La proposta dell’Istituto Mario Negri per la sanità lombarda

Le criticità del modello sociosanitario lombardo sono emerse in un tempo relativamente breve, dopo la riforma regionale del 2015, rendendo ancora più pesante l’impatto della pandemia da Covid-19. Il professor Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, ha avanzato una proposta per promuovere un nuovo paradigma delle cure primarie e della medicina del territorio.

L’idea stessa di proporre la revisione di una riforma approvata da soli cinque anni, seppur in un momento particolare, difficile e delicato, come quello di una pandemia, non può non porre l’accento sul fatto che il modello attualmente in vigore in Lombardia presenta delle criticità e che queste ultime, a giudizio di chi lavora sul campo, si sono evidenziate in un tempo relativamente breve.

Nel 2015 la Legge regionale 23 ha avviato un lento processo di cambiamento, volto a trasformare l’erogazione pura e semplice della prestazione sociosanitaria in un modello di “presa in carico” che ha coinvolto e ripensato prima di tutto la funzione gli enti preposti all’erogazione dei servizi. Fra le tante novità, il cambiamento più importante ha riguardato proprio la creazione delle ATS, le Agenzie di Tutela della Salute, nate dall’accorpamento delle vecchie ASL. È proprio dalla abolizione o quanto meno dalla revisione del numero e del ruolo di questi nuovi enti che parte la proposta di riforma del sistema sociosanitario lombardo avanzata dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.

 

L’analisi delle criticità

La logica che muove chi sostiene che vi sia una necessità di cambiamento del sistema è quella di eliminare organi terzi che si frappongono fra gli ospedali e la Regione, nell’ottica di un concetto di cura che si muova su una ridefinizione di tipo distrettuale. Con la Legge 23, l’assetto fortemente centrato sull’ospedale ha di fatto favorito un processo di marginalizzazione della componente territoriale e il ruolo dei distretti è stato sostanzialmente svuotato. La trasformazione delle Aziende Ospedaliere in ASST, Aziende Socio Sanitarie Territoriali e la trasformazione di alcuni Ospedali in Presidi Territoriali, deputate all’erogazione di prestazioni residenziali sanitarie e sociosanitarie a media e bassa intensità per acuti e cronici (ossia tutto quello che concerne le cosiddette cure primarie) ha fatto sì che i dipartimenti deputati alla prevenzione e alla sanità pubblica siano rimasti in carico alle ATS, privandoli dei rapporti con la medicina territoriale. Il risultato, secondo chi propone una riforma della riforma, è un’asimmetria che si sviluppa in primis tra ospedale e territorio e poi tra pubblico e privato, in assenza di una cabina di regia super partes.

 

Si è sviluppata un’asimmetria tra ospedale e territorio, e tra pubblico e privato

“In questa corsa competitiva per la presa in carico dei malati cronici, i cosiddetti ‘gestori’ pubblici e privati sono entrati in una competizione ulteriore con la medicina di base facendo emergere una alternativa al servizio pubblico totalmente svincolata dal contesto territoriale, con funzioni che avrebbero dovuto essere funzioni distrettuali”, ha affermato il professor Remuzzi, spiegando che di conseguenza è emersa la scarsa capacità da parte dei servizi territoriali, impoveriti e disorganizzati, di dare risposte sul territorio ai bisogni sociosanitari di importanti settori di popolazione come anziani, malati psichiatrici e soggetti socialmente fragili.

Non è un caso che il settore dell’Assistenza Domiciliare Integrata abbia visto un decremento di assistiti, a vantaggio di un modello istituzionale di presa in carico che ha decretato un incremento del numero di posti letto nelle RSA, quasi tutte private.

 

L’effetto della pandemia su un sistema carente

Secondo Alessandro Nobili, Angelo Barbato e Giuseppe Remuzzi, firmatari di un documento contenente la sintesi della proposta di riforma che è stato presentato alla commissione regionale preposta, la gestione della pandemia da coronavirus ha ulteriormente messo a nudo le profonde carenze del sistema sanitario lombardo e l’eccessivo sbilanciamento del sistema sugli ospedali. “PreSST (Presidi Socio Sanitari Territoriali) e POT (Presidi Ospedalieri Territoriali) non sono stati adeguatamente finanziati e sono stati realizzati solo in misura minima – hanno affermato i firmatari del documento -: in Lombardia sono stati attivati solo tredici PreSST e nei pochi casi esistenti non hanno coinvolto i medici di medicina generale e i servizi sociali dei Comuni, ai quali è stata sottratta la funzione di interlocutori dei servizi sanitari, relegandoli a un ruolo marginale nella partecipazione alle scelte della programmazione socio-sanitaria”.

