Gender gap, in sanità le donne guadagnano il 20% in meno degli uomini

Ilo e Oms hanno analizzato il divario retributivo di genere in sanità in 54 Paesi del mondo. L’Italia, pur essendo in linea con alcune nazioni europee, mostra uno dei gap più ampi nelle posizioni apicali. Per gli esperti servono misure strutturali e proattive, che impattino anche il welfare

Nonostante le donne siano mediamente più istruite e in generale abbiano caratteristiche migliori all’interno del mercato del lavoro, continuano a essere pagate di meno rispetto agli uomini, anche in ambito sanitario. Nel mondo si calcola che la loro retribuzione sia mediamente del 20% inferiore rispetto ai colleghi maschi.

Ad analizzare e cercare di fornire un contesto a questi numeri è l’Organizzazione nazionale del lavoro (Ilo) che, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), ha pubblicato il primo rapporto mondiale sul gender gap tra uomini e donne in ambito sanitario.

Il documento ha incluso 54 Paesi, che rappresentano circa il 40% dei dipendenti del settore Healthcare in tutto il mondo.

Manuela Tomei“Si tratta di un lavoro unico nel suo genere – conferma Manuela Tomei, direttrice del Dipartimento delle condizioni di lavoro e uguaglianza dell’Ilo –. Abbiamo cercato di mettere insieme i dati di 54 Paesi per avere un quadro più completo possibile. La mancanza di dati e la loro comparabilità continua infatti a essere un problema importante per valutare appieno quali siano le tendenze in atto e dunque intraprendere azioni correttive. Uno degli aspetti interessanti riguarda l’attività congiunta dell’Oms e dell’Ilo: anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce l’importanza di condizioni di lavoro degne, affinché il settore possa continuare a esprimersi al meglio”.

Il Covid ha fatto emergere con forza il problema: “Durante la pandemia abbiamo applaudito dai balconi gli operatori sanitari, molti dei quali hanno perso la vita svolgendo il proprio lavoro. La grande richiesta di personale di questi anni ci ha spinto a voler guardare più in là, analizzando anche il loro trattamento economico. Tutti abbiamo ben chiara l’importanza di questo settore, ma nella pratica si fa ben poco per cercare di migliorare le condizioni di lavoro e attirare più personale”.

Oltre a misurare la disparità salariale tra uomini e donne che si trovano nelle stesse posizioni, il report ha valutato anche se il valore attribuito a occupazioni che sono prevalente femminili sia equo rispetto a quello di settori a predominanza maschile.

“Nel Regno Unito la professione di infermiere è ricoperta per la stragrande maggioranza da donne – ricorda Tomei – Ebbene, lì i salari medi sono più bassi rispetto all’Italia, dove ci sono più uomini”. Naturalmente incidono anche altri fattori, come il tasso di sindacalizzazione o il tipo di contratti. Eppure, per l’esperta, questa è una tendenza che si osserva ogni qualvolta si assiste a una femminizzazione della professione: “Uscendo dall’ambito sanitario, pensiamo per esempio ai giudici: fino a qualche anno fa erano soprattutto uomini, mentre oggi la presenza femminile è ben più marcata. Ebbene, se oggi si comparano i salari del comparto con quelli percepiti dai corporate lawyer, i giuristi d’impresa a maggioranza maschile, si vede che questi ultimi sono di gran lunga superiori”.

La femminizzazione della sanità

Sul perché questo avvenga non ci sono risposte certe: “Quello che noi possiamo fare è evidenziare delle correlazioni e delle tendenze, che è diverso dall’individuare delle cause”, chiarisce Tomei.

Il 68% della forza lavoro mondiale dell’ambito sanitario è composta da donne

In ambito sanitario si sta assistendo a quella che viene chiamata segregazione occupazione per genere: le donne prevalgono nel settore. Il 68% della forza lavoro mondiale dell’ambito sanitario è infatti composta da donne. “Questo accade nei Paesi industrializzati, mentre in quelli in via di sviluppo solo l’1,3% della popolazione occupata nel settore è donna. Esistono divari spaventosi di cui bisogna tenere conto, anche in vista di politiche di sviluppo e aiuto alla popolazione”.

