Epatite C: i farmaci innovativi fanno la differenza, la sfida adesso è intercettare il sommerso. Entro il 2030 l’OMS ci chiede di sconfiggere l’epatite C. Grazie ai nuovi antivirali ad azione diretta l’obbiettivo si potrebbe raggiungere, ma il problema di questa infezione è… trovarla.
L’epatite C è asintomatica e oggi colpisce una parte di popolazione che è difficile da intercettare: dai consumatori di sostanze per via endovenosa alla popolazione carceraria, passando per tutto quel sottobosco di individui che non afferiscono a nessun centro di recupero ma portano avanti comportamenti a rischio. Il decreto Milleproroghe ha stanziato oltre 70 milioni per intensificare la campagna di screening, ma senza un linkage-to-care adeguato, si rischia di non centrare il prezioso obbiettivo del 2030.
Che cos’è l’epatite C
L’epatite C è un’infezione delfegato causata da un virus denominato HCV (Hepatitis C Virus).
Prima di essere scoperto nel 1989, il virus era chiamato “non A non B” per distinguerlo dalle altre forme di epatite già note, molto più acute e sintomatiche. L’infezione da HCV, al contrario, è nella maggior parte dei casi cronica e asintomatica e nel corso del tempo può causare danni al fegato e modificarne la struttura anatomica, sostituendo tessuto epatico normale con tessuto cicatriziale fibrotico. Molte persone scoprono l’infezione HCV quando sono in stato di fibrosi avanzato (F3 o F4).
“Circa Il 15% di chi contrare HCV guarisce spontaneamente – spiega il professor Claudio Mastroianni, Direttore UOC Malattie Infettive del Policlinico Umberto I di Roma e presidente eletto della SIMIT, Società Italiana della Malattie Infettive e Tropicali – mentre nell’85% dei casi l’epatite diventa cronica. Di questi, circa il 15-20% dei casi si va incontro a cirrosi epatica, di cui il 2-3 % all’anno può sviluppare tumore al fegato. Le persone scoprono l’infezione in modo casuale, in occasione di analisi routinarie del sangue che documentano alterazione degli indici di funzionalità epatica”.
L’epatite C si trasmette per via parenterale attraverso il contatto con mucose e rapporti sessuali a rischio, scambio di aghi o siringhe (per chi fa uso di sostanze per via endovenosa), esecuzione di tatuaggi o piercing senza l’applicazione di corrette norme igieniche, esposizione accidentale al sangue infetto da parte di operatori sanitari.
Non esiste un vaccino o una profilassi specifica. Gli unici strumenti preventivi sono costituiti dalla riduzione dei fattori e dei comportamenti a rischio.
Il punto da non sottovalutare è che di HCV ci si può reinfettare, anche una volta guariti. Il rischio riguarda soprattutto i soggetti che seguono certi comportamenti, come il consumo di sostanze stupefacenti per via endovenosa.
L’epatite C è asintomatica e oggi colpisce una parte di popolazione difficile da intercettare
Dal 2014, grazie all’arrivo dei farmaci innovativi ad azione diretta (DAA) il virus dell’epatite si può sconfiggere.
Nel maggio 2016, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha approvato la strategia per il settore sanitario globale (GHSS) sull’epatite virale 2016-2021 che prevede di eliminare l’epatite virale, considerata una minaccia per la salute pubblica, entro il 2030 (riducendo le nuove infezioni del 90% e la mortalità del 65%).
Per tagliare questo importante traguardo però occorre diagnosticare almeno il 90% degli infetti e trattare come minimo l’80% dei diagnosticati entro il 2030.
Per questo obbiettivo l’Italia ha deciso di finanziare i farmaci anti-HCV attingendo dal fondo dei farmaci innovativi istituito con la legge di Bilancio del 2017. I nuovi farmaci antivirali sono quindi totalmente rimborsati dal Servizio sanitario nazionale. E l’Agenzia italiana del farmaco – AIFA – ha stabilito i criteri di eleggibilità dei pazienti.
A luglio 2021, secondo i Registri AIFA per il monitoraggio dei farmaci anti-HCV, i pazienti trattati con i farmaci innovativi sono circa 225.000. Ma secondo diverse stime le persone che hanno epatite C senza saperlo potrebbero essere molte di più, anche 400.000.
Esistono delle popolazioni cosiddette “chiave” che sono rimaste ai margini e che possono rappresentare importanti serbatoi del virus, come detenuti, tossicodipendenti e migranti. Per questo i penitenziari e i SerD (Servizi per le Dipendenze patologiche) sono dei preziosi punti di riferimento per perseguire l’obiettivo dell’emersione del sommerso.
