Intramoenia e liste d’attesa: è nato prima l’uovo o la gallina?

Intramoenia e liste d’attesa dovrebbero essere due binari paralleli, con la prima che fornisce una possibilità in più al cittadino: scegliersi un professionista di riferimento rimanendo nella sanità pubblica. Eppure oggi la situazione è più complicata e necessita di interventi di vigilanza e controllo, a partire dai dati annualmente forniti da Agenas nel rapporto Alpi

Nel 1999 l’allora ministro della Salute Rosy Bindi introdusse per la prima volta il concetto di intramoenia, cioè la possibilità, per i medici che avessero scelto un rapporto di esclusività con il Servizio sanitario nazionale, di lavorare in libera professione all’interno delle strutture sanitarie.

La scelta, non revocabile e da compiere all’inizio del rapporto di lavoro, comporta un’indennità in busta paga e l’impossibilità di lavorare presso cliniche o studi privati. Da allora chi lo desidera, tuttavia, può, dopo aver espletato i propri compiti verso il Ssn, dedicarsi alla libera professione negli ambulatori e con la strumentazione messa a disposizione dall’azienda per la quale lavora. Dal compenso che riceverà dal paziente, il medico dovrà destinare una quota alla propria azienda, più un 5% previsto dalla legge per finanziare attività volte all’abbattimento delle liste d’attesa.

Negli anni, a causa della mancanza di spazi, si è spesso assistito alla cosiddetta intramoenia allargata: il professionista, cioè, era costretto a esercitare la libera professione al di fuori della propria struttura di appartenenza, con una serie di problemi logistici e non solo. E non sono purtroppo mancate le truffe ai danni del Servizio sanitario nazionale.

La legge 120/2007 prima e il decreto Balduzzi poi hanno cercato di contenere questo fenomeno (che avrebbe dovuto avere carattere temporaneo) che negli anni è effettivamente andato calando. Secondo i dati dell’ultimo monitoraggio  Agenas sullo stato di attuazione dell’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria (Alpi), infatti, nel 2020 il 91% delle prestazioni è stato erogato esclusivamente all’interno degli spazi aziendali, l’8% esternamente all’azienda ma secondo le tipologie previste (come studi privati collegati in rete o presso altre strutture pubbliche previa convenzione). Soltanto l’1% dell’attività è stata svolta presso studi non ancora collegati in rete.

Nonostante l’intramoenia sia stata più volte demonizzata, nelle intenzioni del legislatore dovrebbe garantire una possibilità in più al cittadino che, se lo desidera, può scegliere un professionista di riferimento

Oggi, i professionisti che esercitano la libera professione intramuraria sono sempre meno: se nel 2013 esercitava l’Alpi il 46,1% dei medici dipendenti del Ssn, nel 2020 questa percentuale è scesa al 38,9%, poco più di un terzo. La ragione? Principalmente economica (i professionisti preferiscono mantenere la possibilità di esercitare anche l’attività privata al di fuori degli ospedali) e di carico di lavoro (il Covid ha peggiorato le condizioni di lavoro dei dipendenti del Ssn).

Nonostante l’intramoenia sia stata più volte demonizzata, nelle intenzioni del legislatore dovrebbe garantire anche una possibilità in più al cittadino che, se lo desidera, può scegliere un professionista di riferimento.

In un sistema sanitario che funziona, intramoenia e liste d’attesa sono due binari paralleli: “L’idea è permettere al cittadino che lo desideri di avere a che fare con lo stesso medico in una particolare specialità – afferma Maria Pia Randazzo, Dirigente Ufficio Statistica e flussi informativi sanitari di Agenas – Non è un caso che la visita e l’ecografia ginecologica siano tra le visite e prestazioni più richieste in intramoenia. Di fronte a un tema così delicato, è comprensibile che la donna desideri avere un punto di riferimento da incontrare periodicamente”. Nel pubblico, infatti, il cittadino sceglie l’ambulatorio, mentre non ha voce in capitolo rispetto al professionista che lo prenderà in carico e che, nel caso di visite multiple, potrebbe cambiare.