Nonostante la femminilizzazione del settore, le donne mediamente ricoprono occupazioni considerate come aventi meno valore in termini di conoscenze richieste, di responsabilità associate, dello sforzo fisico o psicologico che richiedono. “Sempre di più le donne si stanno collocando nella parte più alta della distribuzione gerarchica – nota Tomei – Tuttavia, è interessante come si posizionino, anche a livello di medici, in determinate specializzazioni cui si attribuisce un valore inferiore”.

Nei settori dove le donne sono più presenti, è alto il numero di contratti a tempo determinato o part-time. “Nel Regno Unito ci sono addirittura gli zero hour contract, un’anomalia del mondo anglosassone: non si stabilisce qual è il numero di ore che verranno lavorate, quindi il lavoratore o la lavoratrice non sa quanto percepirà alla fine della settimana o del mese. Fino a qualche tempo fa esisteva anche clausola di esclusività, che adesso è stata rimossa”.

La situazione italiana

L’Italia, in quanto Paese industrializzato, riflette molte delle caratteristiche proprie di alcune Nazioni europee e non solo. “Il dato più preoccupante è il salario orario medio nel settore della sanità comparato a quello di altri ambiti dell’economia – afferma Tomei – Nel Belpaese il primo è molto più alto: parliamo del 29% contro il 14%”. A livello globale, le donne sono pagate il 19,2% in meno nel settore Healthcare e l’11,5% in meno negli altri ambiti.

In Italia, inoltre, gli uomini rappresentano solo il 30% di tutti gli operatori sanitari. Eppure sono il 57% di quelli che si trovano nel decile superiore della distribuzione salariale e l’80% del primo centile.

Il divario retributivo di genere diventa più importante salendo verso le posizioni apicali: nelle due fasce di reddito più alte, le donne guadagnano rispettivamente il 63% e il 69% in meno rispetto agli uomini

Nel nostro Paese, inoltre, il divario retributivo di genere diventa più importante a mano a mano che si sale verso le posizioni apicali: nelle due fasce di reddito più alte, le donne guadagnano rispettivamente il 63% e il 69% in meno rispetto agli uomini. Si tratta di uno dei dati peggiori delle 54 Nazioni esaminate.

In Italia, gli operatori sanitari (di cui il 70% sono donne) percepiscono circa 25 euro all’ora, mentre nei settori dove le donne rappresentano meno del 50% dei lavoratori la retribuzione oraria media è superiore a 27 euro.

“È importante analizzare il gender pay gap orario e quello mensile – chiosa Tomei – La remunerazione percepita alla fine del mese riflette infatti anche il numero di ore lavorate, quindi l’incidenza relativa del part time”. In Italia questa forma contrattuale ha conosciuto una grande espansione negli ultimi anni ed è distribuita in maniera equa tra i vari settori.

Gli esempi degli altri

“Purtroppo la pandemia ha avuto un impatto molto limitato su questi aspetti – sospira Tomei – Molti Paesi hanno preso misure per compensare in qualche modo l’enorme sforzo richiesto da tutto il personale sanitario per far fronte a questa emergenza sanitaria, ma si tratta soprattutto di allocazioni di carattere eccezionale”. In Francia, per esempio, si è provveduto a un aumento dei salari per tutte le categorie, con un’attenzione particolare a quelle più sfavorite e a quelle che si sono trovate in prima linea. “In generale si è trattato di misure tampone, per cercare di far fronte all’emergenza adottando misure di durata limitata, che quindi non aiutano a risolvere problemi strutturali di lunga data”, riflette l’esperta.