Quali aspetti della Legge regionale 23 sono da rivedere?

 La cancellazione del Distretto dalla mappa dei servizi sanitari regionali e lo svuotamento del ruolo dei Comuni ha fatto sì che venisse meno la capacità del territorio di valutare i bisogni della comunità, di intervenire proattivamente sulle patologie, sia infettive che acute (come, per esempio, la Covid-19), ma anche su quelle croniche rendendo più complicato il delicato compito di prevenire aggravamenti, scompensi e ospedalizzazioni. Il risultato è che sempre più persone non più autosufficienti sono state progressivamente ricoverate in strutture come le RSA, a discapito dell’offerta di servizi domiciliari di tipo socio-sanitario che favoriscono il lavoro multidisciplinare dei professionisti.

Aspetti e spunti metodologico-operativi

Secondo i firmatari della proposta presentata dall’Istituto Mario Negri di Milano per attuare una riorganizzazione sostanziale dell’attuale assetto delle cure primarie lombarde è necessaria una revisione di alcuni punti importanti della Legge 23.

“Il riassetto delle cure primarie non può essere di fatto effettuato senza che si prenda atto del fallimento della delibera sulla gestione della cronicità che va ricondotta ai Distretti supportati dai PreSST, o da altre forma di medicina aggregativa, in grado di fornire assistenza continuativa”, hanno spiegato i firmatari del documento presentato alla Regione, sottolineando in particolare che:

  • va rivisto il numero e il ruolo delle ATS, dal momento che attualmente non sono altro che uffici decentrati della Regione e pertanto enti inutili che si frappongono tra la Regione stessa e le ASST, con l’aggravante di gestire direttamente servizi importanti come prevenzione, sanità pubblica e cure primarie, sottraendole all’integrazione con la medicina territoriale;
  • va ripensato il ruolo chiave del Distretto come ambito territoriale ideale per garantire una risposta assistenziale integrata sotto il profilo delle risorse, degli strumenti e delle competenze professionali;
  • le ASST, per avere l’effettiva gestione della rete territoriale organizzata in Distretti di dimensioni ragionevoli (60-100.000 abitanti), devono avere l’assegnazione di territori ben definiti con tutti i servizi sul territorio (inclusi i poliambulatori specialistici) dipendenti dai distretti, che quindi dovrebbero essere classificati come strutture complesse.

Rimettere al centro il servizio pubblico

Se si riorganizza il ruolo della ASST secondo una logica distrettuale e se si aboliscono le ATS è possibile avviare un percorso di riforme mirato alla riorganizzazione dell’assistenza territoriale in Lombardia con l’obiettivo di far prevalere un forte governo da parte del pubblico e in cui il privato accreditato svolga un ruolo di integrazione sulla base di contratti di fornitura, nell’ottica di un rapporto di valorizzazione.

La logica dice che la programmazione, l’accreditamento e la definizione dei contratti di fornitura vengano centralizzate a livello Regionale, con o senza il supporto di una apposita Agenzia, riservando alle ASST la loro applicazione a livello territoriale. Questo implica un forte ruolo della programmazione sanitaria Regionale basata sul governo pubblico, la valutazione dei bisogni e l’uso dei dati epidemiologici.

Se il Distretto, con un bacino di utenza di massimo 100.000 abitanti a seconda delle caratteristiche del territorio, potrà ritornare ad avere un ruolo centrale per la rilevazione dei bisogni, l’organizzazione dei servizi e l’integrazione ospedale-territorio attraverso un raccordo che coinvolga gli amministratori locali e gli enti politico-istituzionali si potrà tornare a garantire nuovamente continuità di cura che nella situazione attuale, secondo i firmatari della proposta, sembra essere più difficoltosa per via del rapporto giuridico contrattuale instituito fra medici di base e pazienti.

