monitorare l’attuazione delle azioni di promozione, applicazione e sostegno previste nel Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere predisposto dal Ministero della Salute e dal Centro di riferimento dell’Istituto Superiore di Sanità, con l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas).

Obiettivo generale dell’Osservatorio è assicurare l’avvio, il mantenimento nel tempo e il monitoraggio delle azioni previste dal Piano, aggiornando gli obiettivi in base ai risultati raggiunti, in modo da fornire al Ministro della Salute gli elementi per riferire annualmente alle Camere. In particolare, deve assicurare il contributo delle diverse istituzioni centrali (Ministero della Salute, Iss, Agenas, Aifa, Consiglio Valutazione Impatto) e regionali (Conferenza Stato Regioni, tavoli tecnici regionali) anche attraverso la costituzione di gruppi di lavoro con rappresentanti dei soggetti istituzionali coinvolti. Altri compiti dell’Osservatorio riguardano il monitoraggio del Piano e il suo aggiornamento periodico, la promozione dell’interattività delle azioni di diffusione della Medicina di Genere tra gli assessorati regionali e la vigilanza che tutte le Regioni italiane, in tutti i contesti appropriati, abbiano avviato programmi di diffusione della Medicina di Genere secondo le indicazioni del Piano.

“Anche se le attività sono appena iniziate, posso dire che la linea è stata tracciata e si sta lavorando bene – ha detto Baggio, che con l’Osservatorio ha una collaborazione in qualità di esperta esterna. “Dobbiamo attenderci dei risultati concreti che devono arrivare innanzitutto dagli aggiornamenti delle linee guida nelle varie specialità mediche”.

Il New England Journal e l’inizio della medicina di genere

A sollevare per prima il problema della differenza di reazione ai farmaci fra uomini e donne fu la cardiologa americana Bernardine Healy. L’occasione la diede un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine. Nella prestigiosa rivista scientifica veniva dato spazio alla sindrome di Yentl, nome che la dottoressa coniò nel 1991 prendendola in prestito dall’omonimo film con Barbra Streisand sulla discriminazione culturale a cui sono sottoposte le donne, per spiegare che spesso le donne affette da cardiopatie rimanevano vittime di errori diagnostici e di terapie inefficaci che potevano costare anche la vita alle pazienti. Fu il primo caso in cui si fece riferimento al fatto che le donne non erano abbastanza rappresentate nelle sperimentazioni farmacologiche in un campo come la cardiologia che riguarda moltissimo anche le donne.

“Facciamo un esempio semplice ma efficace. L’infarto, benché colpisca maggiormente gli uomini, è la prima causa di morte anche fra le donne – ha sottolineato Baggio, aggiungendo che in caso di infarto per le donne l’esito infausto è più frequente. “Nella donna non arriva il classico dolore al torace. Proprio il diverso modo in cui si presentano i sintomi fa sì che questi vengano spesso sottovalutati”.

L’effetto della pandemia e la sperimentazione

La risposta ai vaccini per la Covid-19 e la stessa incidenza del virus su uomini e donne di età diverse hanno messo la comunità scientifica davanti ad una verità già nota ma spesso trascurata: malattie e cure sono “gender sensitive”. Le principali patologie hanno un’incidenza diversa a seconda del sesso di appartenenza del paziente, ecco perché è fondamentale che la medicina contemporanea, così come la ricerca farmaceutica, non siano indifferenziate e standardizzate ma personalizzate anche in base al genere di appartenenza dei pazienti.

Questa necessità si scontra con una realtà ben diversa: due farmaci su tre sono testati ancora solamente sulla popolazione maschile. Che la ricerca medica e farmaceutica siano declinate prevalentemente al maschile lo dimostra anche uno studio della Sif, la Società Italiana di Farmacologia, che ha messo in luce come i tester dei farmaci siano soprattutto uomini. Solo per il 30% dei casi, infatti, appartengono al sesso femminile e questa percentuale si abbassa ulteriormente per i test dei farmaci contro le malattie respiratorie e per quelle a carico del sistema cardiovascolare e renale.

Anche l’Aifa ha sottolineato l’importanza di sperimentazioni che tutelino le specificità di genere.

La semplice aspirina assunta a protezione dell’infarto del miocardio, per esempio, sembra essere efficace solo sugli uomini e non sulle donne, mentre alcuni trattamenti per il diabete nelle donne provocano un maggior numero di fratture.

Ma perché non si sperimenta anche sulle donne? “Essenzialmente è più costoso e più complicato allo stesso tempo – ha proseguito la professoressa. “Nelle donne il ciclo biologico subisce grossi cambiamenti a seconda delle fasi della vita, senza contare che le mestruazioni, il concepimento e l’età fertile sono forti inibitori alla libertà di sperimentare. Ma ci sono anche ragioni sociali: per lungo tempo la salute dell’uomo è stata considerata più importante”.

Le interazioni con gli altri farmaci

Per le donne i problemi nel sottoporsi alle sperimentazioni non derivano solo dalla mancata volontà delle case farmaceutiche o dalla difficoltà di realizzazione ma anche dalle interazioni dei medicinali fra loro. Dosare il farmaco in base al peso e all’altezza del paziente può non essere sufficiente in tutti quei casi in cui altre sostanze vengono assunte con frequenza. È il caso della pillola anticoncezionale, che interagisce negativamente con molte categorie di farmaci (antibiotici, ansiolitici, cardiovascolari e del sistema nervoso centrale).

“Nel 2006 Aifa annunciò che avrebbe voluto lanciare una propria ricerca indipendente dedicata allo studio dei farmaci di genere” – ha proseguito l’esperta. “Poi questo non è più accaduto e anche la Commissione che era stata creata appositamente sull’argomento ha smesso di lavorare, per quanto ne so. Le società scientifiche si stanno muovendo ma bisogna fare di più e arrivare presto a riformulare le linee guida”.

La medicina di genere allo specchio: quando l’uomo è più fragile

Non è detto che fra i due sessi sia sempre l’uomo ad essere statisticamente più forte. La pandemia ne ha portato un ottimo esempio, ma nella storia della medicina ce ne sono molti altri.

Per quanto riguarda il Coronavirus la maggior vulnerabilità degli uomini di fronte al morbo potrebbe dipendere sia da fattori biochimici (la proteina Ace2 sarebbe più espressa nelle donne perché codificata dal cromosoma X e sembra in grado di aiutare le cellule a difendersi dal virus) ma anche dalle abitudini.

“Abbiamo un sistema immunitario più forte di quello maschile”, afferma Baggio, che sottolinea anche come ora si stiano cominciando a raccogliere dati differenziati per genere sulle terapie contro Covid-19.

“Mi piacerebbe però vedere l’esito di questi dati sui vaccini per genere – ha concluso –. Abbiamo sentito dire che i test sono stati svolti secondo questo criterio ma io non ancora avuto modo di leggerli. È molto importante avere dati specifici anche per combattere contro la diffidenza di chi non vuole vaccinarsi”.

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Sofia Rossi
Giornalista specializzata in politiche sanitarie, salute e medicina