In tutti i Paesi analizzati dal rapporto è emerso come il settore sanitario sia stato fortemente penalizzato dalle misure di austerity intraprese in passato per cercare di contenere i costi. Tra le conseguenze di queste politiche, la carenza di personale che viviamo oggi.

“Servono misure strutturali – sostiene Tomei – Purtroppo, con l’inflazione galoppante e con le misure restrittive che si stanno adottando per contenerla, non credo che ci siano spazi di manovra per provvedere non solo all’aumento dei salari, ma anche a una crescita dello staff, a una più alta professionalizzazione e più in generale a una maggiore cura alle condizioni di lavoro che vada al di là dello stipendio”.

Eppure alcuni esempi virtuosi ci sono. È il caso per esempio della Spagna, interessata da una forte immigrazione di venezuelani dall’America Latina: “Per far fronte alla scarsità di manodopera, il Governo ha introdotto un sistema di fast track per riconoscere i titoli di studio di dottori e infermieri e poterli integrare nel sistema sanitario spagnolo. Credo che dovremmo tutti trarre qualche lezione su quale sia il costo-opportunità di continuare a ignorare o non dare la giusta attenzione a questo settore”.

Servono misure proattive

Quando si parla di gender gap, un aspetto che polarizza la discussione sono le quote rosa: da una parte chi sostiene che siano un passaggio necessario per permettere alle donne di occupare posizioni che altrimenti sarebbero loro precluse, dall’altra chi le vede come un’umiliazione o, nel migliore dei casi, come una manovra più d’immagine che di sostanza.

“Io ritengo che le misure proattive siano essenziali – commenta Tomei – Le quote hanno una connotazione negativa perché vengono associate a concessioni fatte al sesso femminile che altrimenti non ce la farebbe da solo. In realtà, ci sono altre misure che si potrebbero intraprendere, per esempio in termini di target numerici. Noi crediamo che avere una forza lavoro che rifletta in maniera più adeguata quella che è la società in cui opera abbia ricadute positive per tutti: per il cittadino e per l’utente”. A partire da questo presupposto, a parità di meriti e competenze, si devono dare medesime opportunità e lavoro alle persone, senza escluderle perché donne, migranti, o in base ad altre caratteristiche.

Si è molto ragionato sull’opportunità di avere più donne che intraprendano percorsi di studio Stem. Secondo molti questo permetterebbe di rompere il tetto di cristallo. Eppure, ritengo che serva al contempo una volontà di conseguire determinati risultati in un certo lasso di tempo, altrimenti si vanifica lo sforzo”.

In generale le donne nei Paesi industrializzati hanno un’educazione molto più alta rispetto agli uomini. “Non è un problema di manchevolezza della donna: è il sistema che non tiene conto delle circostanze specifiche che limitano la possibilità delle donne di poter partecipare appieno al mondo del lavoro”, riflette l’esperta.

L’Italia ha ancora molta strada da fare: nei tassi di partecipazione femminile siamo fanalino di coda in Europa, secondi solo a Malta

E l’Italia in questo ha ancora molta strada da fare: “Nei tassi di partecipazione femminile siamo fanalino di coda in Europa, secondi solo a Malta. È vergognoso, se si pensa che siamo la settima potenza mondiale”.

Risolvere queste contraddizioni significa allargare lo sguardo oltre il mondo del lavoro: “Per assicurare che le donne con il giusto profilo possano dimostrare le loro capacità, si devono creare le condizioni per consentire loro di dare il meglio”. E questo significa attuare misure proattive e tutto ciò che attiene alla riconciliazione lavoro-famiglia. “Uno Stato che riduce la pressione sulle famiglie, in particolare sulle madri, prevede servizi come asili nido, oppure organizza gli orari scolastici in modo da permettere lavori full time – nota Tomei – Cerchiamo di preparaci a una società del futuro in cui tutti e tutte hanno diritto a un lavoro degno e abbiano la possibilità di dare il meglio di se stesse anche nella vita extra lavorativa”.

Per approfondire

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista