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In Parlamento si discute di salute mentale ma la Legge Basaglia resta “bene comune”: facciamo il punto

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Sono passati quasi 50 anni dall’approvazione delle Legge Basaglia, più di 20 anni dall’adozione del piano di “Tutela salute mentale 1998-2000” e 15 dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e in Parlamento si riaccende il dibattito sulla salute mentale. Sono in campo diversi Disegni di Legge (DDL) presentati tra Camera e Senato e depositati dal Partito Democratico (PD) e Alleanza Verdi e Sinistra, dalla Lega e Fratelli d’Italia (FdI). L’esigenza di una riforma o di un adeguamento normativo per migliorare il sistema di salute mentale è quindi trasversale, ma le indicazioni prospettate sono diverse e mettono in luce una visione che riflette la complessità e la delicatezza del tema della salute mentale in Italia.

A dispetto di qualche polemica reciproca, la premessa di tutti è che non si vuole “toccare” la Legge Basaglia che ha rappresentato una “rivoluzione” nel trattamento delle persone con disturbi mentali e che, nonostante le difficoltà e le critiche incontrate nell’applicazione, resta un esempio di umanizzazione della psichiatria e di tutela dei diritti delle persone con disturbi mentali.

Ne parla a TrendSanità Peppe dell’Acqua, psichiatra, ex direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste e allievo di Franco Basaglia.

Una breve sintesi delle proposte in campo

  • DDL 734, Sensi e Bazoli (PD), Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla Legge 13 maggio 1978, n. 180. Presentato nel maggio 2023, contiene la proposta di un Piano nazionale per la salute mentale, nonché l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di assistenza (LEA) che rilanci l’applicazione dei principi della Legge 180 su tutto il territorio nazionale. Si aggiunge però la punizione per “ogni violenza fisica e morale nei confronti delle persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio; non è ammessa nei loro confronti alcuna forma di misura coercitiva che si configuri quale ulteriore restrizione della libertà personale”. Il testo presenta delle forti somiglianze con quello già presentato da Serracchiani, Scarpa e altri nel 21 aprile 2023, il n 1113.
  • DDL 938, Magni, De Cristofaro e Cucchi (AVS), Disposizioni in materia di tutela della sanità mentale, presentato a novembre 2023, che propone di “rafforzare i principi contenuti nella Legge Basaglia”. Lancia un nuovo progetto-obiettivo nazionale e, come nel DDL Sensi, dispone l’aggiunta del divieto delle contenzioni.
  • DDL 1171, Cantù e altri (Lega Nord), Disposizioni per lo sviluppo evolutivo del sistema di prevenzione, protezione e tutela della salute mentale dalla preadolescenza all’età geriatrica, presentato il 19 giugno 2024, che sottolinea gli effetti negativi sulla salute mentale della pandemia da Covid-19 e dell’assunzione di alcool e sostanze stupefacenti e psicotrope dal mercato illegale. Si segnala l’allarme per l’aumento dei disturbi in età evolutiva e in età geriatrica e si esprime un giudizio positivo sulla Legge 180 evidenziandone la non applicazione in diverse Regioni. L’attenzione è spostata sul numero dei posti letto disponibili, ospedalieri e non ospedalieri, per affermare che “il comparto pubblico di salute mentale è incapace di soddisfare la domanda di coloro che sono affetti da tali disturbi”.
  • DDL 1179, Zaffini e altri (Fratelli d’Italia), Disposizioni in materia di salute mentale, presentato il 27 giugno 2024. Anche questa proposta parte dallo stato attuale dell’assistenza psichiatrica con un’enfasi sulla prevenzione e la sicurezza degli operatori e dei famigliari, proponendo la reintroduzione de facto della “pericolosità sociale” come aggettivazione del disturbo mentale. Al Ministero dell’Interno, infatti, insieme al dicastero della Giustizia, sentito il Ministero della Salute, è assegnato il compito di individuare le misure di sicurezza per il contenimento dei comportamenti violenti, normando, e quindi legittimando, i trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali.
Peppe Dell’Acqua

Le leggi presentate in Parlamento mirano a stabilire un nuovo quadro di riferimento per la salute mentale. Ma quanto c’è di nuovo?

«I Disegni di Legge Magni, Serracchiani e Sensi delineano un contesto finalmente chiaro, un quadro di riferimento su come affrontare la salute mentale, le cure, l’organizzazione – ci spiega Dell’Acqua -. Si vuole riaffermare il valore del cambiamento per le persone con disturbo mentale e indicare percorsi e modalità organizzative per uscire dalla confusione e dalla miseria in cui sono costretti i servizi di salute mentale oggi in Italia. La Legge 180 è stata troppo spesso usata come “foglia di fico”, un alibi che ha permesso alla politica di indebolire, negli anni, tutto il sistema. C’è chi oggi lamenta la mancanza di infermieri o la scarsità di investimenti, ma meno del 3% della spesa sanitaria nazionale è destinata alla salute mentale, mentre in altri Paesi europei si arriva anche al 12-14%».

Quindi, la Legge 180 non è un ostacolo, ma un’opportunità?

«Esatto, ha creato nuove possibilità. Ha fatto uscire le persone con disturbi mentali da una condizione di “destino inevitabile”, dalla visione del “malato come pericoloso, inguaribile e incomprensibile”. Ha restituito alle persone la possibilità di cura. Ora, dunque, è di cura che dovremmo parlare. La riforma della Legge 180 ha riconosciuto il diritto alla salute mentale, sia per chi è malato, sia per la società, una cura che non si basa sull’isolamento, ma sull’integrazione e sull’accompagnamento».

Che ne pensa dei due Disegni di Legge proposti da FdI e Lega?

«Secondo me ignorano completamente questa nuova visione della salute mentale. Trattano il disturbo mentale come sinonimo di pericolo, di violenza e quindi da isolare o reprimere. Invece di comprendere che i pazienti sono prima di tutto persone. Come nel caso della sicurezza negli ospedali, il governo si limita a rispondere alle situazioni di emergenza con misure di sicurezza o aumentando i controlli. Nel nostro Paese dovremmo chiederci cosa manca nei servizi sanitari, cosa si può fare per migliorare la cura».

Secondo lei, quindi, il ricorso alle forze dell’ordine e addirittura all’esercito non è la risposta?

«Assolutamente no. Le persone reagiscono in modo “difensivo” contro i medici o il personale sanitario perché il clima nei servizi sanitari è diventato di distacco e paura. Gli operatori stessi sono costretti a difendersi dai pazienti invece di avere i mezzi per accoglierli e curarli. La carenza di risorse e l’organizzazione attuale dei servizi impediscono un rapporto di fiducia e di cura tra paziente e operatore. Si punta sulla repressione e sul controllo, mentre sarebbe necessario rivedere l’intero approccio e migliorare il funzionamento del sistema nel suo complesso».

La territorialità della salute mentale non è fallita?

«Se oggi abbiamo un sistema diffuso sul territorio con il Dipartimento di salute mentale, i centri di salute mentale, le strutture diurne, ambulatori e centri residenziali, è grazie alla Legge 180. Non abbiamo più i manicomi, ma un’organizzazione articolata in ogni Regione».

La territorialità della cura è un passo avanti enorme e, bene o male, funziona. Però richiede attenzione, investimenti, formazione per il personale

«E per funzionare ha bisogno di risorse, non solo finanziarie ma anche per formare operatori capaci di costruire un percorso di cura per ogni singolo paziente. Non è un sistema fallito, al contrario, è un sistema da sostenere».

Quindi per lei la Legge 180 è ancora valida?