L’epatite C in Italia
Negli anni ’90-2000, l’Italia è stato uno dei Paesi con la massima diffusione al mondo di epatite C, con un tasso di positività vicino all’1,5-2%. I decessi ogni anno erano oltre 15.000, causati dalle più gravi conseguenze di questo virus, cirrosi epatica, epatocarcinoma, oltre ad altre complicanze, come ricoveri per emorragie digestive o cefalopatia. L’epatite C era inoltre la principale causa di trapianto del fegato. Una patologia non solo grave da un punto di vista clinico, ma anche dal punto di visto dell’impatto sul sistema sanitario: i costi diretti, secondo uno studio dell’Associazione Italiana dello Studio del Fegato e dell’Università di Tor Vergata, arrivavano a oltre un miliardo di euro l’anno. Negli ultimi anni, con le terapie a base di interferone e ribavirina prima e gli antivirali ad azione diretta poi, la situazione è in continuo miglioramento.
Per quanto riguarda i nuovi casi in Italia, il sistema SEIEVA (Sistema Epidemiologico Integrato delle Epatiti Virali Acute) gestito dall’Istituto Superiore di Sanità, ha registrato una stabilizzazione dei tassi tra 0,2 e 0,3 per 100.000 abitanti, a partire dal 2009. Nel 2020 l’incidenza è stata di 0,04 casi per 100.000 abitanti, in diminuzione rispetto a quella del 2019, ma questa riduzione dell’ultimo anno potrebbe essere dovuta anche alle difficoltà di accesso alle strutture, e quindi agli screening, causate dalla pandemia.
Il punto è che senza uno screening programmato per identificare e curare le persone ad oggi ancora ignare di essere infette, il numero di pazienti italiani diagnosticati e curati diminuirà nel corso degli anni e si esaurirà intorno all’anno 2023-2025, lasciando un cospicuo “sommerso”.
“In realtà la frenata l’abbiamo vista già a fine 2019, ben prima dello scoppio della pandemia – ha affermato Roberto Ranieri, medico infettivologo e responsabile per la sanità penitenziaria della Lombardia – i primi farmaci innovativi sono stati somministrati a partire dal 2015 e fino al 2017 hanno interessato solo i pazienti con fibrosi grave (F3-F4). Poi a partire da aprile 2017 sono stati somministrati a chiunque avesse avuto una diagnosi da epatite C. A ottobre 2019 si è assistito a una frenata nei consumi dei farmaci DAA perché quasi tutti coloro che avevano avuto una diagnosi da HCV hanno ricevuto il farmaco”.
Il lavoro più difficile inizia adesso. A fine 2019 il sommerso era stimato in circa 400.000 persone.
E con l’arrivo della pandemia è probabile che questa stima sia da rivedere al rialzo.
Un’indagine svolta nel 2020 dall’Associazione Italiana per lo studio del Fegato (AISF) ha evidenziato una drastica riduzione delle attività ambulatoriali di epatologia e dei trattamenti antivirali. Si stima che il rinvio del trattamento con i DAA di 6 mesi potrebbe causare in 5 anni un aumento dei decessi in oltre 500 pazienti con infezione da HCV per una condizione correlata alla malattia del fegato. Fatalità che si possono evitare se si portano avanti test e cure.
Intercettare il sommerso
In Italia la strategia per tracciare i potenziali contagiati da HCV si basa su uno screening graduato, che identifica le popolazioni giovani (coorti di nascita 1969-1989) a rischio di trasmissione e si estende anche alle popolazioni chiave di cui abbiamo scritto prima (popolazione carceraria, soggetti che frequentano i SerD, persone con comportamenti a rischio).
Questa strategia è stata confermata anche dal recente decreto Milleproroghe (Legge N. 8/2020) che, come detto, ha stanziato 71,5 milioni di euro per lo screening gratuito per il biennio 2020-2021. Adesso la palla passa alle regioni che devono attivarsi al più presto per rendere disponibili i fondi stanziati.
È stato inoltre introdotto nei registri AIFA un nuovo criterio di trattamento per i farmaci ad azione antivirale diretta di ultima generazione che favorisce l’accesso alle cure anche per i pazienti che siano impossibilitati ad eseguire la biopsia epatica e/o il fibroscan per motivi socio-assistenziali.
