Sono passati quasi 50 anni dall’approvazione delle Legge Basaglia, più di 20 anni dall’adozione del piano di “Tutela salute mentale 1998-2000” e 15 dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e in Parlamento si riaccende il dibattito sulla salute mentale. Sono in campo diversi Disegni di Legge (DDL) presentati tra Camera e Senato e depositati dal Partito Democratico (PD) e Alleanza Verdi e Sinistra, dalla Lega e Fratelli d’Italia (FdI). L’esigenza di una riforma o di un adeguamento normativo per migliorare il sistema di salute mentale è quindi trasversale, ma le indicazioni prospettate sono diverse e mettono in luce una visione che riflette la complessità e la delicatezza del tema della salute mentale in Italia.
A dispetto di qualche polemica reciproca, la premessa di tutti è che non si vuole “toccare” la Legge Basaglia che ha rappresentato una “rivoluzione” nel trattamento delle persone con disturbi mentali e che, nonostante le difficoltà e le critiche incontrate nell’applicazione, resta un esempio di umanizzazione della psichiatria e di tutela dei diritti delle persone con disturbi mentali.
Ne parla a TrendSanità Peppe dell’Acqua, psichiatra, ex direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste e allievo di Franco Basaglia.
Una breve sintesi delle proposte in campo
- DDL 734, Sensi e Bazoli (PD), Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla Legge 13 maggio 1978, n. 180. Presentato nel maggio 2023, contiene la proposta di un Piano nazionale per la salute mentale, nonché l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di assistenza (LEA) che rilanci l’applicazione dei principi della Legge 180 su tutto il territorio nazionale. Si aggiunge però la punizione per “ogni violenza fisica e morale nei confronti delle persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio; non è ammessa nei loro confronti alcuna forma di misura coercitiva che si configuri quale ulteriore restrizione della libertà personale”. Il testo presenta delle forti somiglianze con quello già presentato da Serracchiani, Scarpa e altri nel 21 aprile 2023, il n 1113.
- DDL 938, Magni, De Cristofaro e Cucchi (AVS), Disposizioni in materia di tutela della sanità mentale, presentato a novembre 2023, che propone di “rafforzare i principi contenuti nella Legge Basaglia”. Lancia un nuovo progetto-obiettivo nazionale e, come nel DDL Sensi, dispone l’aggiunta del divieto delle contenzioni.
- DDL 1171, Cantù e altri (Lega Nord), Disposizioni per lo sviluppo evolutivo del sistema di prevenzione, protezione e tutela della salute mentale dalla preadolescenza all’età geriatrica, presentato il 19 giugno 2024, che sottolinea gli effetti negativi sulla salute mentale della pandemia da Covid-19 e dell’assunzione di alcool e sostanze stupefacenti e psicotrope dal mercato illegale. Si segnala l’allarme per l’aumento dei disturbi in età evolutiva e in età geriatrica e si esprime un giudizio positivo sulla Legge 180 evidenziandone la non applicazione in diverse Regioni. L’attenzione è spostata sul numero dei posti letto disponibili, ospedalieri e non ospedalieri, per affermare che “il comparto pubblico di salute mentale è incapace di soddisfare la domanda di coloro che sono affetti da tali disturbi”.
- DDL 1179, Zaffini e altri (Fratelli d’Italia), Disposizioni in materia di salute mentale, presentato il 27 giugno 2024. Anche questa proposta parte dallo stato attuale dell’assistenza psichiatrica con un’enfasi sulla prevenzione e la sicurezza degli operatori e dei famigliari, proponendo la reintroduzione de facto della “pericolosità sociale” come aggettivazione del disturbo mentale. Al Ministero dell’Interno, infatti, insieme al dicastero della Giustizia, sentito il Ministero della Salute, è assegnato il compito di individuare le misure di sicurezza per il contenimento dei comportamenti violenti, normando, e quindi legittimando, i trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali.
Le leggi presentate in Parlamento mirano a stabilire un nuovo quadro di riferimento per la salute mentale. Ma quanto c’è di nuovo?
«I Disegni di Legge Magni, Serracchiani e Sensi delineano un contesto finalmente chiaro, un quadro di riferimento su come affrontare la salute mentale, le cure, l’organizzazione – ci spiega Dell’Acqua -. Si vuole riaffermare il valore del cambiamento per le persone con disturbo mentale e indicare percorsi e modalità organizzative per uscire dalla confusione e dalla miseria in cui sono costretti i servizi di salute mentale oggi in Italia. La Legge 180 è stata troppo spesso usata come “foglia di fico”, un alibi che ha permesso alla politica di indebolire, negli anni, tutto il sistema. C’è chi oggi lamenta la mancanza di infermieri o la scarsità di investimenti, ma meno del 3% della spesa sanitaria nazionale è destinata alla salute mentale, mentre in altri Paesi europei si arriva anche al 12-14%».
Quindi, la Legge 180 non è un ostacolo, ma un’opportunità?
«Esatto, ha creato nuove possibilità. Ha fatto uscire le persone con disturbi mentali da una condizione di “destino inevitabile”, dalla visione del “malato come pericoloso, inguaribile e incomprensibile”. Ha restituito alle persone la possibilità di cura. Ora, dunque, è di cura che dovremmo parlare. La riforma della Legge 180 ha riconosciuto il diritto alla salute mentale, sia per chi è malato, sia per la società, una cura che non si basa sull’isolamento, ma sull’integrazione e sull’accompagnamento».
Che ne pensa dei due Disegni di Legge proposti da FdI e Lega?
«Secondo me ignorano completamente questa nuova visione della salute mentale. Trattano il disturbo mentale come sinonimo di pericolo, di violenza e quindi da isolare o reprimere. Invece di comprendere che i pazienti sono prima di tutto persone. Come nel caso della sicurezza negli ospedali, il governo si limita a rispondere alle situazioni di emergenza con misure di sicurezza o aumentando i controlli. Nel nostro Paese dovremmo chiederci cosa manca nei servizi sanitari, cosa si può fare per migliorare la cura».
Secondo lei, quindi, il ricorso alle forze dell’ordine e addirittura all’esercito non è la risposta?
«Assolutamente no. Le persone reagiscono in modo “difensivo” contro i medici o il personale sanitario perché il clima nei servizi sanitari è diventato di distacco e paura. Gli operatori stessi sono costretti a difendersi dai pazienti invece di avere i mezzi per accoglierli e curarli. La carenza di risorse e l’organizzazione attuale dei servizi impediscono un rapporto di fiducia e di cura tra paziente e operatore. Si punta sulla repressione e sul controllo, mentre sarebbe necessario rivedere l’intero approccio e migliorare il funzionamento del sistema nel suo complesso».
La territorialità della salute mentale non è fallita?
«Se oggi abbiamo un sistema diffuso sul territorio con il Dipartimento di salute mentale, i centri di salute mentale, le strutture diurne, ambulatori e centri residenziali, è grazie alla Legge 180. Non abbiamo più i manicomi, ma un’organizzazione articolata in ogni Regione».
La territorialità della cura è un passo avanti enorme e, bene o male, funziona. Però richiede attenzione, investimenti, formazione per il personale
«E per funzionare ha bisogno di risorse, non solo finanziarie ma anche per formare operatori capaci di costruire un percorso di cura per ogni singolo paziente. Non è un sistema fallito, al contrario, è un sistema da sostenere».
Quindi per lei la Legge 180 è ancora valida?
«Va considerata “un bene comune”, perché ha proposto un approccio alla salute mentale che guarda al futuro. Ci sono problemi reali, è vero, e gli operatori stessi ne sono consapevoli, ma la soluzione non è ritornare alle certezze devastanti della psichiatria. Si parla di cura, va accolta la persona nella sua totalità, con il delirio, le allucinazioni o con l’incapacità di controllare le sue emozioni. Occorre mettere in campo strumenti e percorsi che ci sono, che conosciamo perfettamente e che conoscono accademici, psichiatri, operatori sanitari e amministratori. Però la Legge richiedeva un profondo cambiamento culturale e un impegno delle università per rivedere come si insegnano e si applicano le strategie terapeutiche, la presa in carico nel territorio, un capovolgimento in cui conta la persona, il cittadino, l’individuo e il contesto, non la malattia. Purtroppo, solo in pochi hanno fatto questo passo, molti altri hanno osteggiato la Legge, forse perché riduceva il ruolo centralizzato e assoluto dello psichiatra nel percorso di cura, facendo spazio a un approccio più collaborativo. Non è solo una questione di ego, ma anche di affari, poiché le università e i privati hanno interessi economici nella gestione della salute mentale».
Il problema quindi è più nell’applicazione?
«La Legge 180 è tra le leggi più applicate nel dopoguerra: sancisce che le persone con disturbi mentali sono cittadini, con gli stessi diritti costituzionali di chiunque altro. Ha cambiato l’approccio alla cura, non è una norma che obbliga a trattamenti forzati, ma che restituisce dignità. Con questa Legge, dobbiamo smettere di vedere le persone con disturbi mentali come “oggetti” di paura e controllo e iniziare a considerarle come soggetti con il diritto di essere curati e integrati. Non dobbiamo legare le persone, non chiudere le porte, non abbandonarle. Tutto questo è possibile proprio con l’attuale assetto dei servizi di salute mentale, basta riarticolare le risorse e organizzarsi meglio. La Legge 180, tra l’altro, è stata la prima a confrontarsi con il tema della regionalizzazione, lasciando alle singole Regioni la responsabilità di implementarla. Tuttavia, ogni Regione ha gestito la Legge a modo suo: alcune hanno ritardato, altre pare che non l’abbiano mai presa in considerazione, altre ancora l’hanno utilizzata solo parzialmente. Di fatto, quindi, l’autonomia differenziata in questo ambito esiste già, ed è uno dei motivi per cui oggi ci troviamo con 20 sistemi di salute mentale diversi, uno per Regione. E le differenze territoriali sono evidenti. Nascere in una Regione o in un’altra cambia il diritto costituzionale alla salute. Abbiamo tanti esempi di persone che, pur soffrendo di disturbi mentali gravi, riescono a vivere una vita dignitosa e a essere parte della comunità. Il cambiamento ha permesso di creare un sistema più umano e civile, che accoglie le persone e non le considera più come un pericolo. Una ricercatrice con un grave disturbo mentale tempo fa mi ha scritto per dirmi che la sua fortuna è essere nata a Trieste».
Ma allora perché si parla di possibile revisione?
«Alcuni dei nuovi Disegni di Legge propongono soluzioni come l’aumento di posti letto o il potenziamento delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), che avrebbero un costo altissimo. Ma con quali soldi? Invece di creare strutture di isolamento, dovremmo migliorare quello che già esiste, creare percorsi formativi per gli operatori, investire nel sistema di cura che già abbiamo. Questo tipo di cura non ha bisogno di stravolgimenti, ma solo di funzionare meglio, con più risorse e più formazione. Abbiamo già strutture residenziali e centri diurni, spesso non adeguatamente finanziati, per offrire percorsi di cura e di accompagnamento, anche attivando cooperative sociali, onlus, familiari dei pazienti, associazioni sportive e culturali, ecc. C’è la mancanza di investimenti in attività terapeutiche che non costano molto ma potrebbero fare la differenza, come il teatro, lo sport, le vacanze al mare. Purtroppo, le aziende sanitarie, per paura di superare i tetti di spesa, tendono a rifiutare progetti di questo tipo. Così, i servizi di salute mentale si impoveriscono, trasformandosi in luoghi dove l’unica risposta è la diagnosi, prescrivere farmaci e mandare il paziente a casa».
La Legge 180 chiedeva una trasformazione nell’approccio alla salute mentale. Perché secondo lei questo cambiamento non è avvenuto?
La Legge 180 ha cambiato il nostro atteggiamento verso la malattia mentale: guardare l’altro, chi soffre di un disturbo mentale non è un nemico da temere, ma una persona da curare e da accompagnare
«La legge ci chiedeva di incontrare l’altro in una dimensione etica, non come oggetto, ma come soggetto, una persona reale con la sua storia, le sue passioni, le sue emozioni, i suoi fallimenti, i suoi bisogni. Questo è accaduto poco e oggi si sta perdendo del tutto. Molti psichiatri continuano a vedere il paziente solo attraverso il filtro della diagnosi, del farmaco, trattandolo come “cosa” da controllare. Negli ultimi 50 anni, pochissimi sul terreno della politica e delle psichiatrie hanno voluto investire per cambiare questo approccio».
La visione di “restare umani” vale solo per i pazienti?
«No, anche per chi si prende cura delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, familiari, operatori sanitari e tutto il personale. Anche loro meritano di lavorare in un sistema che valorizza la dignità e la collaborazione e che permetta loro di vivere una vita normale. È una responsabilità che dobbiamo condividere come comunità, perché solo così possiamo garantire un ambiente di cura che sia davvero umano».