«Va considerata “un bene comune”, perché ha proposto un approccio alla salute mentale che guarda al futuro. Ci sono problemi reali, è vero, e gli operatori stessi ne sono consapevoli, ma la soluzione non è ritornare alle certezze devastanti della psichiatria. Si parla di cura, va accolta la persona nella sua totalità, con il delirio, le allucinazioni o con l’incapacità di controllare le sue emozioni. Occorre mettere in campo strumenti e percorsi che ci sono, che conosciamo perfettamente e che conoscono accademici, psichiatri, operatori sanitari e amministratori. Però la Legge richiedeva un profondo cambiamento culturale e un impegno delle università per rivedere come si insegnano e si applicano le strategie terapeutiche, la presa in carico nel territorio, un capovolgimento in cui conta la persona, il cittadino, l’individuo e il contesto, non la malattia. Purtroppo, solo in pochi hanno fatto questo passo, molti altri hanno osteggiato la Legge, forse perché riduceva il ruolo centralizzato e assoluto dello psichiatra nel percorso di cura, facendo spazio a un approccio più collaborativo. Non è solo una questione di ego, ma anche di affari, poiché le università e i privati hanno interessi economici nella gestione della salute mentale».

Il problema quindi è più nell’applicazione?

«La Legge 180 è tra le leggi più applicate nel dopoguerra: sancisce che le persone con disturbi mentali sono cittadini, con gli stessi diritti costituzionali di chiunque altro. Ha cambiato l’approccio alla cura, non è una norma che obbliga a trattamenti forzati, ma che restituisce dignità. Con questa Legge, dobbiamo smettere di vedere le persone con disturbi mentali come “oggetti” di paura e controllo e iniziare a considerarle come soggetti con il diritto di essere curati e integrati. Non dobbiamo legare le persone, non chiudere le porte, non abbandonarle. Tutto questo è possibile proprio con l’attuale assetto dei servizi di salute mentale, basta riarticolare le risorse e organizzarsi meglio. La Legge 180, tra l’altro, è stata la prima a confrontarsi con il tema della regionalizzazione, lasciando alle singole Regioni la responsabilità di implementarla. Tuttavia, ogni Regione ha gestito la Legge a modo suo: alcune hanno ritardato, altre pare che non l’abbiano mai presa in considerazione, altre ancora l’hanno utilizzata solo parzialmente. Di fatto, quindi, l’autonomia differenziata in questo ambito esiste già, ed è uno dei motivi per cui oggi ci troviamo con 20 sistemi di salute mentale diversi, uno per Regione. E le differenze territoriali sono evidenti. Nascere in una Regione o in un’altra cambia il diritto costituzionale alla salute. Abbiamo tanti esempi di persone che, pur soffrendo di disturbi mentali gravi, riescono a vivere una vita dignitosa e a essere parte della comunità. Il cambiamento ha permesso di creare un sistema più umano e civile, che accoglie le persone e non le considera più come un pericolo. Una ricercatrice con un grave disturbo mentale tempo fa mi ha scritto per dirmi che la sua fortuna è essere nata a Trieste».

Ma allora perché si parla di possibile revisione?

«Alcuni dei nuovi Disegni di Legge propongono soluzioni come l’aumento di posti letto o il potenziamento delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), che avrebbero un costo altissimo. Ma con quali soldi? Invece di creare strutture di isolamento, dovremmo migliorare quello che già esiste, creare percorsi formativi per gli operatori, investire nel sistema di cura che già abbiamo. Questo tipo di cura non ha bisogno di stravolgimenti, ma solo di funzionare meglio, con più risorse e più formazione. Abbiamo già strutture residenziali e centri diurni, spesso non adeguatamente finanziati, per offrire percorsi di cura e di accompagnamento, anche attivando cooperative sociali, onlus, familiari dei pazienti, associazioni sportive e culturali, ecc. C’è la mancanza di investimenti in attività terapeutiche che non costano molto ma potrebbero fare la differenza, come il teatro, lo sport, le vacanze al mare. Purtroppo, le aziende sanitarie, per paura di superare i tetti di spesa, tendono a rifiutare progetti di questo tipo. Così, i servizi di salute mentale si impoveriscono, trasformandosi in luoghi dove l’unica risposta è la diagnosi, prescrivere farmaci e mandare il paziente a casa».

La Legge 180 chiedeva una trasformazione nell’approccio alla salute mentale. Perché secondo lei questo cambiamento non è avvenuto?

La Legge 180 ha cambiato il nostro atteggiamento verso la malattia mentale: guardare l’altro, chi soffre di un disturbo mentale non è un nemico da temere, ma una persona da curare e da accompagnare

«La legge ci chiedeva di incontrare l’altro in una dimensione etica, non come oggetto, ma come soggetto, una persona reale con la sua storia, le sue passioni, le sue emozioni, i suoi fallimenti, i suoi bisogni. Questo è accaduto poco e oggi si sta perdendo del tutto. Molti psichiatri continuano a vedere il paziente solo attraverso il filtro della diagnosi, del farmaco, trattandolo come “cosa” da controllare. Negli ultimi 50 anni, pochissimi sul terreno della politica e delle psichiatrie hanno voluto investire per cambiare questo approccio».

La visione di “restare umani” vale solo per i pazienti?

«No, anche per chi si prende cura delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, familiari, operatori sanitari e tutto il personale. Anche loro meritano di lavorare in un sistema che valorizza la dignità e la collaborazione e che permetta loro di vivere una vita normale. È una responsabilità che dobbiamo condividere come comunità, perché solo così possiamo garantire un ambiente di cura che sia davvero umano».

Mercato dei farmaci maturi: aumento dei costi e gare d’appalto minano la sostenibilità

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In Italia, il mercato dei prodotti maturi, sia per i biosimilari che per i farmaci generici, sta affrontando due fenomeni che lo rendono particolarmente problematico.

Il primo fenomeno riguarda l’aumento dei costi lungo tutta la filiera produttiva, che incide in modo significativo soprattutto sulle imprese focalizzate sulla produzione di farmaci a brevetto scaduto. Questo perché tali aziende operano con margini più ristretti sui singoli prodotti, rendendo i costi di produzione – inclusi quelli relativi al personale e alle materie prime – ancora più gravosi. Negli ultimi anni, questi costi sono aumentati notevolmente, anche a causa di tassi di inflazione elevati che hanno caratterizzato non solo l’Italia, ma anche il resto dell’Unione Europea e gli Stati Uniti.

In sistemi come quello italiano, l’inflazione ha avuto un impatto asimmetrico

Tuttavia, in sistemi come quello italiano, l’inflazione ha avuto un impatto asimmetrico. In settori in cui i prezzi finali possono essere liberamente stabiliti in funzione dei costi, l’aumento dei costi produttivi è stato trasferito sui consumatori. Nel settore farmaceutico, invece, dove i prezzi sono prevalentemente negoziati o stabiliti attraverso gare pubbliche i produttori non hanno potuto adeguare i prezzi finali in modo proporzionale all’aumento dei costi. Questo ha ulteriormente ridotto i margini delle aziende, e il risultato, soprattutto nel caso dei farmaci generici, è stato la sospensione di diverse linee produttive. Ciò ha portato, tra le altre, a carenze di antibiotici, anestetici o antitumorali di vecchia generazione – farmaci che, pur non essendo nuovi, sono ancora essenziali.

Il secondo fenomeno che influisce negativamente sul mercato è la gestione delle gare da parte degli enti preposti al procurement. Non si tratta solo di gare al prezzo più basso, che, se ben strutturate, potrebbero avere un senso per farmaci con lo stesso principio attivo. Il problema risiede, piuttosto, nel modo in cui queste gare vengono condotte: spesso non si tiene conto della sostenibilità economica a lungo termine nella doppia ottica del sistema pubblico e del mercato dei fornitori. Quando si stabilisce il prezzo base d’asta, bisognerebbe considerare quale prezzo possa garantire una competizione attiva nel tempo, evitando di strangolare le imprese con condizioni economiche insostenibili che portano inevitabilmente a ristabilire svantaggiose condizioni di oligopolio o monopolio.