Il decreto Milleproroghe ha stanziato 71,5 milioni di euro per lo screening gratuito per il 2020-2021
Tra le varie iniziative di supporto al tracciamento dei soggetti con HCV vi è HAND – Hepatitis in Addiction Network Delivery, un progetto di comunicazione, formazione ECM e proposizione di strumenti per facilitare il network territorio-ospedale. Tra gli obbiettivi vi è quello di usare sempre di più test rapidi, migliorare la diagnosi e ottimizzare il percorso di linkage-to-care per garantire il rapido passaggio alle cure con tutte le terapie disponibili.
Secondo i dati nazionali presenti nelle Relazioni Annuali al Parlamento sulle tossicodipendenze, in Italia, il 70-80% dei soggetti in carico ai SerD non è sottoposto a test e questo non consente di avere una stima affidabile di prevalenza di questa popolazione, considerata ad alto rischio. L’attività di screening promossa dal progetto HAND ha contribuito, a partire dal 2019, a far emergere il sommerso tra i consumatori di sostanze stupefacenti per via endovenosa, che rappresentano la popolazione a elevata trasmissione del virus: si stima infatti che ogni consumatore con epatite C possa infettarne altri 20 in tre anni.
“Le persone a rischio non sono solo quelle che frequentano i SerD – spiega Marco Riglietta, vice direttore del Comitato Scientifico di FederSerd, Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze – ma tutti i consumatori di sostanze stupefacenti che usano aghi o inalano droghe. Al SerD è difficile fare i test perché tanti non si presentano all’appuntamento. Il punto però non è tanto lo screening, ma tutta la gestione del paziente. Ci vogliono risorse non solo per acquistare i test, ma anche per formare case manager che seguano la persona, da quando le si dà l’appuntamento, a quando esegue il test e riceve, se positivo, la terapia”.
“All’interno del progetto HAND – prosegue Riglietta – abbiamo realizzato una campagna di screening durata un mese: quando i pazienti venivano al SerD pe ritirare i farmaci, offrivamo loro l’opportunità di fare il test. Così siamo riusciti a intercettarli. Su un centinaio di test effettuati, abbiamo riscontrato la positività nel 20% dei casi. Campagne come queste andrebbero fatte regolarmente ma purtroppo dipendiamo sempre dalle risorse disponibili al momento”.
A differenza dei SerD, nelle carceri la situazione pare essere più sotto controllo: “Parlo per la situazione in Lombardia – specifica Ranieri – ma da noi il test HCV viene fatto nel 60-70% della popolazione carceraria. Con i test del sangue ci sono più rifiuti, mentre con quelli rapidi salivari le persone si sottopongono con più frequenza. I SerD sono più problematici dei penitenziari perché nelle carceri la popolazione è sempre sotto controllo e c’è un infettivologo di riferimento”.
In Lombardia il test HCV viene fatto nel 60-70% della popolazione carceraria
Una volta effettuato il test, rimane comunque il nodo dell’accesso ai farmaci: non tutti i medici possono prescriverli, solo quelli autorizzati. Questo rischia di creare colli di bottiglia con numeri di richieste elevati rispetto ai medici che possono effettuare le prescrizioni. Il momento successivo al test, il linkage-to-care, è indispensabile per fare in modo che il paziente riceva la terapia in tempo.
Uno dei modi più efficace per diffondere gli screening potrebbe essere quello di affiancarli ai test per la Covid-19, oppure somministrarli in sede di vaccinazione anti-Covid, o in qualsiasi altra occasione in cui un paziente esegue un esame o una visita in ospedale. Tutte ipotesi allo studio delle varie amministrazioni regionali e in alcune realtà, come in Lombardia, potrebbero essere attivate a breve.
Epatite C e farmaci innovativi: la rivoluzione dei nuovi antivirali
Prima dell’arrivo dei farmaci innovativi, per curare l’epatite C si usavano terapie con interferone pegilato (Peg-IFN) -α (2a o 2b) in combinazione con ribavirina (RBV), che rappresentavano il trattamento standard per l’infezione cronica da HCV. Ma avevano un’efficacia limitata, intorno al 50%. Inoltre, eventi avversi rilevanti correlati al trattamento sono stati spesso causa di scarsa aderenza e prematura interruzione della terapia.
La differenza sostanziale tra i nuovi antivirali ad azione diretta (DAA) e le tradizionali terapie a base di Peg-IFN e ribavirina sta nel fatto che i DAA agiscono direttamente contro il virus, bloccandone il processo di replicazione.
Questi farmaci sono curativi e hanno anche un ruolo di sanità pubblica, perché bloccano la trasmissione
Trattandosi di terapie curative dell’infezione, il mercato composto da questi farmaci innovativi ha una tendenza a decrescere: come riportano recenti analisi svolte da IQVIA, provider di tecnologie e informazioni in ambito sanitario, negli ultimi 5 anni si è assistito a una decrescita del 29% (CAGR – Compound Annual Growth Rate 2017-2021) a valori e del -21% a volumi/UMF (unità minime frazionabili). In particolare, nel corso del 2020 la decrescita rispetto al 2019 è stata pari al -53% a volumi e -60% a valori, a causa dei mancati accessi alle strutture ospedaliere per adeguato screening in fase di pandemia.
“Questi farmaci funzionano molto bene verso tutti i genotipi dell’infezione – riprende Mastroianni – e curano non solo la malattia, ma hanno anche un ruolo di sanità pubblica, perché ne bloccano la trasmissione”.
“In caso di fibrosi lieve F1 o F2 si guarisce con i farmaci innovativi somministrati per 8-12 settimane – spiega Mastroianni – però nel caso di fibrosi avanzata (F3-F4) si rallenta la cirrosi ma non si azzera completamente il rischio di tumore al fegato, per cui in questi casi occorre comunque sottoporsi a controlli periodici. Ricordiamoci che l’HCV può causare manifestazioni extraepatiche, è un trigger per il diabete, la sindrome metabolica e alcuni tipi di linfomi. La terapia con i nuovi farmaci è efficace anche nel curare anche le manifestazioni extraepatiche HCV-correlate”.
Farmaci sostenibili, se usati in tempo
Il costo-beneficio di questi farmaci è tale che si potrebbe recuperare l’investimento effettuato in pochi anni.
Come spiega Francesco Saverio Mennini, docente di Economia sanitaria e Microeconomia presso l’Università Tor Vergata di Roma, la Kingston University di Londra e presidente SIHTA, Società Italiana di Health Technology Assessment: “Secondo diverse analisi che abbiamo condotto recentemente, è stato dimostrato che il trattamento dei pazienti con la malattia del fegato severa trattata nel 2015 (anno in cui l’accesso veniva autorizzato ai pazienti in condizioni severe), ha portato un significativo ritorno in termini di riduzione di eventi clinici attesi accompagnato da un parziale ritorno dell’ investimento inziale per l’acquisto dei DAA. Con riferimento ai pazienti trattati durante il 2016 e 2017 (anni in cui sono stati trattati pazienti in stati di malattia meno compromessi), gli eventi clinici evitati hanno permesso di ottenere un recupero degli investimenti inziali per l’acquisto dei DAA stimati rispettivamente in 6,6 e 6,2 anni.”
Il costo-beneficio di questi farmaci è tale che si potrebbe recuperare l’investimento effettuato in pochi anni
Applicando la medesima metodologia utilizzando i dati dei registri AIFA, è stato possibile dimostrare come nel periodo 2015-16 il numero di casi evitati correlati all’HCV in Italia era di 1136 pazienti; nel periodo successivo (2017-18) 565.
La potenziale riduzione dei risultati clinici sul tempo stimato per i pazienti trattati nel 2015-16 e 2017-18 riflette importanti risparmi sui costi in un periodo di 20 anni (- € 52 milioni), confermando quanto già evidenziato nel primo studio. Ancora, utilizzando il database dei registri AIFA, caratterizzato da una numerosità maggiore, si può calcolare un recupero dell’investimento iniziale in soli 5,5 anni.
Si stima che l’eliminazione del virus nella popolazione oggi “sommersa” genererà in 20 anni un risparmio di oltre 63 milioni di euro per 1.000 pazienti trattati.
Ma queste tempistiche e le stime di ritorno sull’investimento dipendono molto dal costo della terapia. Considerando che nel tempo i prezzi si sono ridotti, l’investimento potrebbe essere recuperato in un periodo più breve rispetto al passato.
C’è un altro aspetto di cui non si sta tenendo conto: i nuovi antivirali per l’epatite C hanno perso lo status di innovatività l’anno scorso. Ciò significa che non sono più coperti dal fondo destinato ai farmaci innovativi, ma rientrano nella spesa ospedaliera ordinaria che è coperta dalle Regioni.
Una campagna di screening di successo potrebbe portare a oltre 300.000 pazienti da trattare, una spesa extra che potrebbe far sforare i tetti programmati a livello regionale. Questo, come estrema conseguenza, potrebbe portare a un rallentamento degli screening e dei trattamenti. Ci vorrebbe un fondo ad hoc per permettere alle Regioni di continuare gli screening e i trattamenti e raggiungere i tanto ambiziosi obbiettivi che ci ha posto l’Organizzazione Mondiale della Sanità.