Parlare di Intelligenza Artificiale è ormai all’ordine del giorno, ma non per questo l’argomento è di semplice comprensione, considerando soprattutto le svariate applicazioni in cui le macchine sono invitate a mostrare la propria “capacità di ragionare”. Uno degli ambiti di applicazione dell’Intelligenza Artificiale è la Sanità, con tutte le sue branche di riferimento. Tra queste, la Psichiatria.
Per saperne di più, abbiamo intervistato Benedetta Vai, ricercatrice presso l’Unità di Psichiatria e Psicobiologia Clinica della Divisione di Neuroscienze dell’Ospedale San Raffaele di Milano, diretta dal Prof. Francesco Benedetti.
La dottoressa Vai da più di dieci anni si occupa di neuroscienze cliniche e psichiatria, utilizzando strumenti di ricerca propri di psicobiologia, genetica e brain imaging. Psicoterapeuta e autrice di più di 50 articoli scientifici, negli ultimi anni ha concentrato i propri studi sulle risposte che l’intelligenza artificiale può dare alle sempre più complesse domande di natura clinica che si pongono in merito ad origine, decorso e guarigione delle condizioni psicopatologiche.
Come l’AI può essere applicata alla psichiatria e alla psicologia clinica? E perché farlo?
“A oggi la salute mentale è uno dei grossi temi in termini di salute pubblica: lo abbiamo visto anche con la pandemia da COVID-19. La depressione, per esempio, è la seconda causa di disabilità al mondo dopo le malattie cardiovascolari, e colpisce una persona su venti (un numero in costante aumento). Al momento, il processo di diagnosi e cura si basa principalmente sulla raccolta di segni e sintomi e su quello che il clinico può osservare e indagare durante un colloquio, spesso quando il paziente sta già male.
Inoltre, nella maggior parte dei casi i pazienti mostrano quadri clinici misti e, in molti casi, una diagnosi corretta non predice comunque la risposta ai trattamenti, costringendo a diversi tentativi prima di trovare una cura efficace.
È proprio qui che può venire in aiuto la ricerca: nell’ultima decade sono state identificate diverse misure biologiche e cliniche, inclusa la struttura e il funzionamento cerebrale, la genetica e il profilo infiammatorio, che potrebbero aiutare nel processo di cura a predire i suoi effetti, modellando i trattamenti sui bisogni e sulla biologia dei singoli pazienti. L’idea è usare l’intelligenza artificiale per gestire la complessità di questi dati e identificare dei pattern ricorrenti, che il clinico può usare come ulteriore elemento diagnostico e di guida alla terapia”.
Qual è stato il bisogno che ha dato il via a questa serie di ricerche?
“Come ricercatrice ho incontrato nel mio lavoro una moltitudine di ricerche, ognuna con dei risultati interessanti in termini di fattori associati ai disturbi, compresi i possibili correlati neurobiologici o meccanismi sottostanti. Questi risultati avevano però una limitata ricaduta clinica, non permettendo di essere usati su casi futuri. Come potevamo trasformare tutta questa conoscenza in qualcosa che aiutasse in modo più diretto i pazienti? Considerando quelle che ad oggi sono delle questioni urgenti in psichiatria e psicologia clinica – come ad esempio il fatto che non tutte le persone rispondono allo stesso modo ai trattamenti o che le diagnosi possono essere in alcuni casi poco chiare – il machine learning è sembrata la risposta più logica“.
Ci sono aspetti etici da non trascurare?
Gli aspetti etici sono molto importanti quando si parla di AI e machine learning
“Gli aspetti etici sono molto importanti quando si parla di AI e machine learning, e le questioni su cui interrogarsi sono diverse: dalla proprietà e protezione dei dati, alla privacy, alla gestione di potenziali bias nell’addestramento di algoritmi o errori e all’implicazioni in termini di indicazioni sul trattamento e diagnosi. Prima di poter utilizzare questi algoritmi nella pratica clinica c’è ancora della strada da fare, ma un rifiuto categorico sull’uso di queste metodologie in psichiatria non sarebbe etico, considerando i suoi potenziali benefici. È però sicuramente necessaria un’attenta valutazione. Anche a livello europeo si stanno definendo nuove linee guide per regolamentare l’applicazione di questo tipo di tecnologie e il loro impiego nei processi di cura”.
Attualmente, presso l’IRCSS Ospedale San Raffaele di Milano, sono in corso progetti di ricerca su questi argomenti? Ci può spiegare meglio in cosa consistono? Come si chiamano e chi coinvolgono? Ci sono già delle evidenze scientifiche?
“Attualmente nella nostra Unità abbiamo diversi progetti di ricerca su queste tematiche, finanziati da enti statali come il Ministero della Salute o l’Unione Europea, in collaborazione con altri gruppi in Italia e all’estero. L’obiettivo è quello di utilizzare queste tecniche su grandi database, unendo le forze, per poter rispondere alle domande cliniche più urgenti, identificando così delle possibili strade per una medicina personalizzata più efficace. In particolare, ci stiamo occupando di tematiche come la depressione post-partum, la diagnosi nei disturbi dell’umore e lo sviluppo di malattie somatiche in pazienti psichiatrici. Stiamo pubblicando i primi dati molto promettenti: tecniche di Machine Learning applicate a dati di neuroimaging permettono di predire con buona accuratezza le diagnosi differenziali, la scarsa risposta ai trattamenti e l’insorgere della malattia cardiovascolare“.
Quali sono, allo stato attuale, le metodologie che risultano più efficaci e promettenti?
“Sembra ormai chiaro che non esiste un algoritmo migliore di altri in termini assoluti. La metodologia dev’essere tagliata sul tipo di domanda, sul campione e sul dato che si analizzerà: questo è compito dell’essere umano”.
Qual è il panorama attuale estero e italiano nell’utilizzo di metodi basati sull’AI per migliorare la cura e la prevenzione dei disturbi della salute mentale?
Serve una collaborazione sempre maggiore tra l’accademia e le aziende
“Il mondo intero è impegnato nella creazione dell’AI “perfetta”: basti notare il clamore attorno al chatbot ChatGPT che ha scosso i giganti della Silicon Valley. Questo sta avvenendo anche per quanto riguarda la salute mentale. All’interno di un progetto europeo, per esempio, stiamo collaborando con un’azienda italiana e con gruppi di ricerca in tutta Europa allo sviluppo di un’app per telefoni cellulari che permetterà alle donne in gravidanza di essere allertate rispetto al loro rischio di sviluppare depressione, per ricevere più velocemente supporto clinico: questo usando dati come il movimento, l’espressione facciale e l’intonazione della voce. In generale, la richiesta è di una collaborazione sempre maggiore tra l’accademia e le aziende: come si suol dire, l’unione fa la forza. Ma la strada da fare è ancora molta per poter essere realmente competitivi e proporre soluzioni sicure ed efficaci”.
Lei, come ricercatrice e psicoterapeuta, che cosa si augura per la ricerca in questo campo?
“La mia speranza è che questi metodi possano via via essere integrati nella pratica clinica come supporto ai professionisti della salute mentale. Questo può avvenire solo attraverso la ricerca in studi multicentrici, anche internazionali, su ampie popolazioni”.