Per chiarire meglio: se fissiamo un prezzo che da un lato permetta di offrire sconti e quindi generare un risparmio per l’ente appaltante, ma dall’altro lato sia sufficientemente elevato da mantenere l’interesse delle imprese, consentendo loro di continuare a considerare il mercato attrattivo, allora avremo raggiunto un risultato ottimale. Uno degli obiettivi fondamentali del sistema di acquisti pubblici è infatti questo: non si tratta solo di ottenere il prezzo più basso possibile, che di per sé non è neanche l’obiettivo primario, ma anche di garantire che il mercato rimanga competitivo e affidabile nella capacità di soddisfare il bisogno pubblico. Stabilire il prezzo di partenza o il prezzo massimo implica una responsabilità diretta su come il mercato si svilupperà successivamente.

Obiettivo del sistema di acquisti pubblici non è ottenere il prezzo più basso ma garantire competizione e affidabilità del mercato per soddisfare il bisogno pubblico

Secondo gli ultimi dati pubblicati da Nomisma per il 2022, emerge che, per ogni lotto di gara su farmaci a brevetto scaduto, vengono presentate in media solo due offerte. Questo dato riflette una realtà in cui, laddove ci si aspetterebbe una competizione tra sette, otto o nove imprese (come era normale osservare fino a circa dieci anni fa), di fatto rispondono solo due aziende per singolo lotto. Si tratta di un fenomeno preoccupante, che appare in contrasto, ad esempio, con le aspettative generate dagli accordi quadro sui biosimilari.

L’accordo quadro sui biosimilari è stato concepito dando per scontata la partecipazione di un numero adeguato di imprese alla competizione: ad esempio, su dieci aziende, ne vengono selezionate tre, con l’obiettivo di offrire ai medici la possibilità di personalizzare la scelta del trattamento all’interno di questo gruppo. Questo dimostra che, nelle intenzioni del legislatore, non fosse neanche immaginabile una situazione in cui meno di quattro imprese si contendessero il mercato: quindi, se da un lato si vuole attivare una competizione premiante per le offerte migliori, si vuole lasciare ai clinici una capacità di ri-personalizzazione della domanda, potendo scegliere tra i tre migliori offerenti. Peraltro, l’idea di imporre la scelta del prodotto meno costoso tra i tre non è prevista dall’accordo quadro, ma è una sua interpretazione discrezionale (e sbagliata) introdotta da alcune Regioni. Naturalmente, per prodotti con un buon margine di sostituibilità, è lecito attendersi un utilizzo prevalente del prodotto più economico, semmai richiedendo una giustificazione clinica per la scelta di alternative più costose. Ma non possono esserci costrizioni che limitino l’utilizzo dell’accordo quadro nella sua corretta interpretazione.

Se oltre un terzo dei lotti va deserto, aumentano le procedure negoziate e le richieste d’offerta, e il risultato finale non è affatto conveniente

Se oltre un terzo dei lotti continua a rimanere deserto, si assiste a un conseguente aumento esponenziale delle procedure negoziate e delle richieste d’offerta (RdO). Questo accade perché, quando si constata l’assenza di concorrenza, si finisce per contattare direttamente le imprese e accettare il prezzo che propongono.

Ma a questo punto, è stato davvero vantaggioso puntare a continui ribassi? Forse in due gare su tre si riesce a ottenere un risparmio, ma nell’altra si è costretti a ricorrere a una RdO e il risultato finale non è affatto conveniente. Inoltre, si rischia di importare prodotti dall’estero e di incorrere in carenze di fornitura.

I due temi più urgenti e preoccupanti che emergono sono, quindi:

  1. l’aumento dei costi da parte delle imprese, che si scontra con l’insensibilità di chi si occupa di programmazione e di istruire le gare, e spesso non si conducono analisi di mercato adeguate;
  2. nella definizione dei prezzi base d’asta, c’è una chiara carenza nella fase istruttoria per determinare quali sarebbero i prezzi compatibili con la permanenza – laddove possibile – di una buona competizione sul mercato dei fornitori. L’obiettivo dovrebbe essere mantenere viva la concorrenza nel mercato, ma senza un’adeguata comprensione delle dinamiche dei prezzi, questo obiettivo rischia di essere compromesso.

In questo contesto, non solo si deve affrontare il tema dei prezzi base d’asta, ma le normative sugli acquisti richiedono alle imprese di adottare principi di sostenibilità, ad esempio ambientale. Questi principi, che sono apprezzabili e condivisibili sotto un profilo di responsabilità morale del mercato, dal punto di vista economico comportano però un’organizzazione e delle politiche interne più costose. Tuttavia, tali politiche non dovrebbero essere compromesse dalla continua pressione a ridurre i prezzi finali. Che senso avrebbe un fornitore che rispetta l’ambiente e i suoi dipendenti ma che non può offrire il prodotto senza andare in perdita?

Come si può sperare di incentivare un’impresa più etica, sostenibile, “green” e paritaria internamente, senza riconoscere che tali impegni devono necessariamente avere un impatto sul prezzo finale? Se non lo hanno, l’impresa dimostra di non riuscire a sostenere quella linea di business. Se un’impresa chiude, non può essere né “green”, né sostenibile, né inclusiva. È fondamentale comprendere che queste politiche richiedono una consapevolezza rispetto ai costi: essi non sono semplicemente costi, ma investimenti necessari che devono essere recuperati in qualche modo e la cui responsabilità va quanto meno condivisa tra imprese e sistema pubblico.

Per promuovere imprese più etiche, sostenibili, ecologiche e inclusive, è fondamentale considerare tali impegni nel determinare il prezzo finale dei prodotti

Le imprese, infatti, dispongono di un potere considerevole, rappresentato dalla possibilità di esercitare l’exit option (uscire dal mercato). Si tratta di una scelta difficile e dolorosa ma che può restare comunque una realtà: l’azienda, qualora si trovasse costretta a operare con margini troppo ridotti o addirittura in perdita, opterebbe per ridimensionare una linea di business o abbandonare del tutto un determinato mercato. Questo è un punto che non può essere ignorato.

Dal punto di vista dei finanziatori dell’impresa, infatti, non c’è interesse a sostenere operazioni rischiose o poco remunerative. Di fronte a condizioni economiche sfavorevoli, la scelta è di orientarsi verso altri mercati o puntare su prodotti nuovi e innovativi, laddove possibile.

Pertanto, è essenziale ampliare l’accesso ai farmaci e anche generare risparmi una volta scaduto il brevetto, ma ciò non deve avvenire al costo di distruggere il mercato. La logica dell’impresa, infatti, è diversa da quella di un ente del SSN: se le condizioni diventano insostenibili, potrebbero decidere di ridimensionare le sedi italiane o ritirarsi dal mercato.

È essenziale ampliare l’accesso ai farmaci e generare risparmi una volta scaduto il brevetto, ma ciò non deve avvenire al costo di distruggere il mercato

Questa mancanza di visione strategica è preoccupante. Dovremmo chiederci: cosa vogliamo dal mercato dei prodotti maturi? Sicuramente vogliamo risparmi, ma ancora di più, vogliamo che quei farmaci continuino a essere accessibili e che esista concorrenza tra le imprese. La competizione tra le aziende è essenziale, mentre una strategia che spinga le imprese fuori dal mercato rischia di creare una situazione simile a un oligopolio o a un monopolio di fatto, senza però i vantaggi di una copertura completa della domanda.

La differenza tra un vero monopolio (come quello del farmaco ancora coperto da brevetto) e questa situazione “forzata” è sostanziale: nel primo caso, almeno si garantisce la disponibilità di un farmaco. In questo scenario, invece, il risultato potrebbe essere una carenza di farmaci. Quando un farmaco è protetto da brevetto, l’azienda produttrice ha alcuni anni per pianificare e organizzare la produzione. Ma una volta scaduto il brevetto, il panorama cambia: tutti possono teoricamente produrre quel farmaco, ma nessuno sarà disposto a investire in uno stabilimento produttivo in grado di soddisfare tutta la domanda potenziale per poi vedere ridotti i propri margini al minimo.