Il mancato equilibrio tra i volumi

Agenas stila ogni anno un rapporto delle prestazioni prenotate in attività libero professionale che analizza i trend basandosi su un set di 12 indicatori: 3 riguardanti adempimenti regionali e 9 quelli delle singole aziende. “L’ultimo report ha mostrato come le Regioni stiano andando verso il totale adeguamento alle norme – afferma Randazzo – A livello territoriale, invece, la situazione è abbastanza variegata e ci sono differenze soprattutto a livello aziendale”. Al momento infatti sono 14 le Regioni che hanno raggiunto i 3 obiettivi, tutti riconducibili alla pianificazione, al coordinamento e alla valutazione e controllo (Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna, Toscana, Umbria e Veneto); ne restano 7 che devono ancora implementare alcune parti. L’unica Regione che dal 2018 ha superato l’esame per tutti e 12 gli indicatori sono le Marche: “Sono ormai 4 anni, quindi possiamo parlare di un trend consolidato. Una delle ragioni che potrebbe aver contribuito a questo ottimo risultato è l’avere una sola Asl – ragiona Randazzo – Anche se questo elemento, da solo, non basta, come possiamo vedere da altre Regioni che hanno una situazione analoga ma non hanno ancora completato l’iter di adeguamento”.

Gli indicatori aziendali sono relativi al pagamento delle prestazioni direttamente all’azienda tramite metodi di pagamento che ne garantiscono la tracciabilità, la determinazione degli importi da corrispondere d’intesa con i dirigenti, l’applicazione della trattenuta del 5% del compenso corrisposto al professionista per interventi di prevenzione o per l’abbattimento dei tempi di attesa, la definizione dei volumi in attività libero professionale, allineamento dei tempi di attesa.

La legge prevede che, per ciascun professionista, i volumi della libera professione intramuraria non possano essere superiori a quelli che effettua nel Ssn

E proprio questo ultimo punto è il più critico: “Si tratta di un adempimento che dovrebbe essere stabilito nel momento in cui si definiscono i budget – spiega Randazzo – Siccome però i volumi non possono essere infiniti, occorre porre un tetto calcolato in relazione alla domanda. Occorre quindi guardare i trend delle singole strutture e valutare quanti medici hanno optato per l’esclusività”.

La legge prevede infatti che, per ciascun professionista, i volumi della libera professione intramuraria non possano essere superiori a quelli che effettua nel Ssn.

Esiste quindi un problema di pianificazione a monte e di controllo a valle: nonostante siano le stesse aziende sanitarie a fornire i dati ad Agenas, alla fotografia scattata raramente seguono interventi operativi per mitigare la situazione.

“I volumi sono quindi un elemento nel quale non siamo ancora arrivati a un risultato soddisfacente – allarga le braccia Randazzo – Tuttavia, stiamo prestando maggiore attenzione a questo tema: abbiamo avviato una serie di audit con alcune Regioni, proprio per capire insieme come intervenire per andare a migliorare questo aspetto dell’equilibrio tra i volumi”.

Le liste d’attesa

Sebbene in un mondo ideale intramoenia e liste d’attesa non dovrebbero avere punti in comune, la realtà dei fatti è ben diversa. Cittadinanzattiva, nel suo ultimo rapporto civico, evidenzia come il 36,7% delle persone che hanno effettuato segnalazioni ha dichiarato di essersi rivolta alle attività libero professionali intramurarie a causa della mancata certezza sui tempi di erogazione delle prestazioni nel pubblico. “Per alcune prestazioni in questo periodo nel pubblico ci sono attese che superano anche l’anno – afferma Valeria Fava, responsabile del coordinamento delle politiche della salute di Cittadinanzattiva – Le stesse prestazioni, se effettuate in intramoenia, sono erogate in qualche decina di giorni. E spesso è lo stesso Cup a dirottare verso l’intramoenia”.

Nel suo rapporto Agenas conferma questo dato: il 57,1% delle prenotazioni in Alpi ha un tempo di attesa inferiore ai 10 giorni, il 28,4% viene fissato tra gli 11 e i 30-60 giorni e solo il 14,5% ha tempi che superano i 30-60 giorni.

Eppure professionisti e strutture sono le stesse. Come si spiega questa differenza di trattamento? “Credo sia un mero problema organizzativo – spiega Randazzo – Serve un controllo assoluto sulla domanda e sull’offerta, con una capacità di mettere in rete anche l’offerta delle strutture private accreditate e con monitoraggi settimanali per modificare eventuali disallineamenti. Quando questo viene fatto, prestazioni con 80-90 giorni d’attesa vengono erogate in 15 giorni”.

