La recente approvazione dell’Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con le farmacie pubbliche e private, che autorizza i Farmacisti a refertare i risultati delle analisi di prima istanza, genera attenzione tra i Tecnici sanitari di laboratorio biomedico (TSLB). Pur riconoscendo il ruolo centrale delle farmacie sul territorio, è fondamentale garantire che l’attuazione di tale accordo avvenga nel rispetto degli standard di qualità e sicurezza necessari per la tutela della salute pubblica.
Gli strumenti PoCT (Point-of-Care Testing) utilizzati nelle farmacie consentono analisi rapide, ma presentano una maggiore variabilità rispetto ai prelievi venosi effettuati nei laboratori accreditati, aumentando il rischio di errori. Solo professionisti qualificati, come i TSLB, Biologi e Medici specialisti in patologia clinica, biochimica clinica e microbiologia clinica, possiedono le competenze necessarie per garantire referti affidabili.
Le farmacie non sono strutture sanitarie e non possono certificare l’intero processo diagnostico: le analisi effettuate in questi contesti costituiscono solo una valutazione preliminare e non sostituiscono una diagnosi definitiva. Per questo, è essenziale che ogni referto sia validato da professionisti competenti, a garanzia della validazione tecnica e clinica.
La Commissione di albo nazionale dei TSLB della FNO TSRM e PSTRP sottolinea l’importanza di un chiaro distinguo tra servizi farmaceutici e diagnostici, evitando sovrapposizioni di competenze e garantendo ai cittadini prestazioni sicure e di qualità. In quest’ottica, le Case della comunità – previste dal DM 77/2022 – rappresentano il modello ideale per potenziare l’assistenza diagnostica di prossimità. Le farmacie, invece, possono offrire un valido supporto tramite la telemedicina, senza sostituire le attività dei laboratori.
Per affrontare il tema della sicurezza dei dati analitici nelle farmacie e garantire un’integrazione efficace tra farmacie e strutture sanitarie, la Commissione di albo nazionale dei TSLB propone un momento di confronto con il Ministero della salute, la Conferenza delle Regioni e le principali rappresentanze professionali – FOFI, FNOMCeO, FNO TSRM e PSTRP, FNOB – con l’obiettivo di assicurare standard qualitativi elevati nei servizi diagnostici e tutelare la salute pubblica con un approccio sinergico e rispettoso di ogni contesto e professione sanitaria.
Il mondo dermatologico e pediatrico da tempo sta rivolgendo sempre maggiore attenzione al tema cruciale della fotoprotezione. L’esposizione alla luce solare ha indiscutibilmente effetti salutari per il nostro organismo (basti pensare alla produzione della vitamina D) e ciò anche nell’età pediatrica. Tuttavia, è fondamentale esporsi al sole in modo prudente, sia per gli adulti, ma soprattutto per i bambini, perché i danni provocati dal sole possono influire sulla loro salute da grandi.
La radiazione ultravioletta è responsabile non solo di potenziali danni cutanei acuti, quali l’ustione solare e le fotodermatiti, ma anche e soprattutto di danni a lungo termine, come l’insorgenza di tumori cutanei e il photoaging. Il melanoma cutaneo, in particolare, sembra più facilmente correlato alle esposizioni intense e intermittenti che spesso causano ustioni solari, soprattutto a quelle avvenute nell’età pediatrica. I bambini, infatti, sono più suscettibili sia alle scottature solari, che ai danni a lungo termine, poiché le loro difese naturali sono meno efficienti, la pelle è più sottile e la melanina meno rappresentata. È stato calcolato che all’età di 20 anni ogni individuo ha ricevuto dal 40 al 50% del totale di radiazione ultravioletta raggiunto all’età di 60 anni e ciò fa comprendere meglio quanto sia importante la fotoprotezione in età pediatrica, specie per i bambini di pelle più chiara.
Le linee di indirizzo
La World Health Academy of Dermatology and Pediatrics (WHAD&P) ha riunito a Roma, presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi, un panel di esperti dermatologi e pediatri internazionali, per fare chiarezza sulla fotoprotezione pediatrica ed ha realizzato un documento condiviso “Linee di indirizzo per la fotoprotezione in età pediatrica” che, sulla base delle più recenti evidenze scientifiche, presenta un approccio globale, con gli stili di vita da seguire e i filtri da usare, per garantire efficacia e sicurezza.
Per una protezione corretta ed efficace e per prevenire i tumori cutanei (carcinomi e melanoma) occorre tenere presente alcuni punti cardine: identificare i soggetti a maggiore rischio; adottare adeguate misure di fotoprotezione finalizzate a prevenire le ustioni solari e limitare la quantità di raggi ultravioletti che raggiungono la pelle nel corso dell’intera vita; seguire una dieta ricca di alimenti contenenti antiossidanti (Vitamine C, E, A/Zinco, Selenio, Rame/Polifenoli e Flavonoidi/Carotenoidi/Probiotici).
La fotoprotezione, specie in età pediatrica, è indispensabile e non può limitarsi alla semplice applicazione di creme solari, ma richiede soprattutto misure protettive non farmacologiche e adeguati stili di vita
Il panel di esperti condivide le preoccupazioni relative alla potenziale tossicità dei filtri solari, già espresse da numerosi e autorevoli autori e da associazioni pediatriche. Molti filtri organici (filtri chimici) contengono sostanze che possono essere assorbite dall’organismo, producendo danni alla salute umana (interferenza endocrina, stimolo della formazione di carcinomi, reazioni allergiche) e possono risultare nocive per l’ambiente marino. Cautelativamente si consiglia di preferire sempre prodotti solari contenenti molecole inorganiche, soprattutto Ossido di Zinco, stabile e ad ampio spettro, possibilmente non formulato in nanoparticelle o nebulizzato, possibilmente associato a sostanze naturali con proprietà antiossidanti e immunostimolanti. Si auspica che le autorità sanitarie, italiane ed europee, possano cautelativamente bandire l’impiego delle molecole incriminate e più in generale possano considerare i filtri solari, similmente a quanto avviene negli USA, farmaci e non cosmetici.
Prima dei 6 mesi di vita, i bambini non dovrebbero essere esposti intenzionalmente al sole. Nel caso in cui l’esposizione, anche indiretta, sia inevitabile, si raccomanda di utilizzare indumenti protettivi ed eventualmente applicare creme solari con filtri inorganici quali l’Ossido di Zinco.
In generale tutti i bambini, quando possibile, dovrebbero soggiornare al riparo dal sole.
In caso di attività ricreative all’aperto, si dovrebbero utilizzate indumenti protettivi, preferibilmente di colore scuro (i colori scuri riparano più di quelli chiari, i tessuti asciutti più di quelli bagnati) e a trama fitta (denim, poliestere, cotone + poliestere), meglio ancora indumenti tecnici (Ultraviolet Protection Factor – UPF). È necessario indossare sempre un cappello, meglio se a falde larghe, per proteggere anche la parte posteriore del collo e delle orecchie, che resterebbero scoperte con i berretti con visiera e, quando possibile e se il bambino è consenziente, usare occhiali da sole, perché anche gli occhi possono risentire negativamente dell’esposizione solare prolungata (CE UV 100% o 100 UV 400 nm). La WHAD&P accoglie le indicazioni contenute nel documento del Gruppo Fotoprotezione della FIMP, Federazione Italiana Medici Pediatri, denominato COCCO, che ribadisce queste misure di fotoprotezione.
Quando non si è vestiti è necessario esporsi sempre con gradualità per lasciare alla pelle il tempo di produrre la melanina, che rappresenta una difesa naturale dai raggi solari; evitare di esporsi nelle ore centrali del giorno (dalle 11 alle 16) e nelle altre ore della giornata e alternare esposizioni brevi a periodi di non esposizione.
L’uso di creme solari
In alcune circostanze (attività ricreative all’aperto, soggiorno in spiaggia durante la stagione estiva ecc.), i filtri e gli schermi solari risultano necessari, specie per i bambini con carnagione molto chiara, per evitare le scottature e limitare la quantità di UV che penetrano nella pelle. In tal caso, si raccomanda di preferire creme solari contenenti Ossido di Zinco. La quantità giusta è di 2 mg per cm² di superfice corporea (circa 10-15 ml per l’intero corpo di un bambino di 5 anni), da applicare 30 minuti prima dell’esposizione e da ripetere ogni due ore e dopo il bagno.
Si raccomanda di evitare prodotti contenenti profumi, preferendo formulazioni resistenti all’acqua (water resistent o very water resistent).
Se possibile, verificare che il prodotto sia biodegradabile e che il packaging sia eco-sostenibile.
L’uso della crema solare non deve generare un falso senso di sicurezza e indurre ad aumentare i tempi di esposizione. L’arrossamento cutaneo e la sensazione di bruciore che lo accompagna sono i campanelli di allarme estremi, annunciano che si è superato il limite di sopportazione della propria pelle in quelle condizioni ambientali.
Fabio Arcangeli
«Queste linee di indirizzo rappresentano il contributo che la WHAD&P intende offrire alla comunità medico-scientifica affinché insieme si possano proporre linee guida comuni per una fotoprotezione efficace e sicura nell’età pediatrica – afferma il Fabio Arcangeli, Presidente WHAD&P -. Una recente indagine del Gruppo Fotoprotezione della FIMP ha evidenziato come la conoscenza in merito ai rischi dell’esposizione solare, dell’uso dei filtri solari e delle misure più adeguate per una fotoprotezione sicura sia ancora molto approssimativa, sia fra i pediatri di famiglia, che fra le famiglie dei loro assistiti. Per questo occorre intensificare l’opera di informazione e proporre campagne di sensibilizzazione rivolte soprattutto ai giovani, per evitare esposizioni incongrue alla luce solare e per evitare l’uso dei lettini abbronzanti. Dati recenti, provenienti da studi condotti negli Stati Uniti e in Australia, mostrano, infatti, una diminuzione di circa il 5% dei casi di melanoma tra le generazioni più giovani, come risultato dell’efficacia delle good practices di fotoprotezione attuate negli anni precedenti, rispetto ad un incremento di casi nella popolazione over 60, che non ha beneficiato di una adeguata fotoprotezione. È necessario, inoltre, che le istituzioni sanitarie italiane ed europee provvedano tempestivamente a bandire le sostanze incriminate e che, al pari di quanto avviene negli USA, considerino i filtri solari farmaci e non cosmetici, prevedendo così adeguati requisiti di sicurezza ed efficacia».
Lavorare in rete è tra gli obiettivi principali della riforma degli IRCCS, gli istituti a carattere scientifico che dopo 20 anni sono oggetto di una riforma che sta lentamente diventando operativa.
«La nuova legge permette di includere nelle reti anche altri enti del servizio sanitario, come l’Università. Si tratta di una possibilità che prima non era declinata a livello legislativo». Raffaele Lodi è direttore scientifico dell’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna, e Presidente della Rete IRCCS delle Neuroscienze e della Neuroriabilitazione istituita nel 2017. Per l’esperto, però, l’aspetto più rilevante riguarda l’assetto che la nuova legge permette: «Essere aggregati in una rete permette al singolo istituto di partecipare a programmi di ricerca a lungo termine con un assetto e una composizione dei partecipanti stabile, garantendo quindi un’interazione costante e che persiste nel tempo con gli altri IRCCS della rete». In altri contesti, infatti, è frequente che la collaborazione sia legata a un finanziamento: quando questo si esaurisce, anche la prima tende a chiudersi.
L’uso secondario dei dati sanitari
Raffaele Lodi
«Il metodo di lavoro della nostra rete è invece quello di lavorare costantemente, scambiandoci e condividendo i protocolli di indagine e le casistiche dei pazienti dei nostri istituti, indipendentemente dai flussi dei finanziamenti che ci impegnano su specifiche attività – spiega Lodi -. All’interno della rete sono quindi condivisi i dati che vengono raccolti nella normale pratica clinica: oggi si parla molto di big data, ma si fa poco riferimento alla qualità delle informazioni che vanno ad alimentare i sistemi». Da diversi anni, le reti IRCCS hanno avviato una politica rivolta primariamente al controllo della qualità dei dati clinici e strumentali che raccolgono sulle casistiche dei pazienti.
L’uso secondario dei dati sanitari mette in difficoltà anche gli istituti a carattere scientifico, sebbene possano beneficiare di una legislazione speciale: il Garante della Privacy ha infatti recentemente chiarito che, all’interno dell’IRCCS, i dati raccolti a scopo di cura possono essere utilizzati per la ricerca, a patto di svolgere e rendere pubblica una valutazione di impatto.
«Oggi vedo molta attenzione bipartisan sul tema dell’utilizzo dei dati sanitari – premette Lodi -. Noi tutti auspichiamo, nel rispetto dei diritti del singolo in termini di privacy e di trasparenza, una semplificazione da parte del legislatore, in modo da poter utilizzare con meno vincoli il frutto dell’attività clinica e assistenziale che si svolge nei nostri istituti. Pur avendo una legislazione ad hoc, anche negli IRCCS la gestione dei dati potrebbe essere migliorata».
L’interoperabilità dei sistemi
Anche per quanto riguarda un altro problema che da anni affligge la sanità, la mancata interoperabilità dei sistemi informatici, secondo Lodi «i limiti non sono tecnici o tecnologici, ma normativi». Le reti IRCCS, a seconda della progettualità, raccolgono i dati di un determinato programma di ricerca su piattaforme all’interno di un IRCCS, in modo che rimangano di proprietà del singolo istituto, ma possano essere condivisi. Oppure, si affidano a servizi esterni, come quello offerto dal CBIM appositamente per gli IRCCS.
Il Consorzio di Bioingegneria e Informatica Medica è un ente di ricerca no profit con personalità giuridica, nato nel 1992 per promuovere lo sviluppo di applicazioni IT nella sanità. Nel 2023, la Direzione Generale Ricerca e Innovazione in Sanità del Ministero della Salute ha invitato tutti gli IRCCS a valutarne l’adesione per armonizzare e programmare uniformemente lo sviluppo di servizi e strumenti software a supporto dell’attività dei singoli istituti e ottimizzare l’integrazione informativa con la piattaforma Workflow della Ricerca, utilizzata dal Ministero per la gestione dei bandi e il monitoraggio dei finanziamenti agli IRCCS. Trattandosi di una partecipazione volontaria, non tutti hanno aderito.
Per quanto riguarda la mancata interoperabilità tra sistemi, i limiti sono normativi, non tecnici
A inizio anno è stato firmato un protocollo di intesa biennale tra Alleanza Contro il Cancro (la rete per la ricerca in ambito oncologico) e Farmindustria per Health Big Data, un progetto che prevede lo sviluppo di una piattaforma integrata per raccogliere, condividere e analizzare i dati clinici e scientifici dei pazienti di ciascuno dei 51 IRCCS partecipanti al progetto.
Il progetto è finanziato con 55 milioni di euro e prevede la partnership con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e il Politecnico di Milano.
Il nodo delle risorse
Degli oltre 50 riconosciuti, una parte sono pubblici e l’altra privati: «Dal punto di vista giuridico, il fatto che esistano istituti pubblici e privati ha una valenza, anche nell’operatività quotidiana – ammette Lodi -. Un istituto pubblico deve operare come tutte le altre amministrazioni pubbliche, che spesso allungano i tempi ma al tempo stesso non pone limiti per quanto riguarda le casistiche che vengono trattate in istituto garantendo la massima libertà per i pazienti e per i ricercatori».
La riforma degli IRCCS arriva a 20 anni di distanza dalla legge precedente, che risale al 2003: «È stata un’opportunità per introdurre dei correttivi e contiene molti elementi positivi, come il maggior coinvolgimento del direttore generale per quanto riguarda il raggiungimento degli obiettivi di ricerca, affiancando in maniera più stretta l’attività del direttore scientifico – afferma Lodi -. Inoltre, ha definito in maniera forte il ruolo delle reti di patologie, fissando per legge la condivisione non solo di competenze, ma anche di attrezzature, con la finalità di realizzare laboratori virtuali distribuiti sul territorio nazionale che cercano di operare in modo integrato».
Un altro elemento positivo riguarda l’introduzione degli indicatori quantitativi che dovranno essere tenuti in considerazione da parte delle commissioni che valuteranno gli istituti per confermarne il carattere scientifico. «Anche la legislazione precedente prevedeva delle valutazioni ogni due anni, ma mancavano criteri oggettivi per confermare il livello di eccellenza dell’attività».
Resta il nodo delle risorse: a fronte di un allargamento previsto del numero di istituti a carattere scientifico, non è previsto un incremento dei fondi: «Il problema è importante perché è solo attraverso il finanziamento, in primis del Ministero della Salute, che possono essere sostenute le politiche di indirizzo degli istituti e delle reti di patologia», conclude Lodi.
Questa mattina, su Il Messaggero, è stata pubblicata una lettera della Ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini sulla riforma dell’accesso alla Facoltà a Medicina, che sarà approvata in via definitiva dalla Camera la prossima settimana. Una lettera in cui la Ministra si ostina a parlare di “superamento del numero chiuso”, quando la riforma non fa che spostare la selezione degli studenti alla fine del primo semestre. Quel che viene eliminato è il test d’ingresso, non il numero chiuso, che è essenziale per programmare in modo corretto il numero di medici che serviranno al Servizio sanitario nazionale nel prossimo futuro.
«Le parole della Ministra sono fuorvianti e potrebbero illudere migliaia di aspiranti medici – commenta Guido Quici, Presidente del sindacato dei medici Federazione CIMO-FESMED (a cui aderiscono le sigle ANPO, ASCOTI, CIMO, CIMOP e FESMED) -. E non è condivisibile nemmeno l’opinione che, con la riforma, l’accesso a Medicina sia “più equo, meritocratico e basato sulle vocazioni”. È vero che l’attuale sistema di selezione con il test d’ingresso nazionale va modificato, ma basare l’accesso a Medicina sul superamento degli esami del primo semestre e sulla media dei voti conseguiti risulta troppo discrezionale e non garantisce né l’equità né la meritocrazia. Non è detto, ad esempio, che tutti i professori abbiano lo stesso metro di giudizio nel dare i voti agli studenti e nel far superare o meno gli esami. Senza considerare i tanti problemi che le Università dovranno affrontare per garantire una formazione qualitativamente elevata ai circa 70mila studenti che frequenteranno il primo semestre».
«Occorre inoltre prestare particolare attenzione al numero di studenti che saranno ammessi a proseguire gli studi in Medicina. Pochi giorni fa la Ministra ha evidenziato come i posti a Medicina siano già stati aumentati di 30mila unità, “e continueremo nei prossimi anni”, ha detto. Una dichiarazione d’intenti pericolosissima, poiché si rischia di formare troppi medici che poi non troveranno lavoro, andando ad alimentare quella pletora medica già prevista; al contempo, un ampliamento del numero di studenti in Medicina potrebbe aggravare ulteriormente la carenza di altri professionisti sanitari, a partire dagli infermieri. Non si può giocare in questo modo con la vita e la carriera degli aspiranti medici e la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale», conclude Quici.
La Società Italiana di Farmacologia-SIF accoglie con favore la nuova mappa delle sperimentazioni cliniche dell’UE lanciata dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA). Questo strumento innovativo, basato sui dati in tempo reale del sistema informativo dell’UE sulle sperimentazioni cliniche, offre maggiore trasparenza e facilità di accesso alle informazioni sulle sperimentazioni in corso.
Grazie a questa piattaforma, pazienti, operatori sanitari e ricercatori possono ora individuare facilmente gli studi clinici attivi in base alla condizione medica e alla localizzazione geografica. Il database fornisce informazioni dettagliate sulla fase della sperimentazione, i criteri di idoneità, le sedi di svolgimento e i contatti dei ricercatori, facilitando l’accesso a opportunità di ricerca rilevanti.
La ricerca scientifica è il motore dell’innovazione in medicina e farmacologia. Ogni studio clinico rappresenta un tassello fondamentale per sviluppare nuove terapie, migliorare l’efficacia dei trattamenti e garantire ai pazienti le migliori opzioni di cura disponibili. Rendere più accessibili e visibili queste sperimentazioni significa rafforzare il legame tra scienza e società, creando nuove opportunità per il progresso medico e per il benessere collettivo.
Armando Genazzani
Il Presidente della Società Italiana di Farmacologia, Armando Genazzani, ha commentato: «La buona notizia è che l’EMA ha sviluppato un bellissimo strumento per individuare dove si svolgono i trial clinici. La seconda buona notizia è che guardando la cartina, l’Italia non è messa così male rispetto ad altri Paesi. La notizia meno positiva è che l’Europa centrale (Paesi come il Belgio, l’Olanda e la Germania) ha una densità di studi clinici nettamente superiore a noi. Gli studi clinici portano conoscenze, opportunità per i pazienti e ricchezza: è fondamentale lavorare insieme per aumentare la nostra attrattività, anche in considerazione del peso che abbiamo, invece, come mercato».
La SIF ribadisce il proprio impegno nel supportare tutte le iniziative che promuovono la ricerca clinica, la trasparenza e la partecipazione dei pazienti ai progressi scientifici.
È online da oggi il Bando Bollino Rosa relativo al biennio 2026-2027. Fino al 31 maggio 2025 gli ospedali interessati, pubblici e privati accreditati al SSN, possono accedere alla procedura di auto-candidatura registrandosi e compilando il questionario sul sito dedicato all’iniziativa.
Il Bollino Rosa è un riconoscimento conferito dal 2007 da Fondazione Onda ETS agli ospedali italiani che offrono servizi dedicati alla prevenzione, diagnosi e cura non solo delle specifiche problematiche di salute femminile, ma anche delle patologie che riguardano trasversalmente uomini e donne, per cui vengono realizzati percorsi ospedalieri dedicati al genere femminile. Gli obiettivi principali sono incentivare gli ospedali a considerare le specifiche esigenze delle donne nella programmazione dei servizi clinico-assistenziali e supportarle in una scelta consapevole della struttura ospedaliera più idonea sulla base delle proprie necessità cliniche.
Il Bollino Rosa si pone come un modello virtuoso di networking tra ospedali, per promuovere la cultura della salute di genere femminile e lo scambio di esperienze e buone pratiche. L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio di 31 Società Scientifiche ed Enti Pubblici. Attualmente, la rete del Bollino Rosa è costituita da 361 ospedali pubblici e privati accreditati al Sistema Sanitario Nazionale (SSN). L’assegnazione del Bollino Rosa avviene sulla base dei seguenti criteri: presenza di specialità cliniche che trattano sia problematiche di salute tipicamente femminili sia che sono trasversali ai due generi e che necessitano di percorsi differenziati per le donne; tipologia e appropriatezza dei percorsi diagnostico-terapeutici e servizi clinico-assistenziali in ottica multidisciplinare gender-oriented; offerta di servizi relativi all’accoglienza e alla degenza delle utenti a supporto dei percorsi diagnostico-terapeutici (es. volontari, mediazione culturale, assistenza sociale) e tipologia e appropriatezza dei percorsi dedicati alla gestione della violenza fisica e verbale sulla donna e sugli operatori.
«La 12a edizione del Bando Bollino Rosa, che cade nell’anno del ventennale di Fondazione Onda ETS, è rivolta agli ospedali italiani attenti in particolare alla salute delle donne. Gli ospedali con il “Bollino” acquisiscono un valore distintivo e differenziante nell’ambito del panorama sanitario nazionale, essendo parte di un circuito virtuoso istituzionalmente riconosciuto, contraddistinto per l’impegno e l’attenzione alle esigenze della salute di genere femminile – afferma Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda ETS -. Quest’anno sono vent’anni che Fondazione Onda ETS coinvolge e pone al centro dei suoi progetti tutti gli attori del mondo della salute per promuovere una cultura della medicina di genere a livello nazionale e migliorare la salute delle donne attraverso una corretta informazione, sottolineando l’importanza della prevenzione primaria, della diagnosi precoce e dell’aderenza terapeutica nelle patologie a maggior impatto epidemiologico».
Tramite l’elaborazione di un punteggio sulla base delle risposte fornite a ogni domanda, ciascuna con un valore prestabilito, Fondazione Onda ETS elabora un punteggio totale finale e assegna da 1 a 3 Bollini Rosa. Le aree specialistiche considerate nel Bando sono 18: cardiologia, dermatologia, diabetologia, dietologia e nutrizione clinica, disciplina medicina del dolore e terapia del dolore, endocrinologia e malattie del metabolismo, ginecologia e ostetricia, medicina della riproduzione, neurologia, oftalmologia, oncologia ginecologica, oncologia medica, pediatria, pneumologia, psichiatria, reumatologia, senologia, urologia e infine servizi generali rivolti alle pazienti e sostegno alle donne e al personale ospedaliero vittime di violenza.
«Una misura abnorme e spropositata che rischia di scatenare uno tsunami di carenze di medicinali per le malattie croniche, principalmente fuori brevetto, con conseguenze molto serie per l’accesso dei pazienti alle cure e per la sostenibilità dei sistemi sanitari europei».
L’associazione dei produttori europei di equivalenti, biosimilari e VAM, Medicines for Europe, bolla così la Direttiva 2024/3019 sul trattamento delle acque reflue urbane (UWWTD), in vigore dal 1° gennaio e in attesa di recepimento da parte degli Stati membri, appena impugnata davanti alla corte di Corte di giustizia UE da dieci multinazionali del settore dei farmaci fuori brevetto (off patent).
A darne notizia è la stessa Medicines for Europe in un comunicato appena diffuso a sostegno dell’azione legale che mira a «evitare un onere di costi discriminatorio e sproporzionato e quindi a salvaguardare l’accesso dei pazienti ai medicinali essenziali».
L’UWWTD introduce un sistema di “responsabilità estesa del produttore” (EPR) sulla vendita di medicinali e cosmetici come forma di finanziamento degli investimenti necessari all’introduzione del trattamento quaternario delle acque reflue urbane, quello cioè che dovrebbe garantire l’eliminazione dello spettro più ampio possibile di sostanze residue nelle acque delle abitazioni e degli esercizi commerciali urbani.
Orientata ad incoraggiare la pratica del riutilizzo delle acque reflue urbane trattate, in particolare nelle zone soggette a stress idrico, la Direttiva punta da un lato a ridurre più efficacemente l’inquinamento alla fonte, con particolare attenzione alle acque reflue industriali che recapitano nella rete fognaria servita da impianto di trattamento finale, mentre introduce dall’altro il trattamento quaternario per la rimozione delle sostanze residue, in particolare nel caso del riutilizzo destinato all’irrigazione agricola.
Nonostante il rispetto da parte dei siti di produzione delle severe leggi sulle emissioni, l’EPR introdotta dalla Direttiva punta a far sostenere almeno l’80% dei costi di adeguamento degli impianti al trattamento quaternario ai produttori di medicinali per uso umano e di cosmetici, perché, sostiene la Commissione, è dal consumo e dall’errato smaltimento dei relativi prodotti da parte di pazienti e clienti che deriva la gran parte dei residui presenti nelle acque reflue urbane attribuibili a questi settori. In realtà si sta ignorando che questi provengono da molteplici altre fonti industriali o agricole.
Il prezzo dei prodotti della cosmesi potrà essere adeguato a far fronte ai nuovi oneri; i produttori di medicinali equivalenti non avranno la possibilità di adeguare liberamente i prezzi per effettuare una compensazione e si ritroveranno con prodotti resi economicamente non sostenibili dalla nuova direttiva, considerando che le tariffe EPR saranno basate sul volume di medicinali dispensati ai pazienti in ogni stato membro. Risultato: il sistema EPR colpisce in modo sproporzionato i produttori di medicinali fuori brevetto, in particolare equivalenti e biosimilari spina dorsale dei sistemi sanitari UE. rappresentando il 70% dei medicinali dispensati e il 90% dei medicinali essenziali, ma solo il 19% della spesa farmaceutica.
La Direttiva stima in 1,2 miliardi di euro l’anno il costo del trattamento delle acque, cifra che sarebbe invece drammaticamente sottostimata secondo le proiezioni basate su stime nazionali di Paesi come la Germania e secondo il raggruppamento europeo degli enti e delle imprese incaricate del trattamento delle acque a livello nazionale, che attesterebbero a una cifra oscillante tra i 5 e gli 11 miliardi di euro all’anno il costo reale dell’operazione.
Anche le cifre più basse fornite dalla Commissione europea per la Direttiva sarebbero comunque insostenibili secondo le proiezioni di Medicines for Europe: pur assorbendo solo il 19% del mercato a valori l’industria dei farmaci equivalenti e biosimilari si troverebbe a sostenere fino al 60% dei costi dello schema, con un impatto senza precedenti sulle forniture di medicinali utilizzati ogni giorno da milioni di pazienti in Europa. Si rischia che determinati medicinali, come ad esempio la metformina (diabete), l’amoxicillina (antibiotico) o il levetiracetam (epilessia) spariscano progressivamente dal mercato, privando i pazienti di cure essenziali e salvavita.
Inoltre, l’obiettivo dichiarato del sistema EPR di incentivare lo sviluppo di farmaci più ecologici non tiene conto delle specificità del settore farmaceutico, in cui modificare la composizione dei prodotti è un processo estremamente complesso e spesso impraticabile senza compromettere l’efficacia terapeutica.
«Sosteniamo fermamente le azioni legali contro il sistema discriminatorio e sproporzionato di responsabilità estesa del produttore nella direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane – commenta il Direttore generale di Medicines for Europe, Adrian van den Hoven –. L’accesso all’assistenza sanitaria è un diritto fondamentale dei cittadini europei. Questa imposizione impraticabile e insostenibile contraddice questo diritto fondamentale e mette a repentaglio tutti gli sforzi per migliorare l’accesso ai medicinali».
Con il titolo Farmacia centrata sulla persona – Navigando nella sanità digitale, si apre tra due giorni a Copenaghen il 29 Congresso della Società Europea di Farmacia Ospedaliera-EAHP, evento che richiama e coinvolge migliaia di professionisti dai 36 Paesi membri a riflettere sul presente e sul futuro di una professione che negli anni si è evoluta andando a rappresentare uno dei maggiori stakeholders dell’intero sistema continentale del farmaco. «Come di consuetudine la presenza di SIFO all’evento EAHP sarà numerosa e qualificata – sottolinea Arturo Cavaliere, presidente SIFO -. Ma quest’anno la nostra partecipazione è ancora più prestigiosa che nel passato perché oltre ai rappresentanti abituali e consolidati, registriamo il nuovo ruolo internazionale assunto da Chiara Lamesta, recentemente nominata alla guida del Gruppo Giovani EAHP a conferma del posizionamento rilevante e riconosciuto che l’esperienza italiana ha sul piano scientifico-professionale internazionale».
Gli argomenti
Quali sono le tematiche qualificanti di EAHP 25? In un messaggio introduttivo al Congresso, il presidente EAHP, Nenad Miljković (Head of Hospital Pharmacy Services, Institute of Orthopaedics-Banjica, Belgrado, Serbia), ha sostenuto che il Congresso avvicinerà «tutti alla valutazione sempre più appropriata di ciò che offriamo ai pazienti che cercano cure farmaceutiche negli ospedali e nei sistemi sanitari europei in complesse infrastrutture digitali. Inoltre – ha proseguito Miljkovic – il Congresso si svolge in tempi di riforma generazionale della legislazione farmaceutica, segnando l’inizio di diversi approcci verso l’ambiente digitale in cui si interconnettono cure incentrate sul paziente e senza soluzione di continuità, garantendo al contempo un’assistenza sanitaria sicura e ottimizzando i risultati sanitari». «Centricità della persona, rivoluzione digitale e governance del farmaco sono i temi su cui la nostra professione è chiamata a confrontarsi sia in Italia che in tutta Europa – commenta Cavaliere -. Da anni l’attività SIFO si concentra su questi argomenti, che contengono nella loro vastità e complessità le sfide che i servizi sanitari si trovano ad affrontare nel tempo presente. E che quindi, inevitabilmente indicano i percorsi anche formativi che i nostri giovani professionisti devono riuscire a percorrere».
Il programma e la presenza italiana
All’interno di un programma che prevede venti sessioni plenarie ed oltre quaranta workshop, con un’area poster che raccoglierà i migliori 200 lavori provenienti da tutta Europa, l’intervento della neo coordinatrice dei giovani farmacisti ospedalieri europei Chiara Lamesta è previsto nella sessione plenaria Young Professionals – A European perspective on hospital pharmacy training (12 marzo, ore 10.30, Auditorium), promossa per confrontare ed armonizzare i programmi formativi (istruzione pre-laurea, specializzazione post-laurea, stage, residenza, diplomi specifici) dei farmacisti ospedalieri nelle diverse nazioni europee. La delegazione italiana SIFO a Copenaghen sarà rilevante e qualificata: hanno infatti già confermato la loro partecipazione ai lavori EAHP – oltre a Lamesta e Piera Polidori, che è membro del Board dell’Associazione europea – anche Emanuela Omodeo Salé (Direttivo SIFO), Titti Faggiano (Presidente Collegio dei Sindaci SIFO) e Carlo Polidori (Editorial board dell’Hospital Pharmacy Journal, pubblicazione peer reviewed di EAHP). Insieme a loro anche decine di soci SIFO che hanno sottoposto le loro pubblicazioni e poster alla selezione del Comitato Scientifico EAHP.
La sanità territoriale continua a essere al centro del dibattito politico per trovare la quadra che permetta di mantenere l’universalità e l’equità di accesso alla salute da parte dei cittadini italiani. Tra i nodi da sciogliere, quello della tenuta della rete della Medicina Generale è uno dei più critici: sono sempre di meno e c’è il rischio che si arrivi a un punto di non ritorno per l’eccessivo numero di pazienti che ciascun MMG si trova a dover gestire. Tra le soluzioni proposte c’è chi parla di passaggio dalla convenzione alla dipendenza. Può essere la strada giusta? Ed è sostenibile dal punto di vista socio-economico? O si possono trovare soluzioni migliori? Ecco la “ricetta” che abbiamo raccolto dal presidente FNOMCEO, Filippo Anelli.
La fondazione GIMBE ha lanciato un allarme relativo alla tenuta della medicina generale. Ha parlato di “rischio di estinzione” del medico di famiglia, tra l’attuale carenza di 5.200 unità e i previsti 7.300 pensionamenti da qui a due anni. Il rischio di estinzione è concreto?
«Perdere i medici di famiglia sarebbe una iattura per il Sistema sanitario nazionale, perché rappresentano l’equità di accesso alle cure da parte dei cittadini, che scelgono personalmente il proprio medico. Il rischio di estinzione esiste: nel nostro Paese sarebbe necessario un MMG ogni mille abitanti, il che corrisponderebbe a circa 50mila medici di famiglia. Oggi siamo a 37 mila unità, con un trend in discesa. La preoccupazione è reale e l’idea di rendere il MMG un dipendente del SSN si inserisce in questa eventualità perché, senza la libera scelta da parte dei cittadini e la conseguente continuità di cura, si correrebbe davvero il rischio di scomparsa della figura del medico di famiglia».
Tra le criticità che vive la medicina generale c’è anche una certa ritrosia dei giovani medici a scegliere questa specializzazione. Si parla del 15% delle borse di studio non assegnate a livello nazionale e di regioni in cui ne sono state coperte solo sei su dieci. È così poco attrattiva questa professione agli occhi dei nuovi camici bianchi?
«Ci sono due aspetti: il lavoro e la formazione. Le borse per formarsi in Medicina Generale sono poco attrattive perché hanno un valore che è la metà di quelle per le specializzazioni. Un giovane che deve scegliere come formarsi preferisce prendere 1.600 euro al mese con la specializzazione per quattro-cinque anni, piuttosto che 800 euro per tre anni. Oltre al fatto che il contratto per la specializzazione prevede anche una serie di tutele ad esempio per la maternità.
Le borse per formarsi in Medicina Generale sono poco attrattive perché hanno un valore che è la metà di quelle per le specializzazioni
Quanto al lavoro in sé, devo dire che la Medicina Generale è sempre stata molto attrattiva per i giovani soprattutto per la possibilità di instaurare un rapporto vero ed empatico con gli assistiti, che normalmente vengono seguiti lungo tutta la loro vita. È un lavoro che affascina per l’autonomia di questa professione e per l’empatia che esso esprime. Oggi però i carichi di lavoro sono aumentati moltissimo, soprattutto a livello burocratico. Il che porta a dover sacrificare la relazione con i pazienti: una cosa non proprio attraente per un medico che voglia svolgere il proprio lavoro con passione. Basti pensare che oggi in media ogni MMG ha in carico 1.300 cittadini, con punte di 1.800 e oltre in alcune realtà del Nord. Si capisce quindi lo snaturamento della figura del medico, che deve rendere un numero troppo elevato di prestazioni. Aggiungiamo poi che la professione è imbrigliata, ad esempio a causa della ridotta l’autonomia prescrittiva dovuta ai piani terapeutici.
Ancora, viene sacrificata molto anche la possibilità che il MMG avrebbe di fare ricerca. Un’attività praticamente scomparsa, che invece andrebbe incentivata. Ne ho parlato recentemente con il presidente dell’Istituto superiore di Sanità (ISS), Rocco Bellantone, perché la quantità di dati che raccoglie il MMG permetterebbe di fare ricerche epidemiologiche e di genere estremamente interessanti. La reazione di Bellantone è stata di grande apertura. Si tratta di mettere in moto un sistema di lavoro».
Eppure non si può pensare a un mancato cambio generazionale del medico di famiglia, soprattutto alla luce delle dinamiche demografiche e delle conseguenze che esse portano con sé in termini di cronicità. Quale “ricetta” ritiene più utile per non rimanere scoperti?
«Vedo diverse soluzioni che prevedono alcune un impegno economico minimo, altre più importante. In primis, dovremmo chiamare il medico di famiglia “Specialista in Medicina Generale”, un aspetto formale che però darebbe maggiore prestigio alla categoria. Nel tempo la differenziazione dei titoli ha portato a ritenere che gli specialisti organo-specifici fossero superiori agli specialisti olistici (i MMG), ma credo sia giusto che il titolo sia uguale perché deriva da un’analoga formazione post lauream. Come dicevo prima andrebbe conseguentemente allineato il valore delle borse di studio. Si tratta di una misura che avrebbe un costo stimato di 25-30 milioni di euro all’anno. Un costo che credo sia accessibilissimo per il Sistema che consentirebbe di dare un immediato impulso a nuovi ingressi nella Medicina Generale.
Allo stato attuale viene sacrificata molto anche la possibilità che il MMG avrebbe di fare ricerca
Ancora, bisognerebbe togliere i legacci di carattere prescrittivo, i piani terapeutici delle malattie croniche, così da restituire autonomia e valore professionale al MMG. Del resto lo abbiamo visto durante la pandemia: con l’abolizione dei piani terapeutici la sanità è migliorata.
A ciò si deve aggiungere l’obbligo di avere un supporto amministrativo di almeno un collaboratore di studio. In questo senso, la Regione Puglia fa da apripista: ha sottoscritto un accordo che prevede che il MMG deve avere un collaboratore che lo supporta negli aspetti burocratici per almeno 10 ore alla settimana, economicamente coperte dalla Regione. È un primo cambio di rotta».
Recentemente è tornata in auge l’ipotesi di trasformare la convenzione dei medici di medicina generale in un rapporto di dipendenza dal SSN. Quale potrebbe essere a suo avviso una SWOT analysis di questa eventualità? Sarebbero di più i punti di forza e le opportunità o i pericoli e le debolezze di un cambiamento di questo tipo?
«Se il cambio avvenisse a costi invariati, la sostenibilità economica della trasformazione porterebbe a un dimezzamento immediato del numero attuale di MMG. A meno che il Governo non voglia investire risorse in questo senso. Naturalmente dimezzare il numero di MMG non farebbe che precipitare le performance della sanità territoriale.
A questo proposito è bene ricordare che nell’OCSE l’Italia è tra i Paesi con il più basso rapporto per quota del PIL investita in sanità, ma tra le nazioni che hanno performance migliori. Come testimonia la longevità della popolazione. Il che significa che il nostro SSN, che parte dalla sanità territoriale fatta in gran parte dai MMG, è molto efficiente.
L’Italia è tra i Paesi OCSE con il più basso rapporto per quota del PIL investita in sanità, ma tra le nazioni che hanno performance migliori
I medici di famiglia non vedono di buon occhio l’eventuale dipendenza dal SSN, perché verrebbe meno la tipicità del suo lavoro che è in larga parte contraddistinto dall’essere a disposizione dei cittadini, in qualche modo a prescindere dal numero di ore di lavoro. La mia preoccupazione in caso di passaggio dalla convenzione alla dipendenza è che si riduca l’efficienza e l’equità di accesso alla salute. A oggi, non ci sono studi scientifici che indichino che questa sia la strada giusta per una migliore assistenza sanitaria alla popolazione».
Gli ultimi anni hanno fatto comprendere che la chiave di volta per continuare a garantire una sanità pubblica con caratteristiche di universalità ed equità è agire sulla sanità territoriale. Perché è qui che si può lavorare per evitare molta parte delle complicanze e delle acuzie che richiedono interventi diagnostici e terapeutici molto onerosi dal punto di vista economico e sociale. Quale deve essere (e può essere) a suo avviso il nuovo ruolo del medico di medicina generale?
«Stiamo andando verso una medicina sempre più personalizzata. Con il progetto Genoma si potrà avere una conoscenza precisa dei fattori che possono influenzare la propria salute. In questo senso il MMG dovrà affrontare sempre più il tema delle scienze “omiche”. Piuttosto che perdersi nelle chiacchiere del passaggio da convenzione a dipendenza, mi concentrerei su un progetto di sviluppo della Medicina Generale verso la medicina personalizzata. È questa la sfida del futuro. E ha un grande strumento a disposizione per poter essere affrontata con successo: l’intelligenza artificiale».
Ogni giorno, con il loro impegno professionale, le infermiere lavorano attivamente sulle tematiche di genere, sui percorsi di carriera e sulla rappresentanza femminile nella categoria.
Colonna portante della professione, rappresentando il 76,5% degli iscritti, le infermiere in Italia si misurano da sempre con l’attualità dell’essere donna e professionista, affrontando difficoltà e proponendo soluzioni per colmare le differenze che, anche in ambito lavorativo, persistono tra uomo e donna.
Lo testimoniano le prime anticipazioni dello studio condotto dall’Osservatorio Pari Opportunità di Genere nelle Professioni Ordinistiche, promosso dalla Fondazione per la Professione Psicologica “Adriano Ossicini” del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi (CNOP) in collaborazione con la Federazione nazionale degli Ordini delle Professioni infermieristiche (FNOPI). A partire dal mese di giugno al settembre 2024 è stato somministrato un questionario, diffuso attraverso i canali comunicativi della Federazione, che ha permesso di raccogliere più di 4mila risposte, utili a tratteggiare la percezione degli intervistati, opinioni ed esperienze in termini di pari opportunità, benessere, salute, soddisfazione di vita, discriminazioni e questioni di genere.
Hanno risposto soprattutto donne (il 79.5%). Il 50% dei partecipanti ha più di 50 anni, il 10.6% è in possesso di una laurea magistrale e il 20% con master o dottorato.
Il report raccoglie dal 41,9% delle donne intervistate l’affermazione di aver subito discriminazione nella propria vita lavorativa: per il 44,6% la causa è legata al proprio genere di appartenenza, mentre per il 43.5% deriva dalla situazione familiare.
Il 27,5% delle donne che hanno compilato il questionario ritiene, quindi, “molto importanti”, all’interno della professione, le tematiche legate alle parità di genere in termini di percorsi e opportunità e il 26.6% in termini di rappresentanza e ruoli direttivi.
Complessivamente, dai primi dati anticipati, si rende evidente una forte richiesta di osservazione e rilevazione dei fenomeni che emergono dalle risposte date al questionario. Un’istanza alla quale, pian piano, si sta rispondendo con l’introduzione – sia in strutture sanitarie che presso le università – di corsi di formazione e programmi di mentoring, nonché di supporto e counseling per aiutare le infermiere a gestire meglio lo stress, l’ansia e il burnout, e compiere un passo in avanti contro le discriminazioni e le disparità di genere.