Quindi, se il sistema non è regolato in modo adeguato, rischiamo non solo di non ottenere risparmi, ma di affrontare gravi carenze di farmaci essenziali. È una questione che richiede una riflessione più strategica e un orientamento di lungo termine.

Diabete di tipo 1: urgente riconoscere codice di patologia anche nelle fasi asintomatiche

Nell’ambito delle celebrazioni per la Giornata Mondiale del Diabete si è parlato di diabete di tipo 1, la forma autoimmune della malattia che esordisce in età pediatrica, al centro del Convegno che si è tenuto a Palazzo Colonna a Roma. 

Nell’ambito della sessione ‘Dallo screening all’innovazione: le nuove sfide della ricerca’ Raffaella Buzzetti, Presidente SID, ha sottolineato una necessità urgente: «La legge 130 del 2023 che istituisce lo screening per il diabete di tipo1 e la celiachia gratuito per bambini e ragazzi, mette il nostro paese all’avanguardia nel mondo, ma c’è ancora qualcosa da fare. Se da un lato lo screening ci permette di individuare la malattia in una fase molto precoce, allo stadio 1 e 2 grazie alla individuazione di almeno due autoanticorpi, nel nostro paese questa fase asintomatica non è ancora riconosciuta con il codice ICD 10 di malattia, come avviene a livello mondiale, ma solamente con il codice ICD 9 che definisce una mera ‘alterazione della glicemia’. Questo gap impedisce che vi sia un DRG dedicato e che la popolazione positiva allo screening possa accedere sia alle tecnologie per il monitoraggio che al farmaco che permette di modificare la storia naturale della malattia rallentandone l’evoluzione alla fase sintomatica».

La richiesta è stata presentata anche al Ministero della Salute: il riconoscimento del codice di patologia permetterebbe una migliore presa in carico delle persone con diabete di tipo1 asintomatico e un controllo dei rischi legati alla chetoacidosi, la più grave complicanza improvvisa.

Lo screening, che sarà operativo i primi mesi del nuovo anno, permetterà di individuare la predisposizione alla malattia prima che manifesti i suoi sintomi e valutare una terapia che agisce sui meccanismi di autoimmunità ritardandone l’insorgenza di mesi o anni. 

Nasce l’Intergruppo Parlamentare “Innovazione Sanitaria e Tutela del Paziente”

Perseguire la promozione dell’innovazione nel settore sanitario, focalizzandosi sulla tutela dei pazienti e la sostenibilità del servizio sanitario nazionale. È questa la mission del neonato Intergruppo Parlamentare “Innovazione Sanitaria e Tutela del Paziente” presieduto dall’On. Nazario Pagano (Presidente Commissione Affari Costituzionali, Camera dei Deputati), dall’On. Ugo Cappellacci (Presidente Commissione Affari Sociali, Camera dei Deputati) e dal Sen. Francesco Zaffini (Presidente Commissione Affari Sociali, Senato) che sarà presentato oggi presso la Sala Stampa di Palazzo Montecitorio.

L’Intergruppo “Innovazione Sanitaria e Tutela del Paziente”, in un’ottica di sostenibilità a lungo termine del sistema sanitario e di ottimizzazione dell’utilizzo dei fondi pubblici, punta in particolare a sviluppare strategie di programmazione sanitaria che integrino tecnologie avanzate, quali l’intelligenza artificiale e dispositivi medici innovativi, e pratiche cliniche innovative, come la telemedicina. L’obiettivo principale è garantire ai pazienti l’accesso a cure sanitarie di alta qualità, sicure, efficaci ed eque, indipendentemente dalle loro condizioni socioeconomiche, difendendo anche i diritti alla privacy e alla protezione dei dati personali, con un’attenzione particolare alla sicurezza delle informazioni sanitarie digitali.

Sono quattro le azioni strategiche che saranno messe in campo:

  • sul fronte legislativo e regolatorio: sostegno a iniziative legislative per facilitare l’introduzione e la regolamentazione di nuove tecnologie e pratiche sanitarie; collaborazione con enti regolatori e autorità sanitarie per garantire efficacia e sicurezza delle nuove soluzioni terapeutiche e tecnologiche;
  • in ambito di Ricerca e sviluppo: promozione di partnership tra istituzioni pubbliche, private e accademiche per favorire la R&S in campo medico e tecnologico;
  • promozione di programmi di formazione continua degli operatori sanitari per mantenere il comparto sanitario aggiornato sulle più recenti innovazioni e pratiche;
  • collaborazione con i principali stakeholder: costituire, attraverso un’alleanza con Società scientifiche, Università e Associazioni professionali, un comitato scientifico quale organo tecnico di supporto all’attività dell’Intergruppo; promuovere la collaborazione tra pazienti, professionisti, aziende e istituzioni per creare una cultura dell’innovazione e della qualità delle cure, anche tramite il contributo di gruppi editoriali di primaria importanza nel settore sanità e della salute per favorire la più ampia conoscenza delle iniziative dell’Intergruppo.

«La costituzione dell’Intergruppo “Innovazione Sanitaria e Tutela del Paziente” – dichiara l’Onorevole Nazario Pagano, Presidente I Commissione Affari Costituzionali della Camera – risponde all’esigenza di stabilire una sede di confronto parlamentare capace di approfondire, secondo un approccio integrato e interdisciplinare, tutte le questioni che riguardano la sostenibilità a lungo termine del sistema sanitario, anche alla luce delle opportunità offerte dall’innovazione tecnologica e dell’esigenza di una spesa più efficace delle risorse pubbliche. La tutela della salute costituisce infatti, secondo l’art. 32 della Costituzione, un “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” ed è inoltre uno dei tratti essenziali del modello sociale italiano ed europeo. Per continuare a garantire un elevato livello di tutela di questo principio e diritto costituzionale primario e irrinunciabile, soprattutto dopo l’esperienza della pandemia, occorre un continuo adeguamento delle strutture, delle cure e delle pratiche cliniche. Ciò richiede che il Parlamento sia capace di disegnare leggi che tengano conto sia sostenibilità finanziaria del settore, anche alla luce degli andamenti demografici, sia sulla combinazione di conoscenze e competenze altamente specializzate. A questo scopo – conclude Pagano – è necessario far dialogare Parlamento e le altre istituzioni con la pluralità di attori operanti nel settore, il mondo scientifico, gli enti regolatori, le associazioni professionali e i cittadini. È questo l’obiettivo e il valore aggiunto dell’Intergruppo».

«In un momento storico in cui la sanità deve affrontare sfide cruciali – sottolinea dall’On. Ugo Cappellacci, Presidente Commissione Affari Sociali, Camera dei Deputati – questo Intergruppo rappresenta un impegno trasversale per promuovere l’innovazione tecnologica e garantire la sicurezza e la centralità del paziente nel Servizio sanitario nazionale. Il nostro obiettivo è migliorare la qualità delle cure attraverso il supporto alle nuove tecnologie, la semplificazione normativa e l’ascolto dei bisogni dei cittadini. È tempo di costruire un futuro in cui l’innovazione sia al servizio della salute di tutti».

«La costituzione dell’Intergruppo Parlamentare “Innovazione Sanitaria e Tutela del paziente” – sottolinea il Senatore Francesco Zaffini, Presidente Commissione Sanità e Lavoro di Palazzo Madama – è utile per confrontarsi e sviluppare strategie per una sanità veramente accessibile a tutti, con un approccio integrato e multidisciplinare. Un approccio che, dopo l’esperienza della pandemia va ancor di più riconsiderato, anche rispetto alle innovazioni che ci troviamo davanti, come ad esempio l’intelligenza artificiale, i nuovi dispositivi medici e la telemedicina. Il tutto garantendo una sostenibilità economica, finalizzata a rendere le terapie avanzate e la medicina personalizzata accessibili a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche. Tale progetto richiede che il Parlamento legiferi, coinvolgendo tutte le Istituzioni e attori». Questo è il lavoro che l’Intergruppo dovrà fare.

«Basta condizioni insostenibili»: la sanità italiana si ferma per difendere il SSN

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Il 20 novembre 2024 gran parte della sanità si mobilita e scende in piazza: medici, infermieri e altri professionisti sanitari incroceranno le braccia per 24 ore (garantendo i servizi essenziali), protestando contro le misure previste nella Legge di Bilancio 2025 e i fondi che non bastano.

Alcune sigle sindacali, tra cui Anaao Assomed, Cimo-Fesmed e Nursing Up, hanno indetto uno sciopero per denunciare l’insufficienza dei fondi destinati al Servizio Sanitario Nazionale e le condizioni lavorative sempre più critiche. Anche la FNOMCeO, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, va in Piazza Santi Apostoli per portare il suo sostegno. Filippo Anelli: «Protesta espressione del disagio dei medici, esasperati da mancanza di risposte. Lo sciopero è il frutto dell’esasperazione dei medici, che chiedono da almeno tre anni un’attenzione nei confronti delle Professioni sanitarie».

I medici FP CGIL e UIL, invece, fanno sapere che parteciperanno allo sciopero generale del 29 novembre «contro la peggiore legge di bilancio degli ultimi 30 anni, che taglia risorse a personale e servizi per lasciare il campo libero al profitto ed al privato». È quanto dichiarano Andrea Filippi, Segretario Nazionale Fp Cgil Medici, Veterinari e Dirigenti SSN e Roberto Bonfili, Coordinatore Nazionale Uil Medici e Veterinari.

La manifestazione nazionale si tiene a Roma, in Piazza Santi Apostoli, dalle 12:00 alle 14:00, con l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini e le istituzioni sulla necessità di interventi strutturali per garantire la sostenibilità del sistema sanitario pubblico e la dignità professionale degli operatori.

Ne hanno parlato ai microfoni di TrendSanità Guido Quici, Presidente della Federazione CIMO-FESMED, Pierino Di Silverio, Segretario Nazionale Anaao Assomed e Antonio De Palma, Presidente Nursing Up.

Alcuni dati

I medici del SSN si sentono stanchi, demoralizzati, rassegnati e abbandonati, dopo due anni di emergenza Covid-19. È quanto emerge dal sondaggio della Federazione CIMO-FESMED cui hanno partecipato più di 4.200 medici. Il 72% dei medici risceglierebbe la professione, ma solo il 28% continuerebbe a lavorare in una struttura pubblica. Il restante preferirebbe trasferirsi all’estero (26%), anticipare il pensionamento (19%), lavorare in una struttura privata (14%) o dedicarsi alla libera professione (13%).

Il 30% dei medici giudica la propria qualità della vita “insufficiente” o “pessima”. Il 73% degli intervistati lavora più delle 38 ore settimanali previste dal contratto e il 20% di questi supera le 48 ore, violando la normativa europea. Il 43% ha tra 11 e 50 giorni di ferie accumulate, il 24% tra 51 e 100 giorni e il 18% più di 100 giorni.

In termini di attività svolte, il 56% dei medici ritiene eccessivo il tempo dedicato agli atti amministrativi, mentre il 40% ritiene insufficiente il tempo dedicato all’atto medico e all’ascolto del paziente. Solo il 4% dei medici riesce a dedicare tempo alla propria formazione.

Gli infermieri non stanno meglio. Secondo Nursing Up, dal 2010 al 2024, le iscrizioni ai corsi di laurea in infermieristica sono diminuite del 54,2% e solo lo 0,8% dei giovani tra 15 e 18 anni considera la professione infermieristica interessante, rispetto al 3,9% in Norvegia e al 2,8% in Germania.

Mancano almeno 175-220 mila infermieri rispetto agli standard europei. Le stime ufficiali parlano di una carenza di 65mila infermieri per il SSN e ogni anno circa 8mila infermieri lasciano volontariamente il settore pubblico

Nel 2023 si sono registrate circa 130mila aggressioni (fisiche e verbali) contro gli infermieri. Negli ultimi cinque anni, il numero delle violenze è aumentato del 35% e il 70% delle vittime è un infermiere. Inoltre, 90% dei Pronto Soccorso, con bacini di utenza medio-alti, è privo di un presidio di polizia attivo 24 ore su 24.

«L’inefficienza della politica, che ha ridotto sempre di più gli organici all’osso – dichiara De Palma Nursing Up – non dimostrandosi capace di sanare le bibliche liste di attesa e la disorganizzazione degli ospedali, non ha fatto che acuire l’ira della collettività e far sgretolare la fiducia cittadini-professionisti, con questi ultimi diventati sempre di più il capro espiatorio e con i primi che, mai come in questo momento, sembrano davvero aver perso la bussola».

Quanto agli stipendi, l’Italia è al terzultimo posto in Europa per retribuzione degli infermieri, con salari medi di circa 1.500 euro netti al mese.

Infine, negli ultimi 10 anni, circa 50mila infermieri hanno abbandonato l’Italia e oltre la metà di loro non intende tornare.

Difendere il SSN e il diritto alla cura

«Il 20 novembre scioperiamo in difesa del Servizio Sanitario Nazionale, che è in profonda crisi – ci dice Guido Quici. Scioperiamo contro una bozza di legge di Bilancio che destina risorse insufficienti per la sanità pubblica, rateizzandole inoltre in più anni, senza comprendere che la gravità della situazione richiede un intervento immediato.

Guido Quici

Scioperiamo per far capire ai cittadini che le cause dei disservizi che vivono quotidianamente sono da ricercare in anni di tagli al personale e alle strutture sanitarie, falcidiando l’offerta sanitaria. Scioperiamo perché non è previsto nessun incentivo volto a far rimanere nel Servizio sanitario nazionale medici e infermieri, sempre più attratti dall’estero e dalla sanità privata, dove tra l’altro la situazione non è molto migliore, considerato che l’AIOP non rinnova i contratti dei medici dipendenti da quasi 20 anni.

Ci auguriamo che il Governo e l’opposizione ci ascoltino e pongano la giusta attenzione a un settore strategico per il Paese e che inizino a lavorare congiuntamente ascoltando i bisogni dei pazienti e dei professionisti. Utilizzare la sanità solo come terreno di scontro politico non serve a nessuno. È giunto il momento di rimboccarsi le maniche e iniziare a lavorare al SSN del futuro».

Quali sono i motivi?

Risponde Di Silverio: «possiamo racchiudere i motivi in quattro parole d’ordine Risorse, Riforme, Formazione e Sicurezza.

Risorse, perché senza risorse adeguate per il servizio sanitario pubblico e per il personale, non possiamo sopravvivere in questa congiuntura di crisi economica. Una scarsità che arriva da 15 anni di disincentivazione.

Riforme, perché il nostro sistema di cura, che ha ormai 46 anni, necessita urgentemente di una riforma sostanziale, soprattutto nella presa in carico del paziente. L’attuale sistema non è pronto per gestire la cronicità ma le acuzie e deve essere ripensato.

Pierino Di Silverio

Formazione perché abbiamo 50mila specializzandi che vivono ancora in una sorta di “gabbia dorata” all’interno delle università, senza poter formarsi liberamente nelle strutture ospedaliere. Siamo l’unico Paese al mondo in cui non c’è il teaching hospital, dove gli specializzandi non possono formarsi liberamente in ambito ospedaliero.

Non ultimo la sicurezza delle cure che viaggia su due binari: il primo, le aggressioni contro il personale sanitario, perché non basta un decreto che funzioni da deterrente, occorre investire nelle cure e migliorare l’accesso ai servizi, per ricostruire e cambiare il rapporto di fiducia tra medico e paziente che si è rovinato.

Secondo, la depenalizzazione dell’atto medico, poiché l’Italia è l’unico Paese al mondo dove i medici sono sottoposti a quattro diversi tribunali: ordinario, aziendale, ordinistico e il peggiore, quello mediatico. La commissione che ha lavorato sulla depenalizzazione dell’atto medico per un anno e mezzo non ha prodotto risultati soddisfacenti, perché, di fatto, non cambiano una virgola.

Quindi, ci aspettiamo che il governo apra un confronto, stanzi più risorse e soprattutto cominci a riformare seriamente il percorso di cura».

Le buone intenzioni non bastano

Antonio De Palma

È vero che l’attuale Governo ha stanziato più risorse in assoluto per il Fondo Sanitario Nazionale – spiega De Palma – ma le stesse sono spalmate nei prossimi 5 anni e, al netto dei rinnovi contrattuali, sono ben al di sotto del tasso inflattivo, quindi non in grado di sostenere un Servizio sanitario già in grande difficoltà.

Questi finanziamenti sono appena sufficienti a mantenere lo status quo e non saranno certamente alcuni interventi legislativi a ridurre le liste di attesa senza un vero intervento strutturale di rilancio del SSN.

Lo sciopero e la manifestazione di protesta nascono dall’urgenza di garantire il rispetto e la valorizzazione concreta del lavoro infermieristico e di tutti gli altri professionisti ex legge 43/2006. Richiediamo tutele adeguate per i turni massacranti e un riconoscimento economico e professionale per chi è ogni giorno in prima linea nella tutela della salute.

Le promesse di riforma devono tradursi in fatti, contratti, risorse e dignità professionale non possono più attendere

La manovra prevede un aumento dell’indennità di specificità infermieristica, ma non è ancora estesa alle ostetriche, come invece noi chiediamo, ed è una vittoria effimera, poiché ci verrà data a rate, visto che nelle tasche degli infermieri arriverebbero per il 2025 circa 7 euro netti e per il 2026 circa 60 euro netti. Peraltro, si parla di risorse legate, per la maggior parte, a un contratto la cui discussione inizierà tra almeno due anni. Insomma in sostanza “briciole nel tempo”, che offendono l’intera categoria.

Il governo finanzia, oggi, un CCNL del futuro, prevedendo risorse che, invece, dovrebbero essere attribuite seduta stante, come finanziamenti aggiuntivi al triennio ancora in discussione, quello cioè del CCNL 2022/2024.

Nursing Up chiede, inoltre, l’introduzione di norme per retribuire i percorsi formativi e di specializzazione degli infermieri e delle altre professioni sanitarie ex Legge 43/2006, al pari di quanto già accade per i medici.

Le scelte governative, tra assistenti infermieri e reclutamento di personale straniero, sembrano orientate a tamponare le falle di un sistema in crisi senza affrontarne le cause profonde. Il rischio è peggiorare ulteriormente la qualità dell’assistenza e di aumentare il carico di lavoro per il personale esistente.

Una politica sanitaria lungimirante deve puntare su investimenti seri nella professione infermieristica italiana, valorizzando chi opera sul campo e incentivando il ritorno di coloro che hanno scelto di cercare dignità e prospettive migliori altrove. La situazione è allarmante: il disamore verso la professione è evidente, e senza interventi strutturali e investimenti mirati, il rischio di un collasso completo appare davvero concreto».

I pazienti nelle scelte di salute sostenibile

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Annalisa Scopinaro
Annalisa Scopinaro

«Per noi sanità sostenibile significa avere la possibilità di potersi curare, di poter prevenire alcune patologie e di poter provare dei percorsi che non incidano dal punto di vista burocratico più di quello che è già il percorso patologia. È il poter sapere di essere in un sistema che ci accompagna dalla diagnosi alla presa in carico a tutto quello che è l’accesso alle terapie senza dover pesare troppo sulle famiglie». Così Annalisa Scopinaro, Presidente della Federazione Italiana Malattie Rare Uniamo.

Per quanto riguarda le malattie rare, in Italia esiste una rete nazionale che dal 2001 offre un punto di appoggio stabile a chi soffre di queste patologie. «Le problematiche sono da un lato la riconoscibilità della malattia rara: noi abbiamo ad oggi circa 500-600 patologie che hanno un codice di esenzione specifico, mentre le altre patiscono una non riconoscibilità specifica, ovvero non possono entrare nella rete delle malattie rare propriamente detta. Inoltre, dal 2017, da quando ci sono le reti europee ERN, lo sviluppo di questi centri è stato abbastanza disomogeneo dal punto di vista territoriale».

In Italia il rapporto MonitoRare ne ha censiti 325, la maggior parte localizzati in Nord Italia. «E questo non perché al Sud non ci siano eccellenze, ma a volte anche solo la procedura burocratica viene ritenuta troppo gravosa e i centri non si accreditano», evidenzia Scopinaro.

La sostenibilità per le malattie rare

«C’è poi un problema di accesso ai farmaci, che in Italia è complicato dai prontuari regionali nei quali le molecole approvate da AIFA vanno inserite – ricorda Scopinaro -. Questo significa che finché un farmaco non viene inserito in quella specifica regione il paziente non può richiedere quel trattamento; può farlo in un’altra regione, sobbarcandosi i costi». A questo complesso quadro sta cercando di porre rimedio il Piano Nazionale Malattie Rare. «Questi problemi si acuiranno quando arriveranno i 180 trattamenti per terapie avanzate innovative, che porranno oltre al problema di una sostenibilità intesa in senso più generale, anche un problema di sostenibilità di costi».

E non si parla solo del costo complessivo delle terapie per l’Italia, ma anche di quello delle terapie per la singola azienda sanitaria che se non ha programmato bene la spesa rischia di trovarsi in bancarotta, visto il costo unitario di questi trattamenti.

Il Regolamento Europeo Farmaci Orfani, criticato dalle aziende farmaceutiche, sta cercando di porre alcune regole per garantire equità d’accesso almeno in Europa: «La market exclusivity di alcuni trattamenti in termini di anni viene implementata se le aziende fanno approvare il loro farmaco in più Paesi», ricorda Scopinaro.

Il coinvolgimento dei pazienti

«Quando abbiamo iniziato, 25 anni fa, era tutto da costruire e come federazione ci siamo concentrati sui bisogni primari di salute – afferma Scopinaro -. Poi siamo entrati nel Forum del Terzo Settore, ma soprattutto nell’Osservatorio nazionale della persona con disabilità e penso che il nostro ruolo sia importante, anche per la trasversalità dei nostri bisogni. Siamo una delle poche associazioni che ha bisogni a 360° per l’eterogeneità delle persone con patologie rare».

Se la sanità è una competenza regionale, quella sociale è comunale: «Ogni comune decide dove investire i fondi, non c’è un’unitarietà nazionale e anche le stesse tutele dell’INPS, specialmente per alcune tipologie di malattie rare, non sono così scontate perché la patologia magari non si vede, pure impattando notevolmente sulla qualità di vita». Dall’esterno una persona con talassemia o emofilia non ha un problema visibile, ma un grande impatto sulla propria quotidianità: «Significa un’infusione ogni due settimane in ospedale, perdita di giorni di lavoro, controlli, momenti di grande debolezza che rende difficile il lavorare correttamente».

Il G7 inclusione e disabilità è stato un inizio importante: «Per la prima volta c’è stato un momento dedicato in quel consesso – ha ricordato Scopinaro -. Certo, la Carta di Solfagnano può essere implementata, ma lo diciamo con un punto di vista europeo. C’erano paesi, come Taiwan e Giappone, dove ancora oggi le persone con disabilità proprio non hanno un diritto di nessun genere. I punti di partenza erano quindi molto diversi e in una sintesi politica delle varie sensibilità non possiamo pensare di vedere tutti i punti che per noi sono importanti».

Quali priorità per il futuro

Tra i tanti bisogni delle persone con malattie rare e delle loro famiglie, Scopinaro ne cita tre in particolare: «Mi piacerebbe una presa in carico che sollevi la famiglia dalla necessità di dover gestire tutti gli aspetti: organizzativi, burocratici, emotivi». Oggi infatti ci troviamo di fronte a una sanità spezzettata, dove spesso sono i caregiver a dover allacciare i fili dei percorsi, cercando il centro più competente, gestendo spese e spostamenti.

«Poi l’accesso a forme di sollievo, compresi i trattamenti riabilitativi, equi rispetto a tutte le situazioni regionali e commisurati al tipo di problema: non ha senso offrire 10 trattamenti riabilitativi l’anno a un malato cronico che ha bisogno di assistenza continua. Così facendo lo si compara a chi ha un problema transitorio a un ginocchio, per esempio, ma questo non può esistere».

Infine, un sostegno reale alle famiglie per i maggiori costi da sostenere: «Stimiamo che  ogni famiglia con un malato raro spenda circa 1.500 euro al mese, più il cosiddetto lucro cessante, che significa che il caregiver spesso abbandona o riduce considerevolmente l’attività lavorativa», riporta Scopinaro.

Per la presidente di Uniamo, questo sostegno non dovrebbe però tradursi in un contributo aggiuntivo, ma in servizi pubblici: «Dare più soldi non permette alle famiglie di alleggerire davvero il carico di malattia del loro congiunto, mentre offrire dei servizi a supporto sì», conclude Scopinaro.

Nuovi LEA e nomenclatore: il CReI esprime preoccupazione per l’assenza di molte prestazioni reumatologiche

È stato finalmente approvato l’aggiornamento dei tariffari per le prestazioni di specialistica ambulatoriale e protesica che permettono l’entrata in vigore dal prossimo 30 dicembre (come richiesto dalle Regioni) dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Questi provvedimenti assicurano un ulteriore ampliamento del diritto alla tutela della salute dei cittadini inserendo nuove importanti prestazioni.

Il Collegio dei Reumatologi Italiani – CReI plaude l’iniziativa che colma un vuoto di aggiornamento tecnico-economico di 7 anni, ma dopo un’attenta lettura del nuovo Nomenclatore, il Consiglio Direttivo riunito in Sessione Straordinaria ha riscontrato che nel nuovo tariffario non vengono annoverate una serie di fondamentali prestazioni di competenza reumatologica. In particolare CReI si riferisce a: capillaroscopia, ecografia muscolo-scheletrica, artrocentesi, infiltrazioni di sostanze intrarticolari e biopsia delle ghiandole salivari, che invece vengono riconosciute nella disponibilità di altre specialità mediche (tra cui chirurgia, ortopedia e angiologia). In pratica nei nuovi LEA vengono riconosciute alla Reumatologia soltanto la “Prima visita reumatologica” e la “Visita reumatologica di controllo” omettendo tutte le prestazioni sopraindicate. CReI segnala che le stesse prestazioni vengono regolarmente insegnate in tutte le Scuole di Specializzazione di Reumatologia perché fanno parte del Programma formativo di tutti gli Atenei Italiani.

L’assenza di quelle prestazioni era già stata riscontrata in precedenza dal CReI e comunicata in data 18 dicembre 2023 con lettera indirizzata al Ministero della Salute, all’interno della quale si ricordava proprio che «nei programmi delle Scuole di Specializzazione come richiesto dal MIUR sono presenti e obbligatori per il raggiungimento del titolo specialistico, specifici percorsi formativi dedicati all’apprendimento, all’approfondimento e all’esecuzione pratica di tali prestazioni che sono fondamentali e imprescindibili per l’attività del Reumatologo in campo diagnostico, terapeutico e nel monitoraggio clinico-terapeutico».

In quella occasione era giunta (in data 22 dicembre 2023) una pronta risposta del Ministero nella quale veniva precisato che «L’articolazione in branche non limita né condiziona in alcun modo l’attività dei professionisti, dipendenti o convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, la cui attività è determinata dai rispettivi contratti di lavoro, collettivi e individuali. Le visite specialistiche per le quali non è esplicitamente indicata la branca, sono incluse nella categoria ‘altre’ e possono essere prescritte nella stessa ricetta insieme ad altre prestazioni complementari; pertanto, tali visite devono essere considerate appartenenti alla branca a cui afferiscono tali prestazioni».

CReI reputa questa risposta solo parzialmente soddisfacente, anche se inquadrata nel contesto attuale. «Purtroppo il nuovo Nomenclatore continua a dimenticare tutte una serie imponente di attività attualmente svolte dai reumatologi – dichiara il Presidente CReI Severino Martin Martin -. Il rischio conseguente è a tutti ben noto: i diversi Direttori delle Aziende Sanitarie non riterranno urgente aumentare le ore settimanali da destinare alla reumatologia. Le conseguenze di questa ‘dimenticanza’ saranno alla vista di tutti: liste di attesa interminabili per eseguire una visita reumatologica o le prestazioni suindicate e prettamente reumatologiche; pazienti reumatologici visitati da specialisti di altre branche affini; giovani reumatologi neo-specialisti costretti a trovare lavoro in altri reparti, con l’ulteriore allungamento delle liste di attesa».


Il Presidente Martin Martin conclude dichiarando che «il CReI si attiverà per richiedere urgentemente un’audizione al Ministero della Salute affinché le preoccupanti criticità segnalate dal Collegio siano affrontate e risolte in modo tale da consentire in modo riconosciuto l’esecuzione diretta da parte del Reumatologo di tali indagini al momento stesso della visita. Ciò contribuirebbe all’abbattimento delle liste di attesa, ad ottenere una diagnosi più precoce delle patologie reumatologiche e fornirebbe al paziente una migliore e più snella assistenza sanitaria».

Nelle ultime due settimane, secondo i dati raccolti da influweb di ISI Foundation, l’incidenza della sindrome simil-influenzale è più che raddoppiata

Secondo i dati raccolti da Influweb, ramo italiano della piattaforma europea Influenzanet, curato da ISI Foundation, Istituto per l’Interscambio Scientifico con sede a Torino, nelle ultime settimane i casi di simil-influenza sono più che raddoppiati nel nostro Paese (dal 4,41 per mille della prima settimana di novembre all’8,81 per mille della seconda settimana).

Non si tratta di previsioni ma di dati che vengono forniti direttamente dagli utenti italiani attraverso la connessione alla piattaforma e mediante la compilazione di un questionario settimanale che monitora il loro stato di salute e la presenza di eventuali sintomatologie di carattere influenzale. 

È un’operazione semplice che richiede pochi secondi e può essere effettuata direttamente sul sito www.influweb.it accessibile anche da smartphone: la piattaforma consente anche agli utenti di aggiornarsi in tempo reale sull’andamento dell’influenza in Italia, scoprendo per esempio la diffusione geografica del virus, quando si avvicina al picco o quando avrà esaurito il suo effetto. Importante, soprattutto per chi viaggia, monitorare anche la situazione negli altri paesi europei: connettendosi su www.influenzanet.info è possibile infatti visualizzare la situazione in Francia, Olanda, Belgio, Svezia, Germania, Svizzera e UK.

Influweb e Influenzanet rientrano nel settore dell’epidemiologia computazionale e digitale, un ambito della ricerca scientifica in cui ISI Foundation opera da anni, sviluppando modelli alternativi per il controllo e la previsione dell’andamento delle malattie: da quelle stagionali (come la normale influenza) a quelle eccezionali (come la pandemia di COVID-19 e la recente emergenza Dengue in Italia e Francia).

«La partecipazione dei cittadini a Influweb è fondamentale – spiega la coordinatrice del progetto, Daniela Paolotti -. Non solo è importante coinvolgere il maggior numero di utenti ma anche ricevere da loro aggiornamenti regolari, a cadenza settimanale, sia in caso di contrazione del virus sia quando ci si senta in piena forma senza alcun sintomo influenzale. Proprio grazie a queste informazioni noi siamo in grado di sviluppare un modello innovativo ed efficiente, che – sfruttando le opportunità offerte dalle reti digitali, le stesse che utilizziamo quotidianamente per comunicare ed informarci – si affianca e rafforza i tradizionali metodi di sorveglianza della salute pubblica».

Violenza sulle donne: dal 21 al 27 novembre servizi gratuiti in oltre 240 ospedali con il Bollino Rosa di Fondazione Onda ETS e nei centri antiviolenza

Fondazione Onda ETS, in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che si celebra il 25 novembre, lancia la quarta edizione dell’(H) Open Week che si terrà dal 21 al 27 novembre con l’obiettivo di incoraggiare le donne vittime di violenza a rompere il silenzio e avvicinarle alla rete di servizi antiviolenza che può offrire percorsi di accoglienza protetta e progetti di continuità assistenziale e di sostegno, fornendo strumenti concreti e indirizzi a cui rivolgersi per chiedere aiuto. Gli oltre 240 ospedali con il Bollino Rosa che hanno al loro interno percorsi dedicati e i centri antiviolenza aderenti all’iniziativa offriranno gratuitamente alla popolazione femminile consulenze, visite, colloqui, info point, e distribuzione di materiale informativo.

«Anche quest’anno l’obiettivo è sensibilizzare il pubblico sull’esistenza di diversi tipi di violenza, oltre a quella fisica e sessuale. Esistono, infatti, violenze verbali, psicologiche e persino economiche, che possono culminare o meno in episodi di stalking e di violenza fisica. È importante sottolineare come il controllo che può essere esercitato su una donna non scaturisce solamente dalla forza fisica, ma anche dalla volontà di controllare e limitare la sua libertà personale in tutti i sensi, con lo scopo di isolarla e lederne la dignità. Fondazione Onda ETS, ogni anno, vuole dare un aiuto attivo e concreto per proteggere e aiutare le donne in difficoltà, garantendo per una settimana servizi gratuiti a sostegno delle vittime di violenza incoraggiandole così a uscire dalla spirale del silenzio, della profonda sofferenza e solitudine. Voglio ringraziare inoltre la Prof.ssa Alessandra Kustermann, Presidente SVS Donna Aiuta Donna S.C.S per la collaborazione in questo progetto», afferma Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda ETS.

Per l’occasione verrà distribuito negli ospedali l’opuscolo informativo “Violenza di genere – Riconoscerla, prevenirla, contrastarla”, disponibile anche in formato elettronico sul sito www.fondazioneonda.it nella sezione “Pubblicazioni”.

L’iniziativa rientra in un progetto più ampio realizzato nel corso del 2024 che ha previsto diverse attività, tra cui un’ampia campagna di comunicazione con l’obiettivo di ridurre i pregiudizi culturali radicati nella società che portano a percepire in maniera distorta la figura della donna e a creare situazioni di violenza nella vita quotidiana. Per il secondo anno consecutivo, la campagna social è stata insignita della Medaglia del Presidente della Repubblica.

Tutti i servizi offerti con indicazioni su date, orari e modalità di prenotazione sono consultabili sul sito www.bollinirosa.it. È possibile selezionare la regione e la provincia di interesse per visualizzare l’elenco degli ospedali aderenti.

«La violenza, anzi meglio declinata al plurale ovvero le violenze, fanno ormai parte integrante della nostra esistenza quotidiana, le “ragioni” con cui vengono spiegate risultano davvero molto flebili (es. “quel ragazzo ha guardato la mia ragazza”). Su giovani uomini e giovani donne si perpetuano “esercitazioni” di violenza incredibili, anche quando la vittima è ormai morta. Che il fenomeno riguardi anche i giovani non è sorprendente: a sbalordire è soprattutto che anche i giovani maschi si scatenino per inezie contro i loro coetanei, e che, comunque, nonostante il trascorrere del tempo continuino a essere donne, giovani o anziane, oggetti di violenza sessuale, e non solo sessuale dei maschi. Oggetti, tra l’altro, che non possiedono la capacità di essere assenzienti. Una sorta di paradosso, che tuttavia viene considerato all’ordine del giorno. Ma le ragazze e le donne di qualsiasi età (purtroppo, è poco studiato il femminicidio in età avanzata) faticano a denunciare perché sanno che saranno poi loro stesse a essere messe sotto processo, come accade visibilmente. Un merito da attribuire oggi alle donne: parecchie donne celebri non esitano a evidenziare le molestie subite da bambine, nonché che le violenze e il sessismo nell’emisfero del ciò che avviene dietro uno spettacolo, un’opera teatrale o cinematografica, benché poi questi due ultimi permangano a risultare invisibili. Le violenze cancellano e tormentano la psiche di molte ragazze e donne di diversa età, fino all’anzianità. Onda sta adoperandosi al massimo affinché ciò non accada in nessuna parte del nostro mondo», dichiara Nicla Vassallo, Professore ordinario di Filosofia Teoretica, Ricercatore Associato dell’Isem/C.N.R., Alumna del King’s College of London, Membro del Comitato d’Onore della Fondazione Onda ETS.

SIF: Armando Genazzani è il nuovo presidente, Monica DiLuca la presidente eletta

È Armando Genazzani il nuovo presidente in carica, eletto dalla Società Italiana di Farmacologia (SIF) per il biennio 2024-2026. Figura di spicco nel panorama della farmacologia, Genazzani vanta un curriculum accademico e professionale di assoluto rilievo, con una carriera internazionale e un contributo scientifico di primo piano. 

Armando Gebazzani

Nato a New York, Genazzani è attualmente professore di Farmacologia presso l’Università di Torino e ha ricoperto il ruolo di Direttore del Dipartimento di Scienze del Farmaco all’Università del Piemonte Orientale. La sua ricerca si è concentrata su temi innovativi come i meccanismi di trasduzione del segnale e la scoperta di nuovi target farmacologici. Con oltre 200 pubblicazioni e un h-index di 55, ha dato contributi fondamentali nell’ambito della comprensione della comunicazione cellulare, e nello sviluppo di strategie terapeutiche in ambito oncologico e neurologico.

Genazzani ha lavorato in prestigiose istituzioni internazionali, tra cui l’Università di Oxford e Cambridge. Ha esperienze di politiche farmaceutiche globali, europee e italiane avendo partecipato a comitati in OMS, EMA e AIFA.

«Sono orgoglioso di poter guidare la SIF in un momento così cruciale per la farmacologia, con sfide importanti legate all’innovazione e all’accessibilità dei farmaci. La nostra missione sarà quella di promuovere una ricerca sempre più vicina ai bisogni dei pazienti e di rafforzare il ruolo della farmacologia italiana nel contesto internazionale», ha dichiarato Genazzani. 

Monica DiLuca, docente ordinario di Farmacologia e Prorettrice alla Ricerca dell’Università degli Studi di Milano, è invece il presidente eletto della Società Italiana di Farmacologia (SIF) per il biennio 2024-2026, in carica dal 2026-2028. Con una lunga carriera dedicata alla ricerca sulle malattie neurodegenerative e oltre 200 pubblicazioni scientifiche in riviste peer-reviewed, DiLuca rappresenta una figura di riferimento nel panorama scientifico internazionale.

Monica DiLuca

Monica DiLuca è infatti membro di EMBO e ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali, tra cui un Dottorato Honoris Causa dall’Università di Bordeaux (2019), una Laurea Honoris Causa dalla Facoltà di Medicina e Farmacia dell’Università di Mons (2017) e l’EPHAR Rodolfo Paoletti Award for Excellence in Pharmacology (2024), tra gli altri. Il suo principale interesse di ricerca è legato alla plasticità sinaptica sia in condizioni fisiologiche che patologiche, con l’obiettivo primario di applicare le sue scoperte di base alla cura delle malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer.

«La nostra è una società complessa – ha dichiarato la prima presidente eletta donna della SIF – che vede attive diverse anime, dalla farmacologia preclinica alla clinica e agli aspetti regolatori. Dobbiamo fare tesoro di questa complessità, anche considerando che SIF sta cambiando nella sua composizione, con tantissimi giovani che si avvicinano alla nostra società. Mi auguro di poter affrontare questi aspetti di complessità, rispettando ed integrando i diversi ambiti, proprio nell’interesse della crescita professionale e scientifica dei nostri giovani».