Promuovere la continuità di cura e la presa in carico globale deve essere una priorità

“È necessario che venga rivisto il ruolo del Dipartimento di Sanità Pubblica nell’ottica di un coordinamento dei percorsi e delle attività assistenziali – hanno affermato i professionisti del Mario Negri -: se si prende in considerazione la possibilità di una ricollocazione giuridica e contrattuale, tramite il passaggio dal rapporto in convenzione a quello di dipendenza dei medici di medicina generale (MMG), pediatri di libera scelta (PLS) e delle diverse forme di aggregazione all’interno del sistema delle cure primarie, il rapporto di lavoro verrà nuovamente strutturato per obiettivi e risultati di salute e non per prestazioni erogate. Ciò a beneficio della possibilità di poter tornare a promuovere la continuità di cura (ospedale-territorio e all’interno delle reti territoriali di servizi socio-sanitari) e la presa in carico globale dei bisogni del malato attraverso un approccio multi e inter-disciplinare mirato alla valorizzazione delle diverse professioni socio-sanitarie”.

Secondo questo nuovo modello, anche la medicina integrata con le altre professionalità (specialisti ambulatoriali, infermieri, psicologi, assistenti sociali) è da incentivare, investendo sulla telemedicina integrata e non sostitutiva del rapporto medico-paziente, così come delle nuove tecnologie e della digitalizzazione per lo scambio di informazioni socio-sanitarie e per la personalizzazione delle cure.

Nella proposta, infine, si propone che siano le cure primarie a gestire, in collaborazione strutturata con i servizi sociali comunali attraverso protocolli formali di collaborazione, anche la prevenzione, l’educazione sanitaria e organizzino forme di consultazione e partecipazione dei cittadini.

 La medicina generale posta allo stesso livello delle scuole di specializzazione

Per ridare centralità al settore della medicina generalista bisognerebbe partire dalla formazione. L’attuale percorso di formazione post-laurea in medicina generale andrebbe rivisto e integrato, per essere trasformato in disciplina universitaria con l’istituzione di uno specifico settore scientifico disciplinare equivalente, e non di secondo livello rispetto alle altre scuole di specializzazione.

Nel nuovo modello sanitario la presa in cura del paziente, a tutti livelli, dovrebbe basarsi infatti su interprofessionalità, intersettorialità, coordinamento e integrazione di operatori e di interventi, con la creazione di una nuova e più consolidata relazione tra sociale, sanitario e assistenziale per una reale ed efficiente presa in carico globale e gestione dei bisogni di salute sempre più complessi delle comunità. In altre parole, un sistema che sappia garantire prevenzione, presa in carico, cure e assistenza, che non lasci indietro le persone più fragili e che le sappia accompagnare nel percorso di assistenza e cura, garantendo a tutti la stessa qualità e che rimetta sul territorio tutto ciò che non è da ospedale, che finanzi il privato solo per obiettivi raggiunti e che coinvolga nelle scelte e nella programmazione gli stessi pazienti-cittadini.

Cure primarie e medicina del territorio dovrebbero diventare luogo di formazione e ricerca sul campo

“Per dare valore a questa nuova visione, un’ulteriore proposta potrebbe essere quella di trasformare le Cure Primarie e la medicina del territorio in una disciplina universitaria con l’istituzione di una Scuola di Specializzazione universitaria che formi contemporaneamente alle Cure Primarie, alla Medicina Generale e alla Medicina di Comunità e che porti come conseguenza alla creazione di percorsi formativi pre- e post-laurea comuni alle diverse figure professionali (medico, infermiere, assistente sociale, psicologo, etc.) che si troveranno a lavorare insieme nelle Cure Primarie – hanno concluso Remuzzi e i firmatari della proposta di riforma -. Le Cure Primarie e la medicina del territorio dovrebbero diventare, in primis per i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, ma anche per tutti i professionisti sociosanitari coinvolti, un luogo di formazione e ricerca sul campo, con progetti di ricerca proposti e condotti da e per le Cure Primarie, che siano in grado di produrre evidenze direttamente trasferibili nei diversi contesti di prevenzione e cura all’interno del SSN”.

In conclusione, il nuovo paradigma delle cure primarie e della medicina del territorio dovrebbe in qualche modo andare oltre il concetto di sanità, per interrogarsi e proporsi come nuovo modello di salute che sia in grado di rispondere sia ai bisogni del singolo sia alle esigenze di una comunità, attraverso la promozione di stili di vita sani, la prevenzione delle malattie, il trattamento e la cura del paziente acuto, la presa in carico e la gestione integrata del paziente cronico complesso e fragile, il coinvolgimento nelle cure riabilitative, palliative e nella gestione del fine vita.

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Sofia Rossi
Giornalista specializzata in politiche sanitarie, salute e medicina