La forbice temporale che esiste tra l’erogazione da parte del Ssn e quella in intramoenia ha conseguenze anche sull’appropriatezza prescrittiva

La forbice temporale che esiste tra l’erogazione da parte del Ssn e quella in intramoenia ha conseguenze anche sull’appropriatezza prescrittiva: “Le prestazioni in Alpi non hanno un codice di priorità, mentre quelle del canale pubblico sì – ricorda Fava – Assistiamo quindi a richieste pressanti dei pazienti nei confronti dei propri medici curanti affinché questi inseriscano un codice di priorità che magari non ritengono necessario, solo per accelerare l’erogazione della prestazione. Si tratta di un meccanismo perverso che genera un grande caos”.

Per Fava questo avviene per mancanza di controllo e cattiva applicazione della normativa esistente: “La legge 120 prevede un meccanismo fondamentale: i volumi delle prestazioni erogate in intramoenia non possono superare quelle del pubblico – ricorda – E anche nel Piano nazionale per il governo delle liste di attesa, che è scaduto da un anno, afferma che, qualora io non riceva l’appuntamento nel Ssn nei termini stabiliti, possa accedere comunque alla prestazione utilizzando i canali istituzionali (dentro una struttura pubblica o nel privato convenzionato) e alle stesse condizioni, quindi pagando solo il ticket se previsto. Queste due norme che riguardano il mantenimento dell’equilibrio dei volumi e il rispetto dei tempi, però, non sono controllate in modo costante, per cui avvengono quelle situazioni registrate dalla stessa Agenas, che fa un lavoro ottimo di trasparenza”.

Fava cita l’esempio virtuoso della Lombardia che, almeno in passato, laddove non ci fosse disponibilità nei tempi previsti, attivava in modo automatico il percorso di garanzia.

Per quanto riguarda la vigilanza sull’intramoenia, poi, la rappresentate di Cittadinanzattiva ricorda come dal 2010 sia prevista l’istituzione di organismi regionali di controllo, che vedano la presenza anche delle organizzazioni civiche e delle associazioni. “Da quanto emerge dall’ultima relazione al Parlamento sullo stato di attuazione dell’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria, questi non sono presenti in 5 Regioni e, laddove sono stati attivati, sono trattati come meri adempimenti formali, con una ridotta partecipazione esterna – osserva Fava – Gli strumenti per far funzionare l’Alpi esistono, si tratta di renderli efficaci”.

L’educazione del cittadino

Nel nostro Paese esiste un problema di appropriatezza: non sempre tutti gli esami diagnostici prescritti, per esempio, sono davvero necessari o quantomeno urgenti. Questo aspetto si nota soprattutto nella diagnostica per immagini.

Uno degli elementi che potrebbe controllare visite in eccesso è la telemedicina che, se ben strutturata, potrebbe risolvere gran parte delle criticità che oggi sono presenti sulle visite di controllo. “È necessario che il prossimo Piano di governo delle liste d’attesa, che mi auguro arrivi a breve, tenga conto dei cambiamenti avvenuti, in primis Pnrr e piano territoriale, che andrebbero recepiti”, afferma Randazzo.

“Credo che, oltre all’azione di audit che abbiamo avviato con la Direzione delle professioni sanitarie del Ministero e le Regioni, sarebbe altrettanto importante promuovere campagne di sensibilizzazione degli utenti in merito all’appropriatezza – afferma Randazzo. La sanità non ha fondi infiniti e a volte manca questa consapevolezza nel cittadino”. La dirigente Agenas, che precisa di star parlando a titolo personale, richiama i principi della Slow Medicine, quella filosofia che combatte lo spreco richiamandosi all’appropriatezza e affermando il principio che non sempre fare di più significa fare meglio. “Credo che una maggiore sensibilizzazione dei cittadini, partendo magari dalle scuole, potrebbe aiutare in questo senso”.

Dello stesso avviso anche Fava: “Il problema esiste – ammette – Penso sia un percorso da compiere insieme e che ha molto a che vedere con la relazione medico-paziente. Il primo dovrebbe recuperare un po’ di quell’autorevolezza che ha perso, scalzato dal dottor Google. D’altra parte, però, il cittadino dovrebbe imparare ad ascoltare e affidarsi ed eseguire quello che il medico gli dice. La mancata aderenza alle terapie è un danno enorme, sia per il cittadino che per il sistema. È un doppio binario che si dovrebbe incontrare a un certo punto, in uno scambio”.

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