Parlare di digitale e di intelligenza artificiale vuol dire parlare di dati. Questo è ancora più concreto quando ci occupiamo di sanità. «Una trentanovenne italiana sfida l’OMS». Cita questo e altri titoloni di New York Times e Wall Street Journal, a lei dedicati nel 2006, la professoressa Ilaria Capua parlando della diatriba che la vide protagonista allora, proprio a proposito della sua decisione di rendere di dominio pubblico la sequenza genica del virus dell’aviaria e di non inserirlo in una banca dati ristretta e ad accesso limitato.
Dobbiamo usare i big data per capire la complessità di determinati fenomeni tra cui le interazioni fra acqua, aria, terra e fuoco e proteggere la salute a tutti i livelli
«Quella difficile battaglia ha contribuito alla creazione delle attuali banche dati aperte che sono state fondamentali, ad esempio, per contrastare il covid-19 – spiega Capua, che ora è Senior Fellow of Global Health, Johns Hopkins University – SAIS Europe, a TrendSanità a margine dell’evento Data Talks – Verso lo spazio europeo dei dati sanitari organizzato da Culture –. Perché noi virologi e gli altri ricercatori impariamo le caratteristiche dei virus confrontandoli con quelli del resto del Mondo. Per l’influenza si isolano i nuovi e si confrontano con quelli isolati negli anni precedenti per creare i vaccini. Ora è chiaro che un fenomeno di diffusione planetaria come una pandemia non si può contrastare se la ricerca va avanti con ogni Paese che si guarda solo i “suoi” virus. Abbiamo visto anche come la pandemia abbia colpito prima alcuni Paesi, tra cui l’Italia, e trasmettere e rendere disponibili determinate informazioni sui ceppi virali in circolazione ha aiutato il mondo scientifico a fare dei passi avanti per esempio con le terapie, con la diagnostica o con i vaccini. I test, i tamponi e la diagnostica devono essere testati sui virus che sono in circolazione in quel momento, non sui virus che erano in circolazione tre anni fa. Quindi avere un posto e avere un modo per confrontare questi virus isolati fa sì che noi possiamo essere molto più efficaci nel rispondere a queste emergenze sanitarie».
Una battaglia combattuta in prima persona con difficoltà che ha portato Ilaria Capua anche ad elaborare il suo modello di “salute circolare”
«Chi lavora per la salute pubblica, e in particolare si concentra su questi fenomeni così pervasivi, credo non possa non comprendere l’importanza di dati condivisi e armonizzati e quindi io ci ho sempre creduto e ho combattuto moltissimo. Diciamo che questo aspetto della mia ricerca che sfrutta i big data per dare risposte vere e concrete alle persone mi ha portato a sviluppare il concetto di “salute circolare”, che ora chiamiamo one health, che riconosce che la salute delle persone è necessariamente interconnessa a quella degli animali, delle piante e dell’ambiente. Mi rifaccio al paradigma acqua, aria, terra e fuoco. La nostra salute, come dicevano gli antichi greci, è governata da questi fenomeni ed è governata anche dalle interazioni fra questi fenomeni naturali. Quindi fa troppo caldo e soffrono le tartarughe di mare, il cambiamento climatico fa sì che le spiagge vengano sempre più erose e si perde biodiversità. Il fuoco, da incendi e da combustione, distrugge biodiversità e peggiora la qualità dell’aria. Tutto è connesso e, soprattutto nell’epoca post covid-19, dobbiamo usare i big data per capire la complessità di determinati fenomeni tra cui, appunto, le interazioni fra acqua, aria, terra e fuoco e proteggere la salute a tutti i livelli».
La nuova “battaglia” si chiama resistenza agli antibiotici
«L’OMS prevede che nel 2050 moriranno più persone di infezione da batteri antibioticoresistenti che di cancro. Quindi è un problema che sta crescendo e che, ovviamente, durante il covid-19 è cresciuto ancora di più perché si sono usati tantissimi antibiotici. È un problema che è legato all’abuso degli antibiotici in medicina umana, in medicina veterinaria e anche in agricoltura, ma è dovuto anche al mancato smaltimento appropriato dei farmaci. Quindi io invito la popolazione a rendersi conto che, se ognuno di noi non fa il suo pezzettino, questo problema diventerà talmente grave che noi non riusciremo a venirne a capo. E quindi dico sempre negli eventi pubblici di raccontare questa cosa almeno ad una o due persone per diffondere questa consapevolezza.
La resistenza agli antibiotici è legata non solo all’abuso in medicina umana, veterinaria e agricoltura ma anche allo smaltimento inappropriato dei farmaci
E poi è importante fare presente a chi gestisce la “farmacia” di casa che, quando si svuota il cassetto dei farmaci, non bisogna buttarli nell’immondizia, né nel secco, né nell’umido, né tantomeno nel gabinetto, perché da lì vanno nell’acqua, e dall’acqua vanno nella terra e nell’erba che mangiano gli animali, e ci tornano indietro con quello che mangiano noi. Le contaminazioni ambientali fanno sì che queste molecole circolino troppo. Quindi vanno smaltiti correttamente, in farmacia o nei punti di raccolta, e poi invito tutti, medici, infermieri, professionisti sanitari e cittadini, a farne un uso ragionato. L’antibiotico va usato solo quando serve, non quando uno ha qualche linea di febbre o un po’ di mal di testa, oppure quando si fa un piccolo intervento. In questi casi l’antibiotico non serve. Bisogna reimparare ad usarli e soprattutto imparare